Marracash si racconta a Vanity Fair: ecco cosa è emerso 

L’artista Marracash si racconta a Vanity Fair alla vigilia del suo primo grande festival: ecco cosa è emerso 

Milano, 12 settembre 2023 – Alla vigilia del suo primo grande festival, Marrageddon, l’artista si racconta a Vanity Fair in un’intervista potente: dall’infanzia alla iperattività, alla passione per la musica che lo ha aiutato a superare errori e inciampi. E ancora, la sua idea di felicità e l’importanza di lasciarsi andare alle emozioni per fare canzoni che «lascino il segno».

Con l’album Persona il rap è diventato qualcosa che cantano anche le signore.

«Mio malgrado, non nel senso che mi dispiace, anzi, ma nel senso che non era nelle mie intenzioni. Credo sia successo perché in quelle canzoni ci sono urgenza e verità: venivo da una crisi, dovevo tirarla fuori. Persona è uscito mentre impazzava Salvini, coi social pieni di cazzate. Ma evidentemente c’era, e c’è, una maggioranza silenziosa che al circo non partecipa. Del successo del disco non mi sono reso davvero conto perché è arrivato il covid. Sono rimasto in quel mood profondo ed è lì che è nato l’album Noi, loro, gli altri. Mi sono accorto di quello che era successo solo quando ho finito il tour, un anno fa. In quest’anno è cambiato tutto: mi sono comprato la casa, lo studio, ho sistemato i miei genitori».

Leggi anche –>Grande Fratello, Angelica e la clip di presentazione: ha mentito?

Che cosa ne pensano loro di questo successo?

«Siamo sempre stati diversi, anche quando ero piccolo. Io ero quello strano: il figlio intelligente, ma matto. Li ho messi in discussione su tutto: la loro vita, il loro modello di famiglia. Con mio fratello è stato più facile perché è più simile a loro, la sua vita più in continuità: ha una moglie, due figli. Però poi credo che, quando sono riuscito a veicolare la mia stranezza nella musica, si siano rasserenati, e ora siano orgogliosi di me. Abbiamo fatto il giro e ci siamo ritrovati. Mia mamma è diventata una mia fan, mi dice sempre: “Come sono belle le tue canzoni”».

Che forma ha la luce che coglie negli altri artisti?

«La forma di una forza che ti strappa fuori dal tuo contesto, qualunque esso sia. Ieri ho incontrato Baby Gang, che è sotto sorveglianza per dei reati, e a me è sembrato un ragazzo fantastico che ha davvero voglia di scrivere, fare musica, sognarla. Per lui la vita è stata tutto un disastro, da quando è nato. E a un certo punto si ritrova a fare musica, e la sa fare: cazzo allora diventa sì qualcosa a cui ti aggrappi con tutto te stesso. Penso ad Anna, Madame. E a Tedua che ha un background complicato e una passione che ti arriva dritta in faccia. Ragazzi strani, come me, salvati dalla musica. A loro agio solo lì, mentre fanno qualcosa che sanno fare. La musica è un amore. Io credo che tutti debbano avere un amore nella vita. E, esattamente come nell’amore tra persone, anche con la musica funziona che se tu la tratti bene, lei ti ripaga».

Bisogna venire da un contesto difficile per fare della buona musica?

«Il contesto difficile è qualsiasi cosa. I soldi o la famiglia “normale” non contano, perché magari hai delle mancanze affettive e il contesto difficile sei tu. L’unica condizione che mi pare necessaria è la sensibilità. Un artista deve essere trascinato dalle sue emozioni. Almeno io lo sono».

Quello che dice del bisogno di sollecitazioni mi fa pensare alla droga. Nelle sue canzoni si parla anche di dipendenze.

«Io sono ipersollecitato di mio. Ho bisogno di calmarmi: fumo marijuana, prendo sonniferi. Con le droghe ho avuto rapporti diversi, in diverse fasi della vita. Sono venuto in contatto con la droga per la prima volta a 14 anni, nel mio quartiere ne girava parecchia. E questa penso sia stata una salvezza perché ho fatto molte esperienze in gruppo, per curiosità. Che è diverso dal farlo da adulti. Penso che scoprire la droga a 30 anni, da soli, sia molto, molto pericoloso. Grazie a Dio la mia relazione con le sostanze non è mai diventata patologica, nel senso che non le ho mai usate come strumenti per affrontare il dolore. Ho visto molti amici rovinarsi parecchio. Li ho visti cominciare per scherzo, lo scherzo si è trasformato in abitudine, l’abitudine in dipendenza, la dipendenza in guai. A un sacco di gente che ho attorno vedo che sta arrivando il conto. Quel conto fa impressione e non fa per niente ridere».

L’intervista completa è disponibile sul numero di Vanity Fair in edicola dal 13 settembre e online sul sito di vanityfair.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *