
Sono in fila alla cassa del supermercato vicino casa. Non è un supermercato nel quale mi trovi particolarmente soddisfatto a fare la spesa, ma è quello più vicino, e quindi è qui che vengo quando manca qualcosa di cui mi rendo conto all’ultimo. Essendo in sei in famiglia vengo qui praticamente tutti i giorni, nonostante poi una volta alla settimana io vada a fare una spesa molto importante, di quelle che mi vedono tornare a casa con sei, sette, a volte anche otto di quelle buste gigantesche in plastica rigida, piena di cose. Ora, però, sono in fila alla cassa del supermercato vicino casa. Le cassiere, ma questa è un po’ una costante di tutti i supermercati nei quali mi capita di andare, anche in quello dove vado a fare la spesa settimanale, sono piuttosto scontrose, ben oltre la soglia della maleducazione. Non le mando a quel paese perché in fondo sto sempre dalla parte di chi se la deve sfangare, ma essere trattati come merde mentre sei lì a far sì che il supermercato dove lavorano non chiuda mi sembra onestamente paradossale. Di casse, in questo supermercato, non molto grande, ce ne sono tre, ma una viene usata praticamente come se fosse uno scaffale su cui tenere prodotti fallati, ma fallati da anni, perché l’ho sempre vista piena di roba e vengo qui da almeno sei anni. Le altre due si alternano, mai aperte in contemporanea, a seconda di quale delle cassiere sia al momento in rotazione. L’unica un minimo gentile, una ragazza tatuata che potrebbe essere tailandese o indonesiana, vallo a sapere, ora lavora in una scuola guida a due passi da qui, quasi sempre alla cassa c’è una signora anziana, sempre che si possa dire anziana anche di una tipa che forse non arriva a sessant’anni, i capelli di un improbabile color cobalto, non saluta neanche se le sbatti in faccia un “Buongiorno e buon lavoro”. Davanti a me ho tre persone, due di loro ben oltre l’età della pensione. La terza, in realtà prima nella coda, è una nerboruta signora sudamericana che sta caricando un carrello per la spesa extralarge, non ne ho mai visti di così grandi, capace di contenere la dispensa di una colonia estiva. Mentre aspetto il mio turno, oggi alla cassa c’è il tipo flippato, i capelli lunghi e lisci, la faccia di uno che ci tenga far capire che la faccenda che le droghe leggere non fanno danni è un po’ campata in aria, guardo la timeline su Instagram, stando ben attento a non cliccare sul tasto “cerca”. Per motivi che mi sfuggono, non ho mai capito l’algoritmo, quando finisco da quelle parti è sempre un proliferare di donne, molto giovani e con almeno la quinta, che allattano, quindi lo schermo del mio smartphone appare in genere come un florilegio di capezzoli turgidi e neonati che vi si attaccano famelici. Ho provato a far cambiare il mood, ma non ho poi così tempo da perderci, quindi mi limito a evitare di fare ricerche quando sono in pubblico. In passato mi era successo coi piedi, e lì ho sospettato che a ingaggiare questo trend fosse stato un mio parlare vicino al telefono di questa cosa di WikiFeet che aveva dato i voti ai piedi della Meloni. Il rischio che invece che un susseguirsi di piedi mi fosse capitato in dote un florilegio di croci celtiche e braccia tese era forte, ma l’avevo scampata. Sto lì che mi gingillo annoiato con Instagram quando mi accorgo che alle mie spalle si è materializzata una signora piuttosto anziana che sembra una mezza fattucchiera. La parola fattucchiera potrebbe apparire ai vostri occhi come desueta, come anche la parola desueta, per altro, come dentro un loop, ma è proprio fattucchiera la parola che mi si è materializzata davanti agli occhi quando l’ho vista. È bassina, ha i capelli bianchi lunghi, raccolti in una coda sopra la testa, come una versione anziana di Amy Winehouse, ma della Amy Winehouse dei giorni peggiori, perché i capelli sembra non siano passati sotto acqua e shampoo da tempo, indossa un lungo abito nero su scarpe di tela basse. Una fattucchiera, appunto, che ha però un dettaglio che la fa passare in un nano secondo dall’essere Maga Magò, mi sembra si chiamasse così la fattucchiera amica di Merloni nel film Disney La spada nella roccia, dire oggi maga richiama subito alla mente il movimento trumpiano Make America Great Again, e non credo di voler affrontare questa faccenda qui e ora, o le tre di Hocus Pocus, Bettie Midler, Sarah Jessica Parker e l’altra di cui non ricordo il nome, a essere un reincarnazione invecchiata di una delle streghe di Salem, dell’omonimo film di Rob Zombie. L’idea che di qui a poco si spogli e cominci a ballare un sabbah, dipingendosi pentacoli sui seni cadenti col sangue mestruale, a questo punto immagino non suo, mi inquieta, mai appunto quanto il dettaglio cui ho fatto cenno prima, senza poi dire di che si tratta: un bastone di legno chiaro, da passeggio, sulla cui cima ha infilato una Barbie dai capelli, se possibile, ancora più sporchi e stopposi dei suoi. Non ho idea di come l’abbia fissata in cima al bastone, ma l’immagine che evoca è quella di una delle tante vittime di Vlad l’impalatore. Vedere una anziana signora con una Barbie sarebbe stata già di suo piuttosto inquietante, vedere questa signora qui con una Barbie impalata da un bastone di passeggio, ve lo giuro, è oltre l’idea stessa di inquietudine. E lo dice uno che ha assistito a un live di Rob Zombie, ormai venticinque anni fa, agli Universal Studios di Los Angeles, oltre a aver visto anche tutti i suoi film, non è che non abbia fissato negli occhi l’inquietudine.
Vedo comunque questa Barbie infilata sulla testa di un bastone da passeggio, impalata da un bastone da passeggio, quindi. Faccio un saltello all’indietro, mica per niente di dice essere colti di soprassalto, esattamente nel momento in cui la signora mi si avvicina, rivolgendomi la parola. Questione di frazione di secondi, la medesima frazione nella quale mi immagino che mi stia per chiedere se sia disposto a dare la vita per un qualche sacrificio umano, ma in realtà mi sta dicendo, con un vago accento pugliese, se posso passarle il divisorio, quell’aggeggio a forma di prisma con base triangolare che si usa per stabilire dove finisce la propria spesa e comincia quella dell’acquirente successivo, lì sul nastro della cassa. Glielo passo, senza riuscire a staccare gli occhi dal cespuglio stopposo di capelli biondo sporco, letteralmente, della Barbie che se ne sta lì tra le sue braccia. La signora, vedo, ha preso poche cose, uova, una confezione di wurstel piccoli, una bomboletta di panna dolce spray. Anche io ho preso, tra le altre cose, una bomboletta di panna spray, e la tipa non manca di farmelo notare, come a voler creare una connessione. L’accento pugliese mi distrae, e so bene che dire accento pugliese è fuorviante, perché tra una persona di Foggia, una di Bari e una di Lecce, prendo tre città a caso, ci sarà la medesima netta differenza che ci può essere tra uno come me di Ancona con uno di Macerata e uno di Ascoli, roba che a me, quando qualcuno prova a imitarmi facendo l’accento maceratese, fa venire molto i nervi, perché ai miei orecchi sono proprio accenti diversissimi, ma io non sono ferrato in accenti pugliesi, e come credo sia normale, mi sembrano tutti uguali. Tutti uguali al punto che, al momento, la tipa non è quasi più spaventosa come una strega di Salem per quel suo avere una Barbie superati gli ottanta, ma stronza come l’operatore telefonico che poco prima di uscire mi ha perculato, sostenendo che non fosse possibile che io abbia passato oltre mezz’ora in attesa che uno dei tanti suoi colleghi che mi hanno risposto, a memoria ho fatto oltre otto telefonate, mi passasse il tecnico preposto a risolvere il mio problema, mio problema che infatti è ancora lì, irrisolto, il fatto che nel mentre tutti gli operatori abbiano provato a convincermi a passare al medesimo operatore anche con luce e gas la dice lunga su quanto chi lavora nei call center non sia portatissimo nel gestire una clientela evidentemente non molto ben disposta, perché cazzo dovrei passare anche con le altre utenze con te dal momento che mi sto lamentando che il servizio che mi stai fornendo al momento non funziona?
Trovo antropologicamente significativo che l’odio verso gli operatori incapaci dei call center sia superiore alla paura dell’inspiegabile, e di come comunque noi si tenda un po’ tutti a generalizzare per macroaree, il noi è ovviamente un goffo tentativo da parte mia di tirarvi tutti dalla mia parte forzando la sintassi, al punto di farmi dire qualcosa che potrebbe suonare come “’sti cazzo di pugliesi sono dappertutto,” riferendomi al tipo della fibra, frase in parte portatrice di una qualche verità ma assolutamente irrilevante ai fini di provare a risolvere la assenza di rete in casa mia. Quasi sul punto di chiedere alla anziana signora quando pensano di ripristinarmi internet, magari essendo probabilmente una fattucchiera riuscirà laddove i tecnici incapaci falliscono, decido di tornare a guardare lo schermo del mio smartphone, in attesa che arrivi finalmente il mio turno. Per sicurezza, nel mentre, mi sposto oltre la cassa, la fila è in effetti copiosa, inutile star lì a creare ressa.
Ragiono. O almeno ci provo.
Ho buttato sul piatto, dove per piatto, il riferimento è evidentemente quello del gioco d’azzardo e il piatto sarebbe lì dove si punta quel che si deve o si vuole puntare, ho buttato sul piatto un paio di aneddoti appartenenti alla mia vita quotidiana, aneddoti che ruotano intorno al concetto di fastidio e inquietudine, un disservizio della fibra che mi ha portato a passare del tempo a rincorrere operatori dell’azienda di cui siamo clienti, maledetti call center, e prima ancora un incontro inquietante fatto nel supermercato vicino casa nel quale, ho sottolineato, vado per comodità ma controvoglia: una signora anziana, dalle sembianze da fattucchiera che ha con sé un bastone con su impalata una Barbie. A tenere in stretta relazione le due storielle, minime, davvero minime, l’accento pugliese della fattucchiera in questione e quello dell’operatore incapace che non ha risolto alcun problema, di qui una mia repentina fuga su un campo vagamente vicino alle istanze della Lega Nord, almeno della Lega Nord di quando il nemico era il meridionale e non l’extracomunitario, ammissione di una mia debolezza solo in parte giustificata dal fastidio per il disservizio e dall’inquietudine. Credo sia arrivato il momento di tenere tutto questo assieme, quindi fastidio, inquietudine e autoconsapevolezza di una propria debolezza, il prendere atto di non essere poi così diverso da tutti gli altri, anche quella porzione di altri nei confronti dei quali ci si ritiene, a ragione, migliori (per gli analfabeti funzionali che, erroneamente e con sforzi notevoli, fossero arrivati fin qui, non sto ovviamente dicendo che mi ritengo a ragione migliore dei pugliesi, ma dei leghisti).
Il fatto è che oggi avevo deciso di intrattenervi, di intrattenermi e intrattenervi, intessendo un parallelismo tra la serie tv The Boys e la vecchia serie tv Misftis, entrambe basate su un gruppo piuttosto anomalo di persone con superpoteri, nel primo caso riconosciuti e per questo temuti e anche banditi in quanto supereroi, cattivi e politicamente scorretti, ma pur sempre supereroi, nel secondo come bizzarri delinquentelli, con superpoteri arrivati all’improvviso per un incidente mentre stanno svolgendo lavori socialmente utili proprio per il loro essere delinquentelli, ma pur sempre delinquentelli e supereroi. L’uso scorretto e assolutamente non votato a proteggere altri da sé, anzi, spesso usato per propri fini, il trait d’union tra le due serie, seppur Misfits sia arrivata assai prima di The Boys, dieci anni nel mondo delle serie tv equivalgono a un paio di ere geologiche. Avrei voluto anche soffermarmi sul fatto che uno dei protagonisti di Misfits, Robert Sheenan, sarebbe poi apparso anche in Umbrella Academy, altra serie tv incentrata su un gruppo di persone con bizzarri superpoteri, in questo caso una anomala “famiglia”. Stavo pensando anche di fare un discorso analogo per Jack Quaid, che in The Boys è Hughie Campbell, ma in precedenza era stato Peter Bishop in quel capolavoro assoluto di serie che è stata Fringe, ma poi ho scoperto che mi stavo sbagliando, e che a interpretare il figlio di Walter Biship era in realtà Joshua Jackson, i due attori in effetti si assomigliano parecchio. Insomma, volevo appunto parlare di superpoteri e politicamente corretto, temi entrambi piuttosto attuali, a partire da queste due serie tv, ma la quotidianità mi ha dato altri spunti, quindi il fastidio, l’inquietudine, l’autoconsapevolezza di essere meno figo di quel che pensassi, e ho cambiato oggetto del mio scrivere, tenendo però come punto di comunione tra il prima e il dopo proprio i Misfits. Però non più i Misfits della serie tv di cui sopra, quanto piuttosto la band fondata da Glenn Danzig sul volgere degli anni Settanta, band ascrivibile a un genere che potremmo chiamare horror punk, esattamente come gli White Zombie di quel Rob Zombie che ha poi diretto Le streghe di Salem, altro film di cui ho parlato qui sopra, è horror metal, con venature industrial, l’immagine che vedete in copertina, non avendo ovviamente io una foto della signora/fattucchiera con la Barbie impalata sul bastone da passeggio è di Shari Moon Zombie, che di Rob è musa, recita in tutti i suoi film, oltre che moglie. Ennesimo link psicogeografico che infilo dentro uno di questi miei estenuanti, per voi, longform. Quindi Misfits, la band, e White Zombie, e da qui potrei partire con tutta una cavalcata, ovviamente elettrica, parlando di band che in quegli stessi anni, diciamo i primi anni Ottanta, hanno lasciato un segno, almeno sulla mia psiche, accompagnando queste mie parole con una qualche playlist, perché in questa era di streaming, nel quale ci è stato detto che finalmente tutti hanno a disposizione tutta la musica del mondo (qualcuno dovrebbe aggiungere gratis, ma sottolineare il fatto, temo, sposterebbe l’asse del discorso altrove), dare qualche indicazione di massima che funga da orientamento, per andare in quel posto devi prendere la prima a sinistra, proseguire dritto eccetera eccetera, credo sia opera meritoria, o quantomeno utile. E così, che so?, prendendo come anno di massima il 1983, posso pensare a un filotto che includa i My Bloody Valentine, band che ha preso l’eredità dei Jesus and Mary Chain e ha fatto dello shoegaze la propria lingua, e della sua diffusione la propria mission, Kevin Shields si è dimostrato poi assai poco parco nel diffondere il verbo, ma ancora oggi Loveless è un album che andrebbe ascoltato e riascoltato. Per poi passare agli Waterboys, decisamente meno disturbanti dei colleghi irlandesi, loro fondati da Mike Scott in Scozia, ma presto giunti sull’isola verde con quel gioiello di Fisherman’s Blues, di loro consiglierei comunque il secondo e terzo album, A Pagan Place e This is the Sea, oltre che il recentissimo Life, Death and Dennis Hopper, opera imponente, venticinque canzoni, atte a cantare le gesta dell’attore di Easy Rider e Velluto Blu, cito due film su tutti, usato come un bastone da rabdomante per raccontare cultura e controcultura pop della seconda metà del Novecento. Nel medesimo anno nascevano anche gli alfieri dell’epopea di MadChester, gli Stone Roses di Ian Brown (e di John Squire, Mani e Reni, che detto così sembra un trattato di anatomia, ma così sono soprannominati i due componenti che danno vita alla sezione ritmica della band inglese. Il loro mix tra funky e psichedelia è storia, non ce ne voglia Shaun Ryder coi suoi Happy Mondays, prima o poi spero che chieda i diritti d’autore per cantare con le mani dietro la schiena a Liam Gallagher, a sua volta lì a chiederne altrettanti a Gazzelle, o gli Inspiral Carpets, e i Charlatans. Tanta roba, direbbe oggi come ieri un qualche rapper d’antan, e potrei chiudere il cerchio con J Mascis e i suoi Dinosaur Jr, stesso anno di nascita, ma poi, parlando di alternative, mi toccherebbe spostare l’asse del mio discorso altrove, sui Sonic Youth, nati comunque giusto un paio di anni prima, o sui Pixies, che invece arriveranno nel 1986, mentre sono del 1982 gli Swans di Michael Gira, e i Butthole Surfers, forse il nome più iconico, parlo di nomi, non di suono o di canzoni, di tutta questa lista, converrete con me. Chiudo infatti con i Melvins, che almeno quell’anno annoverano nel loro stato di famiglia, nati nel 1983 intorno a quel gigante, non solo fisicamente, di Roger Buzz Osborne in quella Aberdeen nello stato di Washington nella quale un po’ dopo muoveranno i loro passi grunge i Nirvana. Proprio in questi giorni esce il loro Thunderball, nella side-version dei Melvins 1983, siamo sempre lì, che vede il batterista originale Mike Dillard, affiancare King Buzz, di qui l’indicazione dell’anno di nascita a fianco al nome. Sarebbe interessante, parlo per me, spostare ora il discorso sulle città che hanno nomi di altre città più antiche, Aberdeen, nello stato di Washington è evidentemente stata fondata da qualche scozzese arrivato fin lì da Aberdeen in Scozia, come magari sarà successo anche nella città dove sono nati i Misfits di Glenn Danzig, vedi la circolarità di certi discorsi, nati a Lodi in New Jersey, me li immagino questi vecchi migranti mangiare la raspadura lì dove poi sarebbe nato Bruce Springsteen. Ispirato dal libro Dolce libertà di Joseph O’ Connor, fratello della compianta Sinead, scrittore spesso connesso alla musica anche nei suoi libri, Cowboys and Indians e Il gruppo su tutti, libro, Dolce libertà, che raccontava di un viaggio fatto negli USA alla scoperta di tutti le città che omaggiavano nel nome la sua Dublino, ecco, ispirato da quel nome mi sono fatto una ricerca su tutte le Ancona, io lì sono nato e cresciuto e lì ho vissuto per ventotto anni, prima di arrivare, ventotto anni fa, qui a Milano, mi sono fatto, dicevo, una ricerca su tutte le Ancona che ci sono in giro per il mondo, con l’idea magari prima o poi di farci su un qualche progetto. Ne ho trovate poche, va detto, ma del resto Ancona è una piccola città di provincia, seppur capoluogo di regione, una Ancona vicino a Alberta, in Canada, una Ancona frazione di Livingston, in Illinois, negli USA,
una Ancona nei pressi di Victoria, in Australia e infine una Ancona, vicino a Potosi, in Bolivia. Tutti posti piccoli e irrilevanti, che nulla hanno dato alla musica, almeno stando a questa mia prima ricerca, né alla cultura in generale. Non che Ancona, a parte chi scrive, parlo di quella che si trova in Italia, nelle Marche, abbia lasciato chissà che segni. Seppur lì abbiano vissuto, nello stesso periodo, parlo della loro infanzia, due nomi importanti per il nostro rock, Federico Fiumani, fondatore dei Diaframma, e Piero Pelù, a lungo alla guida dei Litfiba. Il primo ci è nato, o meglio, è nato nella vicina Osimo, salvo poi trasferirsi a Firenze dopo la morte del padre, lui ancora bambino, il secondo ci si è trasferito con la famiglia quando ancora era piccolissimo, nella sua autobiografia, Spacca l’infinito, racconta di un episodio curioso avvenuto in quella Portonovo, alle falde del Monte Conero, che tanto mi è cara. I due si sono a lungo frequentati, molto odiati e molto amati, ora non saprei dire la lancetta da che parte è orientata. Insieme hanno anche inciso il brano Buchi nell’acqua, esattamente dieci anni fa. I Diaframma e i Litfiba si sono formati intorno al 1980, per poi esordire rispettivamente nel 1984, con Siberia, e nel 1985, con Desaparecido, mica per niente nel Lato B del singolo Buchi nell’acqua, c’è Amsterdam, contenuta inizialmente in Siberia e poi in un EP omonimo uscito ai tempi in questa versione, che vede Diaframma e Litfiba interpretare il brano assieme, joint venture d’annata e dannata ottima per chiudere questo mio peregrinare tra streghe e canzoni, call center che non risolvono problemi e Barbie impalate alla bene e meglio, supereroi politicamente scorretti e quel Monte Conero che un giorno dovrà ospitare il mio cuore, così è scritto, chissà che a celebrare quella cerimonia non arrivi anche la fattucchiera di Lambrate.