
Quando cresci in un piccolo paese. Questa, suppergiù, la traduzione letteraria di un vecchio brano di Lou Reed e John Cale, di nuovo assieme dopo i fasti drogati dei Velvet Undergroud, per altro di nuovo insieme proprio per ricordare Andy Warhol, Songs for Drella il titolo del lavoro in questione, l’anno di uscita il 1990. La canzone si chiamava Smalltown, e ricordo che tanti e tanti anni fa quel verso è diventato anche il titolo di un libro di Angela Scarparo edito da Transeuropa, mitica casa editrice di Ancona, la mia città, ideata da quel genio irregolare di Massimo Canalini, scomparso giusto qualche mese fa. Angela Scarparo che era passata per le cronache per aver accusato di molestie il filosofo Giacomo Marramao, un metoo ante litteram, per altro scivolando in una forma di involontario sessismo nell’atto di denuncia, aveva detto qualcosa coem “mi ha trattato come un’attricetta disposta a tutto”, facendo parecchio incazzare svariate attrici italiane. Quando cresci in un piccolo paese, il libro, è del 1995, sono trenta candeline quest’anno. Ma non è del libro della Scarparo, né dalla canzone di Lou Reed e John Cale che ha regalato al libro il titolo, che voglio parlare. Quanto piuttosto del crescere in un piccolo paese. O meglio, in una piccola città. Come ho scritto su, e credo in ogni altro pezzo che mi sia capitato di scrivere, sono nato e cresciuto in Ancona, una small town, immagino. Neanche centomila abitanti, provincia abbastanza periferica, visto che non ci sono grandi città nei pressi, Bologna dista circa duecento chilometri da lì. Quando cresci in un posto come Ancona e sei come me, cioè non esattamente inquadrabile in una tipologia di normalità che passa per capelli corti e abiti d’ordinanza, roba tipo camice, giacche e cravatte, ti capita di essere guardato con curiosità, forse anche con sospetto. È così che sono stato guardato per buona parte della mia vita da giovane adulto, quando cioè non ero più un ragazzino ma non ero ancora un uomo. Avevo i capelli molto lunghi, la barba incolta, vestivo con t-shirt e calzoni bermuda, d’estate, felpe e jeans d’inverno, giravo spesso con una chitarra elettrica dentro una custodia, in mano o nel bagagliaio della macchina. Un freak come i Freaks Brothers, direbbe Gilbert Shelton, fumetto che ho conosciuto per mano di Massimo Zamboni, quel Massimo Zamboni lì, dei CCCP- Fedeli alla linea, prima, dei C.S.I, poi, solista infine, in loop, che me ne regalò una copia, nei primi anni zero, quando ci si frequentava sovente, proprio perché gli ricordavo uno di loro. Dovevo ricordare uno di loro anche ai carabinieri e poliziotti della zona, Ancona, perché non c’era fine settimana nel quale non mi fermassero in un qualche posto di blocco, io alla guida, loro in strada. Mi facevano accostare, controllavano i documenti, mi facevano aprire il bagagliaio, spesso chiedendomi che ci fosse dentro la custodia della chitarra elettrica (una volta un carabiniere mi chiese se c’era un violino, giuro), in pratica mi rompevano le palle, il tutto a partire da mere faccende estetiche. Certo, l’abito non fa il monaco, ma se vedi uno vestito da monaco sei autorizzato a pensare che sia un monaco, quindi se vedi uno che sembra un fricchettone, suppongo, potresti pensare che sia un fricchettone, uno che si fa le canne, che beve, si droga, in qualche modo forse delinque, invece io ero e sono uno straight edge come Henry Rollins o Ian McKey dei Minor Threat e dei Fugazi, non ho mai fumato, neanche sigarette di tabacco, mai provata alcuna droga, neanche bevo. Sono anche monogamo, non ho tatuaggi e, in effetti, la musica della Henry Rollins Band e dei Black Flag, come quella dei Minor Threat e dei Fugazi, mi è sempre piaciuta parecchio, pur non aderendo alla filosofia straight edge per i motivi per i quali gli straight edge vi aderiscono. Non mi drogo e non bevo perché voglio il controllo, mettiamola così, e ho una fantasia più che sufficiente a sballarmi, diciamo ancora così.
Però ho passato anni e anni a spiegare a carabinieri e polizia che non ero un fricchettone, spesso ai medesimi carabinieri e poliziotti che mi avevano fermato il giorno o la settimana prima, quando cresci in un piccolo paese carabinieri e poliziotti non sono poi così tanti. Arrivato a Milano, va detto, sono ormai ventotto anni che vivo qui, non mi hanno mai fermato a un posto di blocco, nonostante continui a portare i capelli lunghi, la barba incolta e a vestire nella medesima maniera, niente camice e giacche, solo t-shirt e felpe. Sarà che qui ci sono altre dinamiche, la Smalltown di Reed e Cale qui non l’avrebbero potuta scrivere.
Tutto questo per dire, comunque, che nonostante la noia della provincia sonnacchiosa, in questi primi cinquantacinque, quasi cinquantasei anni di vita non mi sono mai drogato, neanche una volta, ciò nonostante oggi ho avuto un’esperienza psichedelica degna di Ken Kesey e i Merry Pranksters, lì a bordo del Furthur per la California di fine anni Sessanta, gli Warlocks di Jerry Garcia, di lì a breve Grateful Dead, a suonare le loro ballate dilatate, Timoty Leary a passare acidi ancora in forma di prototipi usciti direttamente dai laboratori di Barkley. Un’esperienza incredibile, di quelle che poi ti fanno ricredere sulle tue posizioni, o almeno su certe radicalità, sarà mica un caso che nella vita hai ascoltato un sacco di musica, letto un sacco di libri e visto un sacco di film di gente che con le droghe ci ha dato sotto. Non dico roba da farti convertire a un’esistenza alla Castaneda, lì a masticare funghi e radici nel deserto del Cile, e magari neanche alla Lou Reed stesso, uno che alla droga ha dedicato alcune canzoni di una bellezza sconvolgente, da Waiting for my man a Heroin, perché per dirla con il mio amico Enrico Ruggeri il problema non è tanto cosa racconti, ma come lo racconti (eviterò di rubargli l’esempio di Delitto e castigo, andatevelo a cercare che lui lo dice meglio), ma comunque roba in grado di permetterti di ascoltare, leggere e guardare certe opere con occhi diversi, oltre che vivere la vita di tutti i giorni sotto un’altra prospettiva. Il tutto, per di più, è successo a causa di mia figlia Lucia, che leggete sempre da queste parti, involontaria levatrice di questo me stesso psichedelico e votato a certe visioni indotte chimicamente. Ero sul divano che leggevo quando è arrivata chiedendomi: “Quanti anni ha Laura Pausini?”. Domanda che sottintendeva un “troppi” grosso come una casa, immaginavo legato a qualche cosa che avesse fatto, a suo dire, oltre tempo massimo. Ma mai mi sarei aspettato quel che a quella innocente domanda, e alla mia risposta scientifica ha fatto seguito. “Ha cinquant’anni,” ho detto, anche se in realtà credo di aver detto cinquantuno, rubando giusto giusto un mese e un giorno al suo essere cinquantenne, compie gli anni il 16 maggio, come Baglioni, Fiorello e Dolcenera.
“Ecco,” ha quindi detto, aprendomi, direbbe Jim Morrison, facendo sue le parole di Aldous Huxley, le porte della percezione. Quel che ho visto, direbbe un Rutger Hauer nei panni di un andoride, sotto la pioggia, sono cose che noi umani non possiamo immaginare, e senza star qui a ripetere tutta quella pappardella, pappardella che il buon Claudio Baglioni, che quando Laura compirà cinquantuno anni di anni ne compirà settantaquattro, per i suoi settantacinque anni ha paventato un ritiro dalle scene, pappardella che il buon Claudio Baglioni ha messo in musica nel brano L’ultimo omino, contenuto nel capolavoro Io sono qui, Dio mio quanti begli album ha fatto Baglioni, specie in quel periodo lì, diciamo tra anni Ottanta e anni Novanta, Io sono qui è del 1995, come il romanzo della Scarparo, quel che ho visto, comunque, è stato il più clamoroso viaggio da lucido che io ricordi di aver fatto, e di viaggi di lucido e sveglio ne ho fatti tanti, se no come mai avrei potuto scrivere e fare quel che ho scritto e fatto fin qui?. Dentro lo smartphone che mia figlia stringeva in mano, compiaciuta, c’era infatti una Laura Pausini con due code laterali nei capelli, non diverse da quelle della mia foto con occhiali rosa che viene spesso usata da me e non solo da me come mia immagine ufficiale, una Polo salmone, una gonna marroncino e dei calzettoni fino alle ginocchia, una Laura Pausini che cantava e ballava, sì, ballava, sulle note di One More Time di Britney Spears. Roba da far passare Britney Spears, una che ultimamente appare spesso in biancheria intima, a volte anche senza, mentre fa strani balletti volteggiando i capeli biondi e ricci, come la più inquadrata tra gli integrati. Un video allucinante, nel vero senso del termine, che ovviamente ho cominciato a vedere in loop, senza capirne altrettanto ovviamente il senso, e soprattutto senza riuscire a smettere. Al punto che solo al decimo o forse ventesimo passato ho colto che Laura non canta, la voce è quella di Britney, ma semplicemente balla, con un tizio al suo fianco, aspetto ancora più allucinante. Una sorta di viaggio nel tempo, per altro, non tanto perché io sia tornato il me stesso ai tempi dell’uscita del brano, per questioni anagrafiche e culturali non sono mai stato un grande fan di Britney, pur avendola conosciuta a Milano ai tempi dell’uscita del suo unico film come attrice, il perdibilissimo Crossroads- Le strade della vita, nel 2002, quanto piuttosto perché sono tornato il me stesso degli anni Novanta, quello fermato ogni fine settimana dai posti di blocco di carabinieri e polizia, lì a chiedermi se mi ero drogato o avevo bevuto, con la sola differenza che stavolta, sì, avrei dovuto ammettere di essere sotto gli effetti degli allucinogeni, perché altrimenti col cavolo che avrei mai potuto vedere Laura Pausini che balla One More Time, credo.
PS
Magari Laura Pausini è solita fare questi balletti e io li scopro solo ora, chissà, ma il fatto è che anni fa mi ha bloccato in tutti i social, a causa di certi dissing che ci siamo fatti, più lei a me che io a lei, io mi sono limitato a criticarla in pezzi di critica musicale, per cui questa per me è stata oggi una epifania, e che epifania.