
Arriviamo alle dolenti note. Avrete sentito dire qualche volta una frase del genere. Molto probabilmente, a meno che non siate quella parte analfabetizzata della nostra società, nel qual caso mi viene da chiedermi che diamine ci state facendo a leggere un mio scritto e soprattutto per quanto poi reggerete, potreste essere stati voi stessi a pronunciarla: arriviamo alle dolenti note. Un modo di dire che prelude a qualcosa di dolente, appunto, o di catastrofico, comunque di negativo, la frase in questione lì a preparare il terreno per quel che seguirà. Le dolenti note, appunto. Quelle che, si direbbe, occupano militarmente le cronache dei giornali oggi, sia che si tratti di cronaca locale, sia quella più ampia che guarda alle cose del mondo. Note dolenti che parlano di violenza per le strade, di femminicidi, di disastri ambientali, di guerre, di genocidi. Tutte faccende, passo a parlare di musica, che è il mio campo di interesse, almeno in apparenza, che sembrano uscite completamente dai radar di chi scrive canzoni, sia per se stesso, penso ai cantautori, sia per altri, i tanto bistrattati, almeno sul fronte della narrazione che ruota intorno al Festival di Sanremo, autori al soldo delle case discografiche. Ecco, sembra che chi deve decidere, per scelta razionale o necessità emotiva, di cosa parlare in una qualche nazione escluda, oggi come oggi, ogni qual argomento che possa in qualche modo guardare a quel che succede nel mondo, in quelle strade e piazze dove ci si incontra, e anche in quegli angoli del pianeta Terra che ci sono più distanti. Certo, si citano nelle canzoni un sacco di città esotiche, nei titoli come nei testi, al pari dei nomi di certi cocktail che si ordinano durante le apericene, ma guai a parlare di guerre, carestie, cambiamenti climatici e via discorrendo. Non se ne parla nelle canzoni e a ben vedere anche nelle interviste, come se prendere una qualche posizione, dimostrarsi pensante, implicasse perdere una parte del pubblico. Peggio, come se per chiunque faccia musica un pubblico valga l’altro, chi se ne frega di cosa pensa, l’importante che sia lì davanti a ascoltare. Quindi ci si anestetizza, uso una prima persona plurale come se anche io fossi parte del problema, parlando di sciocchezze, o al massimo di sentimenti, spostando la piazza dentro casa, il noi in un categorico io, con buona pace di quel che la musica ha detto e fatto nell’ultimo quarto del Novecento in termini di cultura e anche di movimentisimo. Niente dolenti note, solo note, e sul fatto che quelle note spesso siano dolorose per chi le ascolta, per la loro banalità armonica e melodica, per la ripetitività con cui gioca sui medesimi cliché, oltre che i medesimi suoni, e anche per la sciatteria con cui spesso, oggi come oggi, vengono buttate lì sul mercato, è altra faccenda, la differenza tra dolente e doloroso è netta, direi, pur partendo dal medesimo oggetto, il dolore. A furia di vedere sempre il medesimo panorama, è chiaro, qualsiasi cosa che esca dalla norma diventa difficile da decifrare, da comprendere, quindi da metabolizzare, e parlando di metabolismo anche la metafora del cibo elaborato cui ci si disabitua a furia di mangiare ai fast food potrebbe reggere bene in questo contesto, mangi sempre cibo coi medesimi sapori precostituiti, monocordi, e quando ti trovi di fronte a un sapore forte, deciso, diverso, vai in confusione, o peggio rigetti il tutto.
Una fotografia desolante, quella che ho appena scattato, ne sono consapevole, ancora più desolante dal momento sembra non ci sia nessuno intenzionato a fare un’inversione di marcia, o opporre a tutto questo un qualche straccio di resistenza. Ecco, nessuno proprio è sbagliato, e vengo alle ultime settimane, perché una qualche congiuntura astrale, tipo quegli allineamenti di pianeti che avvengono una volta ogni non so quanti millenni, roba che in genere veniva associata a qualche avvenimento eccezionale come la nascita di un Dio o una pandemia in grado di spazzare via l’umanità, una qualche congiuntura astrale ha fatto sì che sul mercato, quello stesso mercato ormai divenuto una sorta di rappresentazione plastica della Mostra delle atrocità di ballardiana memoria, siano apparsi non uno, non due, non tre, ma addirittura quattro album che cambiano decisamente rotta, puntando appunto a dare un senso alla frase: “arriviamo alle dolenti note” (in realtà sono cinque, ma di uno ho già parlato qui https://361magazine.com/esce-a-sorpresa-post-mortem-de-i-cani-rallegriamoci-di-essere-vivi/).
Primi in ordine di tempo sono stati quei vecchi rockettari dei Negrita, cioè Pau, Drigo e Mac, che dopo qualcosa come otto anni sono tornati con uno splendido lavoro come Canzoni per tempi spietati. Un lavoro nel quale la realtà, quella del nostro paese ma più in generale quella del Pianeta Terra, viene raccontata senza tanti sconti alla cassa, spostando l’asse cartesiano della loro musica più dalle parti di un folk alla Bob Dylan, che di un rock elettrico e rollingstoniano, come in passato. Un lavoro meticoloso, onesto intellettualmente, sincero, che dimostra come la vecchia scuola, e la band di Arezzo è decisamente un punto saldo della vecchia scuola del rock italiano, ci sa ancora fare.
In ordine di tempo, sempre dalla toscana, ma con qualche anno in meno sul calendario, arriva El Galactico, decimo album in venticinque anni di carriera per i Baustelle, come i Negrita rimasti in tre in line-up. Un lavoro che sposta lo sguardo sul quotidiano, decretando in qualche modo una sorta di severo monito alla china autodistruttrice che è un po’ la cifra della contemporaneità, tra la messa all’indice delle nostre tante ipocrisie e la fustigazione mai moraleggiante di tutte quelle contraddizioni che ci caratterizzano, come un requiem cantato su leggere sonorità surf e rock’n’roll, scelta decisamente originale di accompagnare testi cupi e impietosi su musiche in apparenza, ancora l’apparenza, disimpegnate. Un Bianconi in gran spolvero, quello di El Galactico, con musica d’altri tempi che però indossa alla perfezioni le istanze dell’oggi.
Chi invece ha deciso di ballare da solo, come una Liv Tyler giusto un filo più ombrosa e cupa, è Cristiano Godano, giunto con Stammi accanto alla seconda prova solista in libera uscita dai suoi Marlene Kuntz. Un Godano decisamente più folk di quello che siamo usi sentire quando è alla guida della band cuneese, dove ai suoni noise ispirati ai Sonic Youth sostituisce una miscela di cantautorato e folk decisamente più vicino al Neil Young meno rumoroso. Accompagnato dai Guano padano anche stavolta sfodera una penna in grado di aprire ferite profonde sulla carne, di quelle dalle quali entra l’aria sufficiente a salvarci da questa apnea nella quale ci siamo stupidamente autoreclusi. L’uomo è al centro dell’attenzione, e la profondità toccata da questo sguardo è degno di una endoscopia, una endoscopia fatta però da un medico empatico, capace di abbracciare il paziente mentre agisce.
Tre grandi prove che arrivano da tre realtà a cavallo tra i cinquanta e i sessanta, qualcosa vorrà pur dire, Dio santo.
Chiudo questo poker d’essai, lasciate giocare un po’ anche me con le parole, e siccome non voglio essere tacciato di boomerismo, e ci mancherebbe pure altro, sono del 1969, Generazione X, mi va di mettere nel mazzo anche Viscerale, il nuovo album, quarto della sua discografia, di Mezzosangue. Il rapper romano dal viso nascosto dal passamontagna (menzione di passaggio anche a Angelo Balaclava di Silent Bob e Sick Budd, a proposito di passamontagna), torna con la sua carica di nichilismo, stavolta alzando la mira verso quel famoso noi, sempre lì finiamo, un noi che sembra annegare in una società ormai nebulizzata, priva di fondamenta e anche di ancore. E se in passato il nostro si era cimentato in opere che seguivano un fil rouge, traccia dopo traccia, stavolta il suo approccio è divagante, nella maniera degli psicogeografi, postmoderno nella voglia di giocare col massimalismo in fatto di generi e suoni. Protagonista è ovviamente la parola, vomitata, sputata come veleno, usata come una spada o una roncola, a seconda di chi si trova di fronte, sempre comunque a fuoco anche quando si tratta di dar seguito a un flusso inarrestabile, di coscienza e di coscienze.
Bonus track, chiamiamola così, quel Post mortem, glorioso ritorno de I Cani, ve l’ho già detto che ne avevo parlato giorni fa. Un lavoro importante, arrivato dopo nove anni dal precedente album Aurora, che ci regala un Niccolò Contessa in splendida forma, sempre che usare la parola splendida per questo coacervo di cupezza e disillusione, a tratti addirittura cinica e impietosa, possa mai avere un senso. Tredici tracce che si muovono tra elettronica e post-punk, suoni acustici e beat sghembi, tutte musiche adatte a accompagnare i suoi racconti generazionali, quelli che hanno partorito l’indie, insieme a Dente (di lui ho parlato invece qui https://361magazine.com/santa-tenerezza-di-dente-e-lantidoto-allinebetente-allegrezza/), un periodo evidentemente propizio al ritorno sulle scene di chi si è dedicato anima e corpo alla canzone d’autore, quella capace di scavare nell’animo e a guardare le travi nei propri occhi quanto le pagliuzze negli occhi della società. Poker d’essai, diciamolo, potrebbe essere un titolo di un album, magari proprio di Dente, che coi giochi di parole ci si è spesso divertito. Qui da divertirsi non c’è proprio niente, sono arrivate le dolenti note, non possiamo che ascoltarle con attenzione.