Ivano Fossati e come le canzoni ci aiutano a vivere (ma non a non morire)

Ho finalmente trovato il modo di reggere la scala che teniamo in balcone in piedi. È la scala che poi si usa in casa, quando c’è da fare qualche lavoro in alto, che so?, mettere su le tende, che poi noi in casa le tende le abbiamo in poche stanze, ci piace che la casa sia invasa di luce, mai come in questi giorni, e vivendo al settimo piano in un contesto in buona parte affacciato su una piazza possiamo permetterci di non starcene nascosti agli occhi degli altri, perché gli altri non ci sono, o non sono così vicini. Fino a stamattina quella scala, in metallo, stava appoggiata sul pavimento del balcone che sta in sala, quello che volge sulla via dove c’è l’ingresso del palazzo nel quale abitiamo. Casa mia è strana, è quasi tutta circondata da balconi. C’è questo, lungo circa tre metri, poco più. Poi ce n’è uno enorme, sempre in sala, sul lato che guarda verso la piazza, balcone cui si accede da due porte finestre nel mio salotto, e una portafinestra ciascuna nelle camere dei nostri figli. Poi ce n’è uno di circa quattro meni in camera nostra, con due porte finestre, e uno più piccolo in cucina. Questo della sala dove si trova la scala, anche in virtù della presenza della scala in terra, oltre che del fatto che si affaccia sulla via dove si trova l’ingresso del nostro palazzo, la strada a dividerci da un altro palazzo, non è mai stato minimamente sfruttato. A lungo c’è anche stata la parabola di Sky, che occupava una porzione del tutto. Del resto c’erano gli altri, sfruttabili decisamente di più, quello lungo della sala e delle camere dei figli con su un sacco di piante e un tavolinetto basso con due poltrone, quello in camera nostra con ancora parecchie piante e un tavolino tipico Ikea con due sedie, dove a volte facciamo colazione quando viene il caldo. Ora quel balcone potrà prendere vita. Al momento c’è solo una pianta, sulla destra, lì dove un tempo c’era la parabola. Adesso, appesa alle pareti dalla parte opposta, c’è la scala, ma il balcone è praticamente tutto libero, potremo metterci delle piante. Era un’idea di cui si parlava da tempo, con mia moglie, ma è sempre mancata la maniera e forse la voglia di tirare su quella scala, e del resto c’è sempre altro da fare in casa, per non dire col lavoro. Le pareti in porfido bianco che costeggiano questa parte del palazzo sono dure da perforare, quindi l’idea di metterci un gancio è sempre stata poco praticabile. Almeno fino a oggi. Poi è arrivata una telefonata, e la giornata ha preso tutta un’altra piega. Ho quindi deciso di andare all’armadietto che si trova nel balcone della mia camera da letto, quello nel quale stanno gli attrezzi da lavoro. Ho preso due prolunghe per poter portare la corrente fino al balcone, ho preso il trapano, ci ho montato la punta intermedia, così poi da poter inserire un Fischer abbastanza grande da contenere una vite in grado di reggere il gancio che a sua volta avrebbe dovuto reggere una scala in metallo, e ho deciso che tra me e il porfido, per oggi, avrei vinto io. Ho preso e ho cominciato a lavorarmi la parete, con forza e pazienza. Ho anche usato due punte diverse, una da cemento e una da metallo, io non ho un trapano a percussione, quindi ho dovuto far conto solo sulla mia forza e il mio peso, volendo anche il mio dolore, e alla fine ho vinto. Ho fatto un buco sufficiente a contenere un Fischer, cui ho giusto dovuto tagliare la parte più larga, pochi millimetri, perché non sporgesse, poi ci ho messo su una piccola zanca di metallo che era parte di un gancio che usavamo un tempo nel bagno dei ragazzi, per reggere gli accappatoi, e infine, usando una brugola piccola ha incastrato il gancio alla zanca, riuscendo a montarlo e potendo quindi appoggiarci poi la scala in metallo. Ho poi preso l’aspirapolvere per togliere il porfido sbriciolato. Ho rimesso a posto le punte del trapano, le due prolunghe, il cacciavite con cui ho avvitato la zanca, e contemplato il tutto, gli occhi lucidi.

Fare lavori manuali, specie per chi come me passa buona parte della giornata a pensare e quindi a scriverne, è terapeutico, mi sono spesso detto. Ne parlavo giusto qualche giorno fa, quando raccontavo della faccenda del fare le lavastoviglie e dello stirare. Oggi non ho voglia di pensare, per questo ho fatto un buco sul porfido, sempre che sia il nome corretto per questa pietra bianca che sta nelle pareti del mio palazzo, e per questo ora scrivo, quando scrivo entro come in trance, non penso, butto fuori.

Sette minuti e quarantasei. Tanto è durata la telefonata con la quale Stefano, uno dei miei più cari amici mi comunicava la notizia della morte di sua moglie, a sua volta tra i miei amici più cari. Una telefona tremenda, devastante, inaspettata. Inaspettata perché, pur sapendo che Annalisa, questo il suo nome, stesse da tempo molto male, la speranza che il male venga sconfitto è fondamentale per pensare al domani, e tutti ci eravamo convinti che stavolta la storia sarebbe finita così. E inaspettata perché, saputa da una amica comune la devastante notizia pochi minuti prima, mai mi sarei aspettato di ricevere questa chiamata direttamente da lui, da Stefano. Sentire una voce che conosci praticamente da sempre rompersi, sentire la tua voce che si rompe, sentire frasi come “sono qui, di fianco a Annalisa, la sto accarezzando” e sapere che Annalisa se n’è andata, è qualcosa che mi lacera, mi ferisce, mi lascia sgomento. Scrivo per vivere, da una vita, credo di aver scritto e pubblicato miliardi di parole, ma non ne ho di utili per occasioni come queste, né da dire, né da pensare. Ma qualcosa devo dire e lo dico, a fatica.

È il terzo lutto che incontro nelle ultime due settimane, tre amiche, tutte suppergiù mie coetanee, tutte morte troppo velocemente, troppo giovani, per lo stesso male. Prima di Annalisa è stata Elena, cresciuta insieme a me e Marina, quante voce abbiamo cantato insieme quando eravamo giovanissimi, gli anni all’università con Marina, quanti ricordi di lei e di suo marito Angelo. E prima ancora Marilia, qui del nostro quartiere, della nostra parrocchia, amica di quando già eravamo adulti, ma non per questo amicizia meno intensa.

Notizie che arrivano improvvise, lasciano sgomenti, spiazzati, impreparati.

Si cresce, si invecchia, e i lutti sono indubbiamente passaggi tipici dell’invecchiamento, ma alla morte di chi ci è caro non ci possiamo abituare, non ci abituiamo. Non ci abituiamo alla perdita, all’assenza, al dolore che la perdita e l’assenza comportano. Proviamo a allestire difese anche agguerrite, che però si dimostrano goffe, inutili, cedevoli. E allora cerchiamo di distrarci, la scala che ora se ne sta in piedi lì di fuori, sul balcone, ne è emblema.

Ci penso mentre sono in treno, diretto verso Ancona, la città nella quale sono nato quasi cinquantasei anni fa, e dopo averci vissuto per ventotto anni dalla quale sono partito per Milano, ventotto anni fa. La mia città nella quale ho molti dei legami più forti, quelli costruiti in gioventù, compresi gli amici in questione. Ci penso a fatica, perché a volte non pensare è meglio, distrarsi fondamentale. Penso a come sarà dire un addio imprevisto, addio che ho già detto nella mente, ma che tra qualche ora dirò definitivamente. E ci penso immaginandomi esattamente la scena, provando a concentrarmi su dettagli che la rendano in qualche modo concreta, così da poter quasi fare delle prove. Invece che abbattere la quarta parete, che è poi quello che faccio a ogni frase, è come se volessi tirarne su una quinta, una sesta, una settimana, mettere pareti tra quello che scrivo e me. Io sono fatto così, mi concentro sulle parole e mi ci concentro per mettermi in salvo, come fossero salvagente nel mare in tempesta. Quando ormai nel 2011, quattordici anni fa, Ivano Fossati ha annunciato il suo ritiro dalle scene, non ho capito. Non lo capisco del tutto neanche adesso. Se al mondo c’è qualcuno che io abbia mai invidiato, parlo di quella invidia buona che ti fa guardare alla vita di qualcuno con talmente tanta ammirazione da voler quasi essere al suo posto, ecco, uno di questi qualcuno, sono pochissimi, è Ivano Fossati, e di Ivano Fossati ho sempre amato alla follia il modo di scrivere e di comporre, forse addirittura più di scrivere che di comporre, e stiamo parlando di uno dei più grandi autori di canzoni di sempre, e non solo italiano. Non ho capito perché lui, Fossati, ci ha detto che dopo oltre quarant’anni di lavoro nel mondo della canzone, lui che appunto era uno dei più grandi, voleva andare in pensione. Smettere di incidere canzoni, e quindi di scriverle, è noto che Fossati, genovese, scrivesse solo quando doveva pubblicare qualcosa, o quando qualcuno gli chiedeva una canzone da pubblicare. Non è uno di quelli che scriveva per urgenza, ma per mestiere, e che mestiere, e avrebbe smesso di scrivere e di incidere, a meno che, ogni tanto, qualcuno che ritenesse particolarmente interessante non gli chiedesse di fare uno strappo alla regola. Non avrebbe neanche più fatto concerti, basta, stop, in pensione. E questo perché, ci ha detto, voleva poter andare a passeggiare al mare. Detta così, lo so, suona strano, perché uno può andare a passeggiare al mare, in genere, tanto più se vive a Genova. E tanto più se fa il cantautore di mestiere, non esattamente un lavoro che non ti lascia il tempo per andare a passeggiare al mare. Ma lui, Fossati, preciso e incisivo come sempre, ce lo ha spiegato meglio, voleva poter andare a passeggiare al mare senza dover star lì a pensare come avrebbe potuto raccontare tutto quel che gli succedeva, anche il passeggiare semplicemente al mare. Perché è questo che fa un autore. Lo faccio anche io. No, non vado a passeggiare al mare, non quando sono a Milano, dove il mare, checché ne dica Beppe Sala parlando dell’Idroscalo, non c’è, né oggi che sto tornando in Ancona per dire addio alla mia amica Annalisa. Lo faccio anche io di pensare sempre a come potrei raccontare qualcosa, qualsiasi cosa mi capiti nella vita. Succede e io sto lì a pensare a come posso inquadrarlo in uno scritto, come metterlo dentro una sequela di parole. Lo sto facendo anche adesso, mentre vedo scorrere l’Italia, quella porzione di Italia che divide Ancona da Milano, quattrocento e venti chilometri di binari, attraverso i vetri sporchi di un Intercity. Ecco, Ancona che a un certo punto mi si mostrerà, lì in fondo, la cattedrale di San Ciriaco arroccata sul colle Guasco, il mare a costeggiarla, un mare marrone, cattivo, dopo le forti piogge degli ultimi tre giorni, Ancona che a un certo punto mi si mostrerà sfocata e quasi irriconoscibile attraverso i vetri sporchi del treno, le gocce nere piovuteci contro miste a inquinamento a fare da filtro, è una perfetta metafora di come mi sento, penso, tornare dove sono cresciuto, dove sono i miei affetti e non riconoscere più quei luoghi, perché nel mentre parte di quegli affetti non ci sono più, come il nostro transito terrestre prevede. Come Fossati anche io penso a come raccontare quel che mi succede, ma a differenza di Fossati, è evidente, questa cosa mi serve, mi aiuta, mi è vitale. Perché pensare a come elaborare certe situazioni, un lutto come un dolore, ma anche certe situazione piacevoli, belle, di una bellezza stordente, a volte, mi aiuta a decifrare la vita, a sapere come affrontarla, le parole giuste, giuste per me, lì a darmi una mano a comprendere e quindi a affrontare, se serve a difendermi.

Perché altrimenti come potrei fare, mi dico, a vedere una amica che non c’è più? Come potrei abbracciare il marito, concepire dentro di me la parola vedovo dandole un senso, provare anche a pensare cosa potrei provare al suo posto, cosa potrebbe provare mia moglie al suo posto? Come potrei se non ci fossero le parole da scrivere, le immagini per metaforizzare, le digressioni da fare, tutte lì per creare un argine, alzare i ponti levatoi, preparare la pece bollente da buttare giù dai torrioni contro il nemico, ipotizzare una linea difensiva? In occasioni devastanti e dolorose come queste tendiamo a dire “non ci sono parole”, “ho perso le parole”, come in quella canzone di Ligabue, che evidentemente le parole le ha trovate. Io mi ostino a cercarle, e comunque trovarle, anche se poi ovviamente parole da dire, a voce, non ne ho quasi mai, e quelle che scrivo servono forse più a me che a voi che leggete, anche se la storia di Ivano Fossati che si ritira per passeggiare al mare mi sembra potente oggi come quattordici anni fa. Anche se, come per un altro di quelle firme che invidio, bonariamente, David Foster Wallace, il non poter sapere come avrebbe raccontato l’oggi mi priva non tanto e non solo di un piacere, ma proprio di una bussola, volendo anche di uno scudo.

Io le parole le cerco e le trovo perché non ho altra possibilità che questa, perché adesso ho una foto plastificata di una delle mie più care amiche nel portafogli invece che nel cellulare, frutto di uno di quei tanti selfie che ci si fa quando ci vediamo, senza necessariamente poi tornare a guardarli. Poi magari, con calma, non oggi, e neanche domani, potrò anche tornare a passeggiare al mare, purtroppo soffermandomi a pensare a come raccontare quel che vedo, quindi godendomi forse meno la vita che scorre, ma quello lo farò quando andrò in pensione, se mai un giorno ciò avverrà.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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