20 marzo 1994: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vengono uccisi a Mogadiscio, in Somalia
Una corsa contro il tempo per avere verità e giustizia sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Ma il tempo è trascorso, sono passati 29 anni da quel maledetto giorno in cui l’inviata del TG3 e l’operatore Miran Hrovatin sono stati uccisi in Somalia: un’esecuzione per impedirgli di far conoscere all’opinione pubblica delle verità scomode su traffici illeciti di rifiuti tossici e traffico d’armi in quella terra, l’Africa, tanto amata dalla giornalista che ha voluto tornarci più volte: ben sette.
“É la storia della mia vita, devo concludere, devo fare, voglio mettere la parola fine”, così aveva detto Ilaria all’operatore Calvi mentre cercava di convincerlo a partire prima di affrontare il suo settimo viaggio, l’ultimo.
Ma ad accompagnarla in quell’ultimo viaggio fu Miran Hrovatin di Videoest di Trieste.
Mogadiscio, in un reportage di Ilaria Alpi
«La bella città sul mare[1], con il porto, i mercati, il quartiere in stile arabo, i resti di architettura fascista, la cattedrale, non esiste più. O meglio. Ne esistono i lugubri resti. È una città sventrata, a pezzi, quella che si presenta di fronte agli occhi di chi, oggi, vada in Somalia. E in un certo senso l’impressione è ancora maggiore proprio oggi e non durante la guerra […].
([1] Cit. M. Gritta Grainer, Storia di un’esecuzione. Ilaria Alpi. Una donna, una vita, L’Unità, Roma, 2006, “Mogadiscio è una città fantasma” reportage di Ilaria Alpi, p. 119)
Questa è Mogadiscio ritrovata da Ilaria durante l’ultimo viaggio, così come la descrive in uno dei suoi reportage. Lei è tornata lì, è il 12 marzo 1994. È il suo settimo viaggio in Somalia, insieme a lei c’è Miran Hrovatin. Ci sono andati per seguire il ritiro del contingente italiano, ma non solo. I nostri soldati il 20 marzo 1994 si preparano a lasciare la città. Sono andati in Somalia per una missione internazionale di pace (Restore Hope), decisa dall’Onu il 3 dicembre 1992 (risoluzione 794). Una missione che sarebbe dovuta servire a portare la pace lì dove Siad Barre con la sua dittatura durata anni ha portato la guerra: una guerra civile che prende le mosse nel gennaio 1991. Mogadiscio è divisa da una “linea verde” che la taglia in due: la parte nord è sotto il controllo di Ali Mahdi (clan Abgal), autoproclamatosi presidente ad interim della Somalia a Gibuti nel luglio 1991; la parte sud è sotto il potere di Mohamed Farah Aidid. In questa città, il 20 marzo 1994, si “spegne” il senso di giustizia: quella giustizia cercata da Ilaria e Miran che non potranno più raccontarlo.
Chi era Ilaria Alpi
Ilaria Alpi era nata a Roma il 24 maggio 1961. Dopo aver conseguito la maturità classica, aveva studiato lingue ed aveva un’ottima conoscenza della lingua araba. Aveva vinto il concorso in Rai nel 1990, ma prima dal Cairo aveva collaborato con Paese Sera, con L’Unità e altre testate. Quello del mese di marzo del 1994 era il suo settimo viaggio in Somalia. Insieme a lei c’era l’operatore Miran Hrovatin di videoest di Trieste. È stato il loro ultimo viaggio. Il 20 marzo 1994 a Mogadiscio si perde il senso di giustizia, quella giustizia cercata da Ilaria e Miran che non potranno più raccontarlo.
L’ultimo viaggio
Ilaria è stata in Somalia 150 giorni. Il suo primo viaggio risale al 20 dicembre del 1992, quando i primi reparti italiani cominciarono ad affluire a Mogadiscio.
In tutti i suoi viaggi, tranne l’ultimo, Ilaria era sempre accompagnata dall’operatore Alberto Calvi, considerato ormai un veterano del posto. Proprio lui ha testimoniato l’intenzione di Ilaria di effettuare quel viaggio per completare un lavoro che aveva già iniziato. Calvi ha raccontato delle telefonate fattegli da Ilaria nel tentativo di convincerlo a partire con lei. I soldi che la Rai aveva messo a disposizione per quel viaggio erano pochi per affrontare le spese: pagare la scorta (come minimo tre uomini), l’autista, l’auto e un manovale che li aiutasse a spostarsi con l’attrezzatura. «Io viaggiavo con un’attrezzatura che pesava 400 chili. Il telefono satellitare che avevamo allora pesava 70 chili. Quindi non avere i soldi per poter trasportare il materiale, era una cosa impossibile. […] Ilaria è partita con 3.700.000 lire… partire con questa cifra era una cosa assolutamente ridicola». E aggiunge: Tra l’altro io ero caduto in montagna e mi ero fatto male ad una spalla… ad un certo punto lei mi disse: “non troviamo operatori, non vuole partire nessuno…” le ho risposto che in queste condizioni non si può lavorare. Poi mi ha detto che voleva andare a Bosaso… io le ho risposto: non l’abbiamo fatta prima questa cosa, la fai adesso con l’esercito in fuga?[…] Alla fine sarei andato perché lei diceva “è la storia della mia vita, devo concludere, devo fare, voglio mettere la parola fine”. […] Lei era una giornalista che non tendeva a mettersi in prima fila, a dire “siamo qua”, anzi i suoi servizi erano sempre molto soft, ma le cose che diceva andavano a pestare i piedi e davano fastidio. […] Ilaria era una signora giornalista, che ha fatto il suo lavoro, sputando il sangue per tre anni! E questo è documentato… non sono parole, invece delle parole che si dicono sullo scoop che non esiste. […] la cosa sulla quale Ilaria ha sempre cercato delle prove era il traffico d’armi e di droga. Mi risulta personalmente perché non abbiamo fatto altro: Shifco, Mugne, Marocchino erano tre nomi sui quali lavoravamo sempre, chiaramente consapevoli di essere in terra ostile e di non poter fare certe cose perché dovevamo comunque mandare avanti il lavoro ordinario di tutti i giorni. […] Un giorno siamo andati da Marocchino e gli abbiamo chiesto se potevamo andare con l’aereo con cui veniva trasportato il Chat [la droga somala, nda] a Bosaso, e Marocchino si mise a ridere; queste cose le abbiamo chieste, lo abbiamo detto. Poteva essere una domanda stupida… la risposta è stata il silenzio. Questo non vuol dire né che lo facesse né che non lo facesse». Poi c’è stata un’altra telefonata: «e mi ha detto: “Ho parlato con Hrovatin, abbiamo già lavorato insieme in Jugoslavia, è uno che sa il fatto suo”.
Gli ultimi dieci giorni di Ilaria e Miran
12 marzo 1994, i giornalisti arrivano a Mogadiscio e vengono accolti dal generale Carmine Fiore che li aggiorna sul deterioramento della situazione della città, invita tutti alla massima prudenza e gli offre ospitalità all’interno del compound dell’Esercito, a Mogadiscio sud. Tuttavia, Ilaria e Miran decidono di alloggiare all’hotel Sahafi: solo da lì sarebbe stato possibile trasmettere i servizi televisivi, anche appoggiandosi alle strutture della Cnn che occupava tutto un piano dell’albergo.
Domenica 13 marzo. Ilaria e Miran, insieme ad altri colleghi, prendono l’elicottero e vanno a Merca. Qui visitano l’ospedale, intervistano un ginecologo (probabilmente il dottor Giuseppe Bufardeci) e anche il dottor Saverio Bertolino del Cisv.
Lunedì 14 marzo. Sempre in compagnia di altri colleghi, vanno all’ospedale Italia, a Johar, per assistere alla consegna da parte del generale Fiore di medicinali e attrezzature mediche. Ilaria e Miran rientrano a Mogadiscio separatamente e prima degli altri colleghi. Dopo una pausa al Sahafi, prendono il volo per Bosaso (Nordest della Somalia) dove arrivano nel pomeriggio.
Permanenza a Bosaso. Lunedì 14, pomeriggio – mercoledì 16, mattina
Le prime immagini di Bosaso – girate nel pomeriggio del 14 – mostrano l’ingresso del compound di Africa ’70 (Ong italiana per la quale lavorava anche un amico di Ilaria, Valentino Casamenti) dove i giornalisti si recano appena arrivati e dove trovano solo personale somalo. Tutti gli italiani si trovano infatti a Gibuti (rientreranno il 16 marzo), dove hanno dovuto riparare in seguito a accuse e minacce da parte di una fazione dell’SSDF, il partito del nordest della Somalia. Quindi Ilaria e Miran vanno in ospedale per registrare le immagini dei malati di colera che vi sono ricoverati: donne, giovani, bambini. Poi, quasi al tramonto, raggiungono il porto. Non è stato possibile accertare se Ilaria e Miran siano stati ospitati presso la Ong sin dal 14 marzo, o se abbiano pernottato in uno degli hotel della città.
Martedì 15 marzo, quasi all’alba, ancora al porto, Miran riprende le attività di carico e scarico con una lunga carrellata su navi e banchina, poi l’intervista di Ilaria al dottor Kamal, un medico proprietario del compound e delle auto utilizzate da Africa ’70, il quale fornisce le cifre dell’epidemia di colera: 26 morti, 635 persone ricoverate e almeno il triplo rimaste nella propria casa. Nel corso delle riprese, si sente una voce fuori campo chiedere ai giornalisti, in italiano, se sono della Rai. Nel pomeriggio Ilaria intervista il sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor. L’intervista dura tre ore. La telecamera viene spenta e riaccesa due volte: tra una pausa e l’altra, si sente Ilaria chiedere al sultano di Mugne, della nave sequestrata, degli scandali della cooperazione italo-somala, delle armi, dei rifiuti tossici seppelliti lungo la strada Garoe-Bosaso.
Sarà lo stesso sultano a confermare gli argomenti affrontati con Ilaria, l’8 febbraio del 2006, alla Commissione parlamentare d’inchiesta: «[…] Ad Ilaria avevo detto che quelle navi portavano dalla Somalia il pesce e poi venivano con le armi in Somalia. La gente sapeva questo fatto. Era questo ciò che ho detto a Ilaria… i politicanti che venivano di tanto in tanto da noi ci confermavano che queste navi a volte al ritorno… era interessata a sapere da dove venivano tutte quelle armi. Io sono convinto tuttora che lei fosse in possesso di informazioni precise, ottenute attraverso documenti, perché i documenti si trovano… anche durante gli ultimi giorni dell’amministrazione sono arrivati armamenti segreti, procurati da Siad Barre. […] È probabile che altrove, soprattutto a Mogadiscio, si sia procurata qualcosa, altrimenti non avrebbe parlato. La sola cosa che posso dire è che ho dedotto dal suo assassinio che la “Faarax Oomar” portava le armi». E sarà lui a chiarire che la telecamera durante l’intervista è stata continuamente accesa: «[…] Non abbiamo parlato senza la telecamera e la registrazione… non mi pare che l’intervista si sia interrotta… no, non è mai accaduto… però siccome l’intervista era lunga (è durata tre ore), di tanto in tanto l’operatore chiedeva l’interruzione. Questo me lo ricordo, che lui chiedeva». Ciò rafforza l’ipotesi che siano sparite delle cassette. E non solo. La cassetta dove è registrata l’intervista al sultano che è stata ritrovata dura solo venti minuti. Questo è un altro aspetto che richiederebbe un approfondimento: non risulta che la Commissione d’inchiesta abbia disposto una perizia sui nastri per verificare se fossero realmente gli originali e che non ci siano state manomissioni. Finita l’intervista, Ilaria e Miran, al tramonto, partono per Gardo, situata a metà della strada Garoe-Bosaso (costruita dalla Cooperazione italiana) e dopo una breve sosta al villaggio di Karabeyn, proseguono sino alla sede dell’Aicf, una Ong per la lotta contro la fame. Ma prima di ritirarsi per la notte, escono per un giro in città. Ilaria intervista un giovane maestro disabile, fondatore di una scuola, che teme di vedere presto svuotata degli alunni, per il proliferare di scuole costruite da organizzazioni islamiche.
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Mercoledì 16. La giornalista e l’operatore escono quasi all’alba per intervistare un capo villaggio, l’ingegnere Abdullahi Ahmed e registrare le immagini di tubazioni per l’acqua che sono fatiscenti. Poi un’altra intervista ai due ospiti dell’Aicf, Gary e Aida, quindi riprendono la strada per Bosaso. Le riprese mostrano la tanto discussa costosissima strada costruita con i fondi della cooperazione italiana, finalizzata alla distribuzione di tangenti e forse al seppellimento di rifiuti tossici. Ilaria e Miran arrivano a Bosaso ma l’aereo che avrebbe dovuto riportarli a Mogadiscio è già partito. Nel frattempo, il personale di Africa ’70 è rientrato a Bosaso: si tratta di Enrico Fregonara, Valentino Casamenti e la veterinaria Florence Morin. Ilaria è preoccupata per il mancato rientro a Mogadiscio e, soprattutto, di non poter mandare il servizio. Nel pomeriggio, telefona dall’ufficio di Unosom WFP di Bosaso ai genitori e al suo caporedattore Massimo Loche che la tranquillizza: stava per iniziare uno sciopero dei giornalisti Rai e dunque non avrebbe dovuto mandare alcun servizio.
Giovedì 17 marzo, i due giornalisti visitano, insieme a Casamenti, il centro di Ufein, dove Africa ’70 sta ristrutturando un ambulatorio e un laboratorio veterinario. Poi, alle 16, probabilmente un briefing presso l’ufficio Unosom di Bosaso e una telefonata a Loche. La sera, sempre presso Unosom, per i festeggiamenti in onore di Saint Patrick.
Venerdì 18 marzo, è giorno festivo e tutti insieme trascorrono la mattinata al mare. Nel pomeriggio, Ilaria e Miran si ritirano in camera per lavorare. Nella stessa giornata, a Mogadiscio, si tiene una riunione presso il compound dove si trovava l’Ambasciata italiana in cui i giornalisti ancora presenti vengono invitati ad evacuare la città. Durante la riunione viene notata l’assenza di Ilaria e Miran, quindi Carmen Lasorella chiama la redazione del Tg3 e parla con Elena Lelli (segretaria redazione Esteri del Tg3), la quale le riferisce che Ilaria e Miran sono a Bosaso e che sarebbero tornati domenica.
Sabato 19 marzo, i due giornalisti tornano al porto, accompagnati dagli amici di Africa ’70 e Miran riprende ancora le attività di carico e scarico (cemento, riso, farina, fusti). Poi Ilaria intervista il Capitano del porto, Mohammad Abshir Omar, e il rappresentante dell’Unosom, Dardo Scilovic. I due intervistati rilasciano dichiarazioni importanti. Il capitano parla dei sequestri e sostiene che «sono la giusta reazione a quello che viene considerano un indebito sfruttamento dei mari e le richieste di pagamento di riscatto debbono intendersi come una sorta di tassazione delle licenze di pesca. Anche il rappresentante dell’Unosom sembra in qualche modo giustificare questo sistema di pedaggi forzosi mentre appare seriamente preoccupato per la sorte di equipaggi composti da marinai di nazionalità croata, italiana, somala».
Domenica 20, Casamenti e Fregonara accompagnano i due giornalisti per prendere l’aereo che li riporterà a Mogadiscio.
Gli spostamenti dell’ultimo viaggio in Somalia fin qui riportati sono stati ricostruiti dalla Commissione d’inchiesta presieduta da Carlo Taormina attraverso le immagini – ritrovate – girate da Ilaria e Miran in quei dieci giorni. Tuttavia ci sono dei “vuoti” nella ricostruzione: non si sa chi accompagna Ilaria e Miran, quale macchina usano, né chi incontrano a Gardo e qual è il motivo che li spinge ad andarci. Alcuni di questi vuoti potrebbero essere riempiti dalle testimonianze di due somali e di un cooperante tedesco. Nell’estate del 2005, una spedizione – formata da Luciano Scalettari di “Famiglia Cristiana”, dall’onorevole Mauro Bulgarelli dei Verdi, da Francesco Cavalli, fondatore dell’Associazione e del Premio “Ilaria Alpi”, dall’operatore Alessandro Rocca – ha effettuato due viaggi in Somalia proprio per ripercorrere le ultime tappe del viaggio dei due giornalisti. Uno degli scopi della missione era quello di verificare la presenza di materiale radioattivo: nel primo viaggio è stato utilizzato un contatore Geiger e non è stata rilevata la presenza di materiale radioattivo. Nel corso del secondo viaggio, invece, è stato utilizzato il magnetometro, in alcune località vicine alla strada Garoe-Bosaso, che ha dato un risultato positivo, anche se parziale. Torniamo ai due testimoni. La spedizione ha anche incontrato e sentito due impiegati somali di Africa ’70: l’uomo di scorta Mohamed Nur Said e l’interprete Muktar. I due somali riferiscono di essere andati a prendere Ilaria e Miran all’aeroporto al loro arrivo a Bosaso. Ecco cosa racconta Muktar: «Sono andato a prenderli con un italiano. Non ne sono certo, ma mi pare si trattasse di Valentino Casamenti (il logista dell’Ong, nda). Lui fu avvisato del loro arrivo. In quei giorni l’équipe di Africa ’70 era a Gibuti. Non ero solo, alla sede. C’era con me Casamenti, che era tornato prima degli altri». Ciò contrasta con le dichiarazioni rese alla Commissione dai cooperanti di Africa ’70. Tutti hanno detto di essere rientrati il 16 marzo a Bosaso, con l’aereo perso da Ilaria e Miran, e di averli incontrati per la prima volta alla sede dell’Ong. L’altro testimone, il cooperante tedesco Alexander von Braunmuehl, rintracciato telefonicamente, aiuta invece a capire i movimenti di Ilaria e Miran dopo l’intervista a Bogor. L’uomo racconta: «Pranzai con loro il 19 marzo, alla sede di Africa ’70. Ero seduto di fronte a Ilaria. Raccontai che operavo a Gardo, lei mi disse che c’era stata nei giorni precedenti. Ma non disse in che giorno ci andò, né il motivo». Ilaria e Miran rimangono a Gardo un’intera giornata e la notte. «Perché ci vanno? Perché vi si fermano tanto? Stranamente, vi sono poche e generiche immagini di Gardo. Sembra che la telecamera sia rimasta quasi sempre spenta». Tracce del loro ultimo soggiorno a Bosaso si trovano anche in un quadernetto nero che apparteneva a Miran, una specie di diario dove lui annotava, durante i suoi viaggi, numeri di telefono o barzellette… – come ha raccontato la moglie Patrizia Scremin-. Nell’ultima pagina del quaderno viene riportata una frase, scritta il 19 marzo, mentre Ilaria e Miran si trovavano insieme ad una terza persona (un medico) e stavano bevendo qualcosa. La frase era più o meno questa: «Hai toccato il fondo, il fondo del bicchiere senza fondo».
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