Dal Free Europe di Seun Kuti al Radio Free Europe dei R.E.M., il peso delle parole

Quando un video diventa virale, e io sto per partire per questo viaggio di parole proprio prendendo spunto da un video virale, il rischio che sta lì sottotraccia è che proprio la viralità offuschi eventuali messaggi o secondi piani di lettura che non siano quelli più palesi. O comunque quelli per cui un determinato video diventa virale. Qualcuno potrebbe parlare di decontestualizzazione, e in effetti anche di decontestualizzazione si tratta, ma più semplicemente funziona come per certe citazioni che diventando parte del linguaggio comune, gergale, colloquiale, nessuno è tenuto a ricordare o anche solo sapere da dove arrivano, e quindi per quale motivo determinate parole sono state pronunciate, quel che conta è la citazione in quanto tale, anche a rischio di usarla in maniera del tutto fuoriluogo.

Temo stia succedendo questo, negli ultimi giorni, riguardo un video che vede Seun Kuti, uno dei sette figli del gigante dell’afrobeat Fela Kuti, artista e politico che ha lasciato un segno indelebile non solo nella musica africana ma azzarderei in quella mondiale, che durante un concerto tenuto all’interno dell’INmusic Festival di Zagabria ha proferito alcune frasi divenute nel giro di poco virali. In poche parole, e poche sono in effetti le parole che Seun proclama dal palco, a torso nudo, un sassofono stretto in mano, in poche parole Seun dice che se si vuole liberare la Palestina, e lui sa che tutti quelli che gli sono di fronte vogliono liberare la Palestina, così come se vogliono liberare il Congo, il Sudan, l’Iran, fatto questo punto prosegue dicendo, sarcastico, o forse semplicemente cronachistico, che ogni settimana si aggiunge una nazione per cui invocare la liberazione, ecco, dice Seun, se si vuole la Palestina libera tocca prima avere l’Europa libera. Sì, tocca prima liberare l’Europa dall’estrema destra, liberare l’Europa dal fascismo, liberare l’Europa dal razzismo, liberare l’Europa dall’imperialismo. Una volta portato a termine questo lavoro, conclude Seun, acclamato dal pubblico di fronte a lui, la Palestina sarà libera, come il Congo, il Sudan, l’Iran. Un ultimo monito, anzi, una richiesta accorata: “dimenticatevi di noi, liberate l’Europa”.

Belle parole, sensate, proclamate su un palco che, vado a intuito, consentiva a Seun Kuti di poter parlare liberamente. Attenzione, eh, non andate pensando che io stia per fare come certi soggetti che sminuiscono i rischi di un fascismo strisciante dicendo che il solo parlarne prova che non esista, i tempi sono cambiati e quella è ovviamente una frase altrettanto a effetto detta in malafede, quello che voglio provare a dire io è di tutt’altra matrice. Condivido quel che Seun Kuti dice in tutto e per tutto, ma questo è quello che ho letto sui social, prevedibilmente. Quel prevedibilmente, temo, è frutto del mio essere vivo e vegeto proprio in questi anni malsani, dove certe dinamiche stanno diventando talmente ben oliate da risultare quasi meccaniche, al punto che a volte verrebbe quasi da arrabbiarsi contro chi ci rimane incolpevolmente incastrato in mezzo, come se dire qualcosa di giusto ma farlo dando comunque il destro a chi poi estrapolerà il tutto a proprio uso e consumo fosse in sé una colpa grave.

Io però condivido ogni singola parola di Seun Kuti e su questo vorrei soffermarmi, video o non video virale. Sono dell’avviso che sia più semplice, per noi, guardare quel che succede altrove piuttosto che concentrarci su quel che ci capita dentro casa, più semplice e anche più comodo. Facile manifestare invocando la caduta di una dittatura, quando il chiederlo non ci costa in termini di rischi, non preveda un nostro qualche tipo di sforzo, non pretenda, cioè, che il nostro protestare non si fermi a slogan o post sui social, ma si applichi a ogni gesto del nostro vivere quotidiano. Certo, noi boicottiamo certe aziende, parlo del genocidio di Gaza, qualcuno va oltre andando alla Coop a prendere la Gaza Coke, ma la nostra vita di tutti i giorni prosegue sui soliti binari sicuri. Seun ci suggerisce di occuparci della trave nel nostro occhio, per dirla biblicamente, sicuro che una volta che ci siamo presi cura di quella tutto il resto si risolverà.

Il video è diventato virale, dicevo, per ovvio motivi. Tutto quello che Seun dice è a effetto. Neanche una parola fuoriposto. Non a caso è un artista e con un DNA notevolissimo, se è vero come è vero che suo padre Fela Kuti è stato uno degli artisti africani più rilevanti del Novecento le cui influenze arrivano fino ai giorni nostri nonostante sia morto ormai ventotto anni fa, nel 1997, e sa anche come scandire bene le parole, andando a tempo. Anche il suo dirle lì a torso nudo, il fisico muscoloso e nervoso, gli occhi che ammiccano quando serve, tutto funziona. Ma tutto funziona talmente tanto che anche quelle parole si staccano come una zecca ubriacata con l’alcool denaturato, pronte a diventare slogan a uso social, più iconiche che efficaci. Strana situazione, quindi, con un monito che si lascia addomesticare come un meme qualsiasi.

Free Europe, proviamo allora a guardare a queste due semplici parole.

Anche queste suonano a loro volta piuttosto curiose, parlando di imperialismo e di libertà, perché dal 1947 esiste Radio Free Europe, stando a quanto dichiarato da Donald Trump, ancora per poco, una radio con diffusione mondiale, almeno nelle ambizioni, il cui scopo è stato negli anni quello di veicolare in qualche modo notizie spesso censurate, e spesso censurate da quella che un tempo chiamavamo la Cortina di Ferro.

A partire dal dopo guerra, infatti, il Congresso degli Stati Uniti ha ben pensato di istituire un network radiofonico che trasmettendo in AM, FM e molto più avanti nel tempo via internet ha potuto trasmettere in ventotto lingue programmi atti a divulgare “valori e istituzioni democratiche tramite la diffusione di informazioni e di idee”. Quando prima parlavo di mondo ovviamente esageravo, Radio Free Europe è presente in Europa, ora la sede si trova a Praga, inizialmente a Monaco di Baviera, oltre che in Asia e in Medio Oriente. L’istituzione Radio Free Europe trasmise per la prima volta verso la Cecoslovacchia, sostenne la rivoluzione ungherese e più in generale venne usata all’interno della Guerra Fredda da parte della CIA. Avete presente quando si accusa il governo USA di voler esportare la democrazia anche con la guerra, Radio Free Europe non ha mai sganciato bombe, ma ha fatto il suo attraverso le parole, e se non è imperialismo questo fatico davvero a immaginare cosa possa essere oggi, nell’epoca dei social e dei mass media che si sono piegati a questi. Non a caso durante il quinquennio 1980-1985 ne scaturì una versione Radio Free Afghanistan, probabilmente oggi non ce n’è una in versione Iran solo perché Trump ha deciso di tagliare tutte le spese che vedano gli USA impegnati nelle vesti di “salvatori del mondo”, almeno a giorni dispari.

Comunque, proprio il 1980 porta in qualche modo Radio Free Europe dentro la storia della musica, visto che è questo il titolo del primo singolo e quindi del primo EP eponimo di una band di Athens che presto sarebbe divenuta tra le più famose al mondo, i R.E.M., band nata proprio nel 1980 e arrivata all’esordio con questo brano l’anno seguente. La canzone intendeva combattere le censure, visione molto romantica di quel che l’omonima radio andava facendo, al punto che proprio quest’anno, nel quarantacinquennale della nascita della band Michael Stipe, Mike Mills, Peter Buck e Bill Berry hanno deciso di tirarne fuori una nuova versione, con un remix da parte di Jacknife Lee.

Lanciando questo nuovo progetto, ricordiamo che la band si è sciolta ormai nel 2011, Stipe ha detto, come riportato da Rockol: “Amiamo il giornalismo, amiamo la libertà di parola e amiamo il mondo. E abbiamo questa canzone che ho scritto a 20 anni: è stato il nostro primo singolo, ed è un buon momento per celebrare la vera Radio Free Europe. Offrono notizie indipendenti a persone che vivono in società chiuse. È importante che restino: per la democrazia e per la lotta contro l’autoritarismo”. Sempre Rockol aggiunge le parole di Mills, “Radio Free Europe esiste per dire la verità in posti dove la verità viene repressa”, ha aggiunto Mike Mills. “I loro giornalisti fanno arrabbiare i dittatori da 75 anni. Sai che stai facendo bene il tuo lavoro quando fai arrabbiare le persone giuste”. Verrebbe da dire, Mike, parliamone, ma forse sarebbe cadere proprio in queste dinamiche contemporanee, dove vale tutto e il contrario di tutto.

Questo è un altro caso nel quale il messaggio che comincia a circolare è forse diverso da quello reale, al punto da diventare in qualche modo altro da sé, sostituendo quello originale. Radio Free Europe, la canzone dei R.E.M., pur nella poeticità spesso introspettiva dei testi scritti da Stipe, è a suo modo un inno alla libertà d’espressione, inno che prende nome da una storia che, invece, potrebbe non essere così edificante come Stipe e soci l’hanno intesa, e con loro parte dei loro fan.

Questa duplice storia, non essendo una fiaba, non ha una morale. Fuori fa caldo e probabilmente continueremo a gridare “Free Palestine”, rimandando a domani l’idea di cominciare a lavorare per liberare l’Europa, e lo faremo canticchiando la nuova versione di Radio Free Europe dei R.E.M., pur nella consapevolezza che che forse il nostro inno alla libertà di parole è anche un’involontaria celebrazione di una delle tante mosse della CIA per indottrinare il mondo su quello che è o non è democratico.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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