
Ho visto Adolescence, la serie tv inglese ideata da Jack Thorne e Stephen Graham e diretta da Philip Barantini, da quando è uscita prima su Netflix, e nonostante sia stata amata da tutti, a me non ha convinto, anzi, mi ha proprio innervosita.
Ho riflettuto e aspettato un po’ prima di scriverne, perché dopo averla finita ho passato giorni a chiedermi quale fosse il senso di questa serie.
Ne ho letto molto, forse troppo, anche da persone che stimo e ammiro, con le quali spesso condivido il pensiero, per esempio Carlotta Vagnoli, scrittrice e attivista, con la quale però non mi sono trovata d’accordo, anzi, mi è sembrato, leggendo le sue osservazioni, di aver visto due serie diverse, lei l’ha amata, a me ha lasciato addosso molta delusione.
Quindi mi sono interrogata e rinterrogata, finché non sono arrivata alla conclusione che questa serie a me, e pochi altri, non ha convinto perché si maschera da una serie progressista, ma con le stesse dinamiche e retoriche patriarcali a cui siamo sempre stati sottoposti, niente di nuovo, niente di innovativo, niente di rivoluzionario, un’ennesima serie che sbaglia il modo di parlare di femminicidio.
Non definendolo mai tale, tanto per iniziare.
Premetto, la miniserie è composta da soli 4 episodi quindi per parlarne sono costretta a fare degli spoiler, quindi uomo avvisato mezzo salvato!
Tornando a noi, la serie è ben recitata, fin qui nulla da dire, fatta solo ed unicamente con un piano sequenza, scelta registica audace e molto complessa, che per me, studentessa di Belle Arti, frequentante un corso proprio incentrato sulla fotografia, il cinema e le nuove tecnologie, ammetto di esserne rimasta piacevolmente colpita, specie per la giovane età del protagonista, che rende il tutto più complesso.
Tolto questo però, mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca, e ora vi spiego perché, di base l’ho trovata una serie pretenziosa, che ha scelto di trattare un tema delicato, come un femminicidio commesso da un minore, di soli 13 anni, e cercando di indagare su quello che è il mondo degli Incel, della Mano Sfera, e di una corrente, non troppo diffusa in Italia fortunatamente, ma che in molti posti crea un forte disagio sociale, però trattando il tutto in maniera grossolana.
I temi sono bene o male 4, uno per episodio, ma non vengono mai conclusi, gli episodi sono tutti sospesi, non hanno un vero e proprio finale, lasciando allo spettatore una videocassetta srotolata e mai riavvolta, lasciata lì a incasinare e basta.
E questo è il primo dispiacere che ho avuto, il secondo dispiacere è stato impartito dal modo di raccontare Katie, la vittima di femminicidio, e Jamie, il suo esecutore, come se in un qualche modo lui avesse avuto un qualche scusante e lei fosse stata in un qualche modo colpevole di averlo indotto a sfogare la rabbia, dal padre tramandata, in un gesto folle e crudele, dettato dallo sfinimento per il bullismo da lei subito.
Insomma, la classica retorica di “Lui l’ha uccisa, ma lei se l’è cercata”, senza però dirlo mai chiaramente, lasciandolo intendere allo spettatore, a cui vengono serviti degli indizi qua e là, dalle foto in intimo che Katie mandava, ai commenti cattivi che scriveva a Jamie, fino ad arrivare al rifiuto finale, un classico.
Jamie dunque, carnefice ma anche vittima, ci viene narrato in maniera tale da non essere mai visto come un crudele assassino, ma come un qualcuno spinto al limite, che, in un certo senso, ha avuto una ragione per farlo.
E qui che casca la serie, ed è un peccato, perché il tema era interessante, complesso e importante, e poteva uscire fuori qualcosa di potente e destrutturato su un argomento che permea la nostra società, sia nel Regno Unito, dove è stata girata, sia nel resto del mondo.
Eppure ha fallito, a parer mio, fino al finale il ragazzino non comprende la gravità del suo gesto e nessuno prova mai a farglielo realmente capire, e in tutte le puntate si cerca di scaricare la colpa su qualcun altro, la scuola, la vittima, i compagni, i genitori, insomma è sempre troppo difficile ammettere che un uomo che compie un femminicidio è un uomo che compie femminicidio e l’unico colpevole è lui e lo stato patriarcale in cui cresciamo tutti, fine.
So di non essere l’unica ad avere avuto questa impressione finita la serie, ho letto che anche Irene Graziosi, altra divulgatrice che stimo, ha espresso le sue perplessità, anche se orientate più sul punto di vista della trama e della scrittura, io invece, ho proprio solo patito questa fatica nel riuscire a pronunciare la parola femminicidio e a non fare victim blaming anche in una storia di finzione, perché alle fine cosa pretendiamo dalla finzione se è costruita da chi compone la realtà.
Insomma, guardatela, perché a livello registico merita, e perché comunque delle riflessioni ve le suscita, ma quando la guardate, provate a immaginare che chi si occupa del caso, chi ha commesso l’atto, chi ruota intorno a quei 4 episodi, stia parlando di vostra figlia morta, non di una qualsiasi ragazzina di 13 anni, penso che cambierebbe la vostra espressione nel volto, o forse ho solo troppe aspettative e troppa speranza di un cambiamento che ancora fatica ad avvenire.