
Ho visto una serie su Netflix. Guardo spesso serie su Netflix. Quando scrivo, e scrivo tutti i giorni, le uso per azzerare i rumori di fondo, che mi distrarrebbero. Ho costantemente lavori intorno, stanno costruendo un palazzo proprio di fronte al mio, e da un paio di mesi stanno anche ristrutturando l’appartamento sopra il mio, vai di martelli pneumatici. Tre giorni la settimana c’è anche mia moglie che fa smart working, nella studio di fianco a dove sono solito lavorare io, le sue call, le sue telefonate, sono tutti rumori di fondo. Potrei ascoltare musica, ma la musica è spesso l’oggetto del mio scrivere, non riuscirei a sentirla senza distrarmi, quindi guardo serie tv. Le tengo in rotazione su un tablet, che sta alla sinistra del mio computer, e quasi mai so cose accade lì dentro. È appunto una sorta di compagnia non diversa da quella che fanno certe musichette dentro gli ascensori di certi grattacieli. Mi capita, l’ho già raccontato più e più volte di vedere serie anche lunghe, composte di più stagioni, senza avere la minima idea di quale sia la trama. Al punto che poi magari, nel dover scegliere cosa guardare, finisco per tornarci su e scoprire che l’ho già vista, parlo anche di serie di otto, nove stagioni.
Ogni tanto, ma davvero molto raramente, mi capita di notare qualcosa di interessante, una scena, un dialogo, un costume, che poi finisce dentro quello che sto scrivendo, come del resto ci finisce spesso anche quel che mi capita di vedere o ascoltare nella vita di tutti i giorni, mentre sono in strada o mentre guardo dalla finestra. Non è un modo per dar sfogo alla mia megalomania, come a volte capita di pensare a chi mi legge, ma un modo per parlare di qualcosa cercando altrove immagini utili al mio raccontare. Anche adesso, può non sembrare così, ma non sto mica parlando di me che guardo serie tv su Netflix per azzerare i rumori di fondo mentre sto scrivendo e intorno a me c’è soltanto casino.
Ho quindi visto una serie su Netflix. Una miniserie di quattro puntate, a dirla tutta, e stavolta la distrazione è arrivata dal lì, al punto di aver smesso praticamente di scrivere, seguendo ogni singolo istante della trama. Non perché fosse un capolavoro, non mi occupo di televisione, non credo di avere le competenze se non da scrittore per giudicare se una serie sia o meno un capolavoro, ma a occhio non direi, quanto piuttosto proprio per la trama. La serie si intitola La Palma, e si svolge tutta nell’omonima isola delle Canarie. Non sono mai stato alle Canarie, ma c’è stata nostra figlia grande, Lucia, che spesso lavora con me, e ne è rimasta entusiasta. Lei non è stata a Palma, ma a Lanzarote, che di quel contesto è forse l’isola più selvaggia, immagino quindi che Palma sia volendo anche più adatta a chi, come me, è più anziano. Proprio al ritorno del suo viaggio a Lanzarote, per altro, ci ha fatto vedere tutte le foto che ha fatto, lei studia all’Accademia di Brera anche fotografia, e devo dire che ho trovato le sue foto non solo bellissime, ma qui potrebbe entrare il campo il mio occhio di padre, ma anche impressionanti. Sul fatto che siano impressionanti l’occhio di padre non ha un peso, quanto piuttosto l’occhio di un padre che ha sempre guardato al mare con un certo timore, forse dovuto all’aver imparato a nuotare autonomamente da adulto, quindi senza quella sicurezza che si ha quando si apprende qualcosa in giovane età. Tra le altre cose, oltre a aver fatto corsi di immersione e anche di surf, lì ovviamente il mare è pieno di onde, e una delle isole delle Canarie si chiama Fuerteventura, credo non serva spiegare perché molti vanno da quelle parti per far surf, hanno visitato un museo che si trova a non so quanti metri di profondità, muniti di mute subacquee e di bombole. Io, per dire, una cosa del genere non la farei neanche se mi riempissero le tasche d’oro, immagino per facilitarmi nell’impresa di scendere più a fondo. Mi terrorizza l’idea di fare immersioni, figuriamoci l’idea di stare sott’acqua per quasi un’ora.
Tornando però alla miniserie che ho visto su Netflix, La Palma, queste quattro puntate non hanno lo scopo, immagino e spero, di invogliare qualcuno a passare le prossime vacanze da quelle parti, perché la trama ruota tutto intorno all’esplosione del vulcano che occupa la parte centrale dell’isola, con conseguente tsunami in grado di distruggere mezzo mondo, così diceva in maniera abbastanza radicale la sigla, con voce recitata di sottofondo.
Senza fare spoiler, la trama è avvincente, questo posso dirlo, e anche abbastanza angosciante, perché si parla sin dai primi frammenti di tsunami e chiaramente è lo tsunami quel che si attende per ogni singolo istante, lo tsunami preceduto dall’esplosione del vulcano. Il tutto costruito intorno alla presentazione dei protagonisti, cosicché le loro sorti ci stiano a cuore, che si empatizzi con qualcuno che, è scritto, potrebbe lasciarci la pellaccia. Se avete letto tutte le polemiche sorte intorno alla serie tv andata in scena su Disney+ sull’omicidio di Sarah Scazzi a Avetrana, con un intero paese a chiedere e ottenere che la serie togliesse il nome del paese salentino dal titolo, poi diventato Qui non è Hollywood, beh, potete ben immaginare cosa potrebbe essere successo a La Palma, serie che ha per titolo non un luogo anonimo del Salento, ma un luogo tra i più turistici della Spagna dopo che Netflix ha pubblicato una serie tv, norvegese, su un cataclisma che, dicono, potrebbe accadere in qualsiasi momento. Peggio, cito un claim che ritorna più volte nella serie, un cataclisma non che potrebbe accadere, ma che accadrà, quel che non si sa è solo quando. Pensate, che so?, se uscisse una serie dal titolo Madonna di Campiglio, nella quale si racconta di come le Dolomiti siano sul punto di crollare come un castello di carta, uccidendo centinaia di migliaia di persone. O Rimini, dove una faglia sismica che passa sotto la capitale del divertimento romagnolo, è pronta a aprirsi, pronta a portarsi via buona parte del centro Italia. Ma senza andare troppo lontano, pensate a una bella serie su come il Vesuvio o i Campi Flegrei decidano di tornare ancora più attivi di quanto non siano, portandosi via non solo Napoli e quel che ci sta intorno, ma parte del Mediterraneo. Ecco.
Io, che sono appunto molto timoroso riguardo il mare, ho guardato questa serie con angoscia crescente, immedesimandomi senza alcuno sforzo nei protagonisti, e flaggando senza alcuna possibilità di ripensamento il nome di La Palma e delle Canarie tutte tra i luoghi da evitare come la peste, perché è vero che morire dobbiamo tutti morire, ma andarsele proprio a cercare, dai, anche no.
Per questo, non solo per questo ma anche per questo, provo sempre un certo disagio quando mi accingo a ascoltare determinati album, sapendo che quel che mi attende è il corrispettivo metaforico di una morte tremenda, senza neanche un briciolo di speranza di trovare un’ansa o una collina che mi metta in salvo dallo tsunami. Sapere di trovarsi di fronte a qualcosa di terribile, siamo pur sempre animali e l’istinto primordiale ci spinge sempre e comunque verso la salvezza, questo pur vivendo in un pianeta che abbiamo contribuito a rendere un luogo sul punto di implodere, sia chiaro, ci spinge verso la nostra salvaguardia, quindi la tentazione di passare oltre, arroccandomi dietro presunti diritti dovuti all’età, alla firma, quel che è, sono sempre lì sul punto di essere usati. Certo, a tratti subentra un altrettanto ancestrale voglia di prevalere sulla Natura, l’uomo che scopre come accendere il fuoco e gli comincia a baluginare in testa il concetto di essere il re incontrastato del mondo, quindi quella sorta di voglia di sfidare il destino, andando contro ogni logica prende il sopravvento, spesso infilandoci dritti dritti nel punto esatto dove il vulcano in questione sta per esplodere, ma l’istinto di sopravvivenza è carta laddove questo primo vagito di mascolinità tossica è sasso, vince sempre. In nostro soccorso, e uso la prima persona plurale giusto per coinvolgere voi lettori nelle fasi di scrittura che in realtà sono totalmente mie, in nostro soccorso è arrivato, so che sembra un paradosso, Daniel Ek, il titolare di Spotify che più volte ho indicato, e ancora indico, come il principale responsabile di questa apocalisse musicale nella quale siamo precipitati, l’algoritmo a dettare la poetica e i suoni, quindi a plasmare i gusti al ribasso di questa epoca, quel Daniel Ek che avendo in qualche modo imposto un ritorno ai singoli, lui ne pretende uno al mese, in barba a chi vedeva nel formato album il proprio formato ideale, perché almeno la tortura degli ascolti non dura mai più di tanto, e converrete che se dovete fare qualcosa di doloroso, uso come immagine una ceretta atta a depilarci, è meglio uno strappo energico e immediato che star lì a procedere con calma, un centimetro alla volta, ma stiamo parlando di dettagli, perché sempre Daniel Ek ha portato verso una bulimia di pubblicazioni, quindi a ascolti orribili si susseguono ascolti orribili, in quello che un tempo si sarebbe chiamato stillicidio.
Ascoltare un nuovo brano, quindi, sapendo che ci sono buone, ottime probabilità, laddove non addirittura certezze, che quel che ascolteremo sarà qualcosa di terribile, una pioggia di cenere che precede di un attimo l’arrivo del gas letale e poi della lava, seguita come pietra tombale da uno tsunami, diventa una sorta di tortura, senza neanche il sollievo di sapere che da qualche parte c’è Shakira a fare la danza del ventre coperta di bitume. Ma è un duro lavoro e qualcuno deve pur farlo, o deve essere abbastanza abile a scrivere e lavorar di logica da poterne parlare anche senza averlo ascoltato, ve la butto lì, quindi è con spirito rassegnato e al tempo stesso epico, di quel tipo di epica che accompagna i kamikaze pronti a immolarsi per portare alla vittoria il proprio paese, che mi sono accinto a ascoltare Anni d’oro di Benji e Fede, e niente, è andata esattamente come nella miniserie di Netflix. Non tanto per la canzone in sé, scritta da due firme di pregio, Lorenzo Vizzini e Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari, qui evidentemente a giocare con la squadra primavera, un brano pop di mestiere, quanto per l’interpretazione dei due, scialba e piaciona, in una parola: prevedibile. Anzi, in due parole: prevedibile e inutile. Cenere e lapilli, e poi lava, terra che smotta, tsunami. Addio.
Da domani torno a parlare di cose belle, sempre se risorgo.