Pier Cortese: “Al nuovo disco voglio bene come a un sopravvissuto”
Cantautore, musicista e produttore romano, Pier Cortese non ha mai abbandonato l’intensità, la cura e soprattutto l’urgenza di raccontare e di “ricercare” nuovi territori
“Come siamo arrivati fin qui”, anticipato dai primi singoli e videoclip estratti “Tu non mi manchi”, “È per te”, “Te lo ricordi” e dalla title track, segna il ritorno di Pier Cortese, che manca dal 2009 con un disco di inediti, ed esprime fin dal titolo la complessità e la consapevolezza del cammino artistico e di vita che lo ha ispirato e reso possibile.
Cantautore, musicista e produttore romano, Pier Cortese non ha mai abbandonato l’intensità, la cura e soprattutto l’urgenza di raccontare e di “ricercare” nuovi territori, senza mai rinunciare alla sua natura cantautorale e attingendo con grande libertà a una vasta gamma di generi e culture senza limiti e regole come dimostrano le dieci canzoni presenti nel nuovo album.
Un nuovo disco di inediti dopo dodici anni, riprendendo il titolo dell’album: come siamo arrivati fino a qui?
Siamo dei sopravvissuti. Almeno io mi sento un sopravvissuto ai tempi e ai cambiamenti. Dodici anni sono tanti, sono diverse ere musicali. Quindi, in questo senso, a questo disco voglio bene come a un sopravvissuto perché ha accompagnato tutti i cambiamenti che ho avuto dentro e fuori.
È molto poetica ed eloquente la copertina dell’album: com’è nata?
La copertina dell’album è un insieme di fattori e di elementi che sono determinanti per fare una sintesi di quello che caratterizza l’album. Ho cercato di mettere un po’ in risalto una specie di immagini che possono essere una sorta di metafora. Per esempio, il fatto che io sia dentro questo oblò, sott’acqua, sospeso in apnea per tanto tempo come se aspettassi che qualcuno lo aprisse o venisse davanti al vetro per ascoltarmi. Io ho in mano un mazzo di fiori che rappresenta l’omaggio di ciò che sono le canzoni ossia il bagaglio di cosa sono riuscito a raccontare nel disco. È una parte importante delle immagini che lo rappresentano.
Mi piace che nella copertina a guardarti ci sia un bambino…
Il bambino può rappresentare la nuova generazione, la musica del futuro, ma anche un nuovo esordio, ma anche io che ritorno. Il bambino è anche tutto questo tempo che ho dedicato in questi anni al progetto delle canzoni per bambini (nda “Little Pier e le storie ritrovate”) che mi ha tenuto compagnia per questi dodici anni di assenza da cantautore.
Dodici anni in dieci canzoni: chi era Pier Cortese quando ha iniziato a scrivere queste canzoni e chi è oggi?
Ero un ragazzo pieno di entusiasmo e di passione per la musica, ma anche senza esperienza. Inevitabilmente l’inesperienza mi ha fatto fare dei passi a volte avventati, a volte non centrati a volte non ero a fuoco io.
La differenza è che in questi dodici anni ho vissuto la vita. Sono maturato, sono cambiato. Vedo le cose in modo diverso, ma soprattutto credo di avere accettato gran parte di quello che in fondo mi interessa e di quello che sono. Ho fatto delle scelte e sono arrivato persino a mettere in dubbio il voler fare questo mestiere o di essere libero di farlo.
Il cambiamento è che questo disco ha un’accettazione di me e un senso di libertà che prima non c’erano perché ero incastrato in una serie di meccanismi: dalla voglia di essere in classifica o di arrivare da qualche parte. Adesso ho solo voglia di fare arte e di raccontare il mondo con i miei occhi, senza filtro.
La brama di arrivare al successo quanto può essere deleteria per un artista?
Puoi perdere di vista tante cose sia di quello che hai attorno sia il senso di quello che stai facendo. In questi dodici anni, ho evitato di riempire archivi fotografici o cataloghi inutilmente facendo dei dischi tanto per farli. Ho vissuto e ho aspettato, forse pure tanto, di avere l’urgenza e la necessità di fare quello che poi ho fatto proprio perchè volevo riconquistare l’amore primordiale che ho sempre avuto nei confronti di questo lavoro che rispetto tanto. Ho aspettato che facessi pulizia totale.
Oggi cosa è per te il successo?
Per me il successo è poter dire che a quasi 45 anni, con una bambina e con una vita già avanzata per certi versi, io continuo a fare musica. Il successo per me è essermi costruito le possibilità per poter fare questo mestiere, pur non avendo l’obbligo di dover fare dei compromessi o di dover fare ciò che non voglio fare.
Cosa c’è della pandemia in questo album?
È una pandemia che si associa già alla mia personale pandemia (nda sorride). È una pandemia che riguarda tante altre persone e la parola sopravvissuti ritorna ancora di più perchè penso a cosa c’è stato intorno e a cosa abbiamo perso e subito. È stato anche un grande momento di riflessione e di catarsi. È stato un colpo di coda importante per accelerare certi processi. Avevo iniziato il mio molto tempo prima; con la pandemia si è accelerato.
Per sonorità e testi è un album che non segue le mode attuali. Cosa vuol dire comporre per te?
Comporre per me ha dentro la speranza che quello che scrivo sia anche in qualche modo la storia degli altri. Nel senso che quello che vedo io è un punto di vista che spero poi sia un’emozione condivisa dall’ascoltatore che magari riesce a vedere o a sentire la stessa cosa. Questo aspetto è sempre molto importante.
È vero che è un album di grande ricerca sonora dove non c’è solo il cantautore, ma anche il produttore, il musicista e la persona che è cresciuta. È un passaporto molto più fedele a me stesso però è vero che il punto di vista emotivo rimane molto presente.
Nel tuo percorso, molte collaborazioni. Hai scritto e prodotto tanti artisti. Hai scoperto il segreto per scrivere una canzone evergreen?
No, ma non penso ci sia un segreto per scrivere grandi canzoni. Ci sono momenti illuminati e sono casualità. Paul McCartney diceva: “Le canzoni sono già state scritte, bisogna solo trovarle”. Sai, oggi c’è la sensazione che, anche se tu possa scrivere “Imagine”, il contesto sociale e storico dell’ascoltatore non sia capace di capire che tu hai scritto “Imagine”. Oltre a chi scrive, ci deve essere anche una predisposizione all’ascolto di un certo tipo.
La tocchiamo pianissimo…
Nel frattempo la musica è diventata intrattenimento. Trent’anni fa, le file si facevano ai negozi di dischi. Adesso, si fanno le code ai negozi dei telefonini. Già questo la dice lunga su quello che è diventata la musica. Il contesto sociale è cambiato. Non voglio dire che sia solo peggio, ma che nel frattempo ci si è alleggeriti molto. Sia per chi scrive sia per chi ascolta non è la stessa cosa.
Nessun album di inediti, ma sono stati anni pieni di live in giro per l’Italia. Qual è la tua opinione su come si è gestito il comparto live con l’avvento della pandemia?
Non mi sento di giudicare. In quel periodo ci sono state troppo incognite per capirci qualcosa. Tutte le decisioni erano fatte di onde e variavano sempre. Di sicuro, c’è stata una gestione molto confusa dall’alto. Inevitabilmente quando c’è in corso una cosa del genere così grande, è difficile prendere delle decisioni e delle responsabilità. Di sicuro è mancato tanto, però quando le cose mancano si capisce di più cosa sono.
A proposito di live, è previsto un tour per presentare il nuovo album?
Sperando non succeda nulla, comincerò a Torino il 25 novembre al Cap10100. Poi sarò a Roma il 18 dicembre al Monk. Poi seguiranno Milano, Prato, Bologna.
Sullo spettacolo ho le idee chiare ossia somiglierà molto al disco: sarà un po’ sperimentale un po’ intimista un po’ emozionante (si spera). Partirò in trio insieme a Fabio Giandon e a Emanuele Colandrea. Stiamo facendo proprio adesso l’allestimento dello spettacolo. Non per fare il gradasso, mi sembra uno spettacolo unico dal punto di vista degli ingredienti e degli elementi che ci sono. Unico non vuol dire che sia incredibile o il più bello, ma che ha degli elementi sonori inusuali.
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