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Un tempo era la televisione. Sì, c’è stato un tempo, gli anni Ottanta, gli anni Novanta, nel quale la televisione ci ha offerto un punto panoramico dal quale guardare il mondo senza il rischio di essere a nostra volta guardato. Certo, c’era la finzione che un mezzo, un media appunto, ci regalava, ma era pur sempre un punto panoramico. Ne ha scritto David Foster Wallace, e chi se no?, per altro proprio in quel famoso scritto sull’ironia, E unibus pluram, che mi ritrovo a citare forse anche troppo spesso. Ci vedeva della praticità, DFW, e anche dell’indolenza, ma di fatto amava la televisione per quell’offrirgli una finestra con tende invalicabili. Poi ci sono stati i social, e DFW ahinoi non era più lì a raccontarceli. I social sono ben più di una finestra, certo, e pur permettendoci di vedere senza essere visti ci hanno offerto le lusinghe dell’essere visti per come vogliamo o vorremmo, generando questa sorta di realtà finzionale e accelerata nella quale viviamo da anni. Appariamo, o forse sarebbe meglio dire mostriamo un’apparenza che quasi mai coincide col reale, ma ci va bene così, in una sorta di balletti e di inganni. A voler vedere il mondo, verrebbe da pensare, basta scrollare le timeline dei nostri social, la tara data dalla consapevolezza che è tutto filtrato, anche se ormai pure quello è diventato parte dei nostri io.
Anche per questo, quindi, quando sto sul divano guardano piedi che fanno da mirino a paesaggi, leggendo banali aforismi di Herman Hesse a fare da didascalia a scollature e muscoli, più tutta una sarabanda di piatti ben impiattati, stralci di architettura o quel che è, posso permettermi di dire a mia moglie che sto lavorando, come un Joseph Conrad aggiornato coi tempi che corrono.
Solo che a volte, non di rado, mi vien voglia di guardare al passato, come quando certe domenica mattina ci prende la smania di andare per mercatini dell’usato, così mi ritrovo a guardare dalle finestre del mio appartamento, fissando quel che succede in strada come quel che succede negli appartamenti dei palazzi vicini al mio. Abito al settimo piano di un palazzo di otto, affacciato su una piazza per buona parte della sua lunghezza. Ho quasi tutte porta finestra che affacciano su balconi, praticamente tranne che i bagni e lo studio tutte le stanze ne sono fornite. Quindi ho tanti posti da cui guardare. In realtà i soli appartamenti dentro i quali posso provare a sbirciare sono quelli che affacciano sul balcone che si trova nella mia camera da letto, per il resto i palazzi sono troppo lontani, e sempre da quel balcone posso vedere terrazzi e altri balconi, provando a rubare stralci di vita quotidiana. C’è il tizio coi capelli a fungo, grigi, una via di mezzo tra il compianto Matteo Guarnaccia e Buzz Osborne dei Melvins, che passa le giornate di primavera a fare thai chi usando il bastone di una scopa, o a leggere libri coi piedi incrociati appoggiati sul parapetto, un giro di fidanzate che da qualche tempo si è interrotto. C’è l’altro tizio che ha una figlia che ogni tanto lo viene a trovare, lui che passa il tempo al computer, una bandiera della pace lì da prima del Covid, ormai completamente stinta e lisa. C’è poi un balcone pieno di piante, sembra quasi una sera, lì dove viveva una famiglia di filippini, così ho sempre pensato. Li avevo notati proprio durante il lock down, perché durante la domenica di Pasqua si erano tutti messi in circolo, il terrazzo è quadrato e non troppo ampio, ma abbastanza da farci stare sei, sette persone in circolo, piante comprese, e avevano cantato una vibrante versione a capella di Halleluja di Leonard Cohen, quella che tutti pensano sia stata scritta da Jeff Buckley. Sembrava un canto divino, al punto che avevo fatto un video e lo avevo condiviso sui social, scoprendo quindi che Morgana, la chitarrista solista delle Bambole di Pezza era mia vicina di casa, anche lei stava assistendo a quello spettacolo, mi ha scritto. Non ho neanche il nome nel campanello, figuriamoci se ho voglia di far sapere sui social dove abito, non ho più commesso quell’errore.
Comunque sia, ultimamente in quell’appartamento, quello della famiglia filippina che canta magnificamente, vive un uomo solo. Il capofamiglia, ho pensato all’epoca, ora che è solo non saprei come definirlo. Nonostante sia inverno, e nonostante sia un inverno anche abbastanza freddo, o almeno lo sia stato, il tizio, pelato e glabro, è solito passare qualche ora al giorno sul terrazzo, a torso nudo e immobile. Come se stesse meditando. Come se stesse meditando sottoponendosi a una prova estrema, per quanto illuminato dal sole, quel balcone volge a ovest pur trovandosi il palazzo verso nord-est, fa pur sempre molto freddo. Io passo del tempo a fissarlo, a mia volta immobile, pur essendo vestito e al chiuso. Sono incantato e anche perplesso. Forse più che perplesso dovrei dire interrogativo, cosa avrà mai da star lì così, quel tizio, e come la pensa a riguardo il King Buzzo che abita un paio di piani sopra di lui, altrettanto assiduo frequentatore del proprio terrazzo, decisamente più grande, ma rigorosamente vestito?
Piccola notazione a piè di pagina, mentre di King Buzzo e dei suoi movimenti in stile Tai Chi con il bastone della scopa ho video dentro il mio cellulare, video che ho condiviso con miei amici, per riderne, del tizio glabro e pelato a torso nudo no, come per una forma di rispetto, forse azzarderei, sto pur sempre parlando di me, di paura. Perché essere meditabondi è qualcosa forse da ammirare, non ho una mia teoria a riguardo, ma praticare arti marziali, specie arti marziali che contemplino lo stare tre, quattro ore al freddo e al gelo come Gesù bambino nella mangiatoia, beh, questo è decisamente qualcosa cui guardare con timore.
All’ultimo Festival, quello che si è concluso giusto un paio di settimane fa, c’era uno dei cantanti in gara che avrei visto bene a fare meditazione come il tizio filippino. Certo, forse non a torso nudo, del resto a Sanremo ha sfoggiato sempre begli abiti eleganti e al tempo stesso con splendidi disegni, ma comunque lì a meditare. Non a caso è anche il solo a aver dato vita a un concerto dentro una chiesa, quello che potrebbe sfoggiare nella sua bio come un concerto a San Siro, visto che la chiesa in questione, la cattedrale di Sanremo, è appunto dedicata a quel santo, in coppia con la sua compagna, Amara. Parlo, ho già spoilerato tutti i dettagli necessari per capirlo, non bastassero titolo e foto di copertina di questo pezzo, di Simone Cristicchi, in gara con la canzone Quando sarai piccola, e ammantato ormai da tempo da un’aura quasi misticheggiante. Sarà che pochi giorni prima di salire sul palco dell’Ariston, e anche pochi giorni dopo esserne sceso, lo abbiamo visto incarnare San Francesco nello spettacolo teatrale Franciscus, sarà che era in gara con una canzone profonda, dedicata a quella fase della vita che pone un adulto in condizione di diventare genitore dei propri genitori, se ha la fortuna di averli ancora con sé, canzone frutto di un’esperienza personale vissuta con sua madre, ma sarà, più che altro, che in un Festival nel quale, per dirla con Carlo Conti, l’impegno e la politica sono rimasti a casa, molti i brani dedicati all’amore, in perfetta modalità sanremese, una canzone che affrontasse un tema come quello era destinata sì a far riflettere e emozionare, gli occhi lucidi di buona parte del pubblico in sala, all’Ariston, e immagino anche di chi era a casa frutto di un momento di empatia che, diciamolo, a Sanremo negli ultimi anni è stato sempre più raro. La canzone, mica per caso, è entrato nella cinquina, che sarebbe la nuova idea sanremese di podio, piazzandosi al quinto posto dietro Fedez, Dio santo, Brunori SaS, Lucio Corsi e Olly, rinverdendo l’idea che in Italia si possa fare musica e essere cantautori anche nel 2025, rivendicando il sacrosanto diritto degli uomini a non esercitare sempre e comunque una mascolinità tossica, e ponendo la fragilità al centro della scena, come del resto hanno fatto un po’ tutti gli altri quattro finalisti. Durante il Festival, del resto credo fosse lì anche per quello, Selvaggia Lucarelli si è dedicata a indicare una serie di discrepanze tra quanto si poteva evincere da certe dichiarazioni di Cristicchi e certe altre dichiarazioni dello stesso Cristicchi sul tema: cosa ha sua madre o cosa ha avuto. Temi buttati sul tavolo della polemica dopo averla criticata per una narrazione a suo dire poco aderente al vero, si parlava di chi è caregiver di un parente malato di Alzheimer, per poi proseguire, colpita da hating anche da parte di colleghi quali Marino Bartoletti, che l’ha attaccata poco elegantemente in sua assenza dal palco di Domenica In, con la messa in dubbio che la madre di Cristicchi fosse in effetti realmente malata. Su questo tema si sono buttati anche altre firme, citando passaggi a loro dire chiave del Sanremo criticchiano come l’ospitata al Prima Festival davanti al microfono di un Gabriele Corsi commosso e in lacrime, foriero di voti e di vittoria, parlo di Grazia Sambruna, in questo caso. Il tutto rinforzato dal fatto che Simone Cristicchi abbia infine raccontato proprio a Domenica In, una settimana dopo la fine del Festival, che sua madre è stata colpita cinque anni fa non dall’Alzheimer ma da un’aneurisma cerebrale, e che di lì sia iniziato il suo calvario. A rendere poco “simpatico” Simone Cristicchi agli hater, invero pochi rispetto a quanti si sono detti colpiti da Quando sarai piccola, una certa prosopopea nel raccontarsi, il suo parlare del brano in gara come “arte pura”, il suo indicare in un’intervista un suo precedente passaggio a Sanremo come uno dei momenti per lui più importanti del Festival, il suo aver detto che aveva fatto un regalo a tutta l’Italia scrivendo quel brano. Un atteggiamento sulla carta più da trapper che da cantautore con una fervente attività a teatro alle spalle, forse, ma che, credo, poco ha a che fare col tema trattato. Perché una cosa credo vada detta, e il tema è applicabile a Quando sarai piccola come a un po’ tutte le canzoni e le opere d’arte che trattino temi che colpiscono il personale del pubblico, se la gente si è commossa all’Ariston come a casa, se cioè è andata facendo propria quella canzone, spostando altrove il comune sentimento volendo anche vagamente ecclesiastico che un paio di anni fa aveva colpito Supereroi di Mr Rain, non è mica perché pensava alla mamma di Simone Cristicchi, Alzheimer o aneurisma direi che poco conta, ma perché ha pensato a qualche suo caro, evidentemente in una condizione simile. Come diceva Ernest Hemingway, fai durare a lungo una storia e troverai sicuramente un finale tragico, o qualcosa del genere, quindi chiunque, più o meno, avrà vissuto sulla propria pelle di figlio, di nipote, o anche di amico la condizione di vedere qualcuno cui si vuole molto bene diventare fragile, debole, incapace di essere autonomo. Per questo piangevano tutti, e per questo la canzone Quando sarai piccola è arrivata a così tanta gente. Una paraculata? Può essere, ma allora lo è stata anche Signor Tenente di Giorgio Faletti, L’amore rubato di Luca Barbarossa e qualsiasi canzone arrivata su quel palco che affrontasse un tema in grado di suscitare sentimenti non banali negli ascoltatori.
Certo, da parte sua Simone Cristicchi ci ha messo del proprio, i riferimenti all’arte su citati, e ha la spada di Damocle di una certa nomea di essere ascrivibile alla destra meloniana per aver portato a teatro la tragedia delle Foibe, fatto che evidentemente non provoca simpatie nel mondo dello spettacolo. Come potrebbe apparir sospetto il fatto che su quel medesimo palco ci sia in passato arrivato da vincitore del Festival con una canzone che portava in scena la follia e la vita amorosa nei manicomi, Ti porterò una rosa primo passo verso il Cristicchi teatrante che poi è stato quello più attivo negli ultimi dieci e passa anni. Ma interessarsi a casi dolorosi non credo sia una colpa, o un marchio politico, e procedere per pregiudizi non porta necessariamente a verità assolute. Una canzone può piacere o meno, Selvaggia ha voluto credo giocare a soffiare la vita al brano portato in gara da Rkomi, Il ritmo delle cose, piazzatosi penultimo a poi risalito in classifica, un simpatico modo di flexare la propria capacità di influenzare le masse, e volendo anche un gioco non troppo diverso da Caligola che faceva senatore il proprio cavallo, e il fatto che Rkomi si stia da giorni prendendo per il culo da solo per quel suo cantare in corsivo, con tanto di video in complicità con la logopedista ne ha fatto il perfetto contraltare alla seriosità mistica di Cristicchi.
Credo che però questa campagna di odio nei confronti di Cristicchi stia diventando davvero stucchevole. Simone ha tenuto una conferenza stampa prima del Festival, alla presenza di buona parte dei giornalisti e critici musicali, nella quale ha raccontato in maniera specifica la sua vicenda familiare, aneurisma compreso, non averne tenuto conto, aver frainteso, magari anche aver lasciato che si fraintendesse non dimostra altro che la disattenzione dei nostri giorni, non certo una strategia dolosa. Quando sarai piccola non credo sia arte pura, quanto piuttosto una buona canzone, ben scritta e in grado di veicolare emozioni, anche per quel suo trattare un tema doloroso a rischio retorica, costruirci su castelli di sabbia, come anche ignorare che nel mentre Cristicchi non è che fosse sparito, ma che stava portando avanti una serie abbastanza lunga e importante di spettacoli teatrali, spesso sold out è parte della distrazione di cui sopra.
Non saprei dire se avrei fatto arrivare tra i primi cinque Quando sarai piccola, al Festival, anche se sicuramente una volta arrivata in cinquina l’avrei piazzata sopra il brano di Fedez, quello sì paraculo e retorico. Non credo che Simone sia di destra, ma anche lo fosse, credo che giudicare le sue opere per una appartenenza politica sia un errore marchiano, perché le opere e chi le opere scrive e interpreta sono due cose distinte.
Non credo, e non lo credo davvero, che Cristicchi, come ha scritto qualcuno, rischi di fare la fine di Povia, ostracizzato per aver portato al Festival Luca era gay e poi divenuto in qualche modo un paria, penso anzi, che al momento se ne stia in un qualche terrazzo assolato a fare esercizi di una qualche disciplina orientale a torso nudo, conscio che almeno in testa non avrà freddo, vista la capigliatura folta che ha, sono però anche convinto che la storia della nostra canzone ci avrebbe dovuto insegnare che a mettere all’indice i cantanti per questo o quel motivo non si può che far danni, ma danni seri. A questo punto spero che Simone, da uomo di teatro quale è, faccia un bel reel nel quale sbaglia tutti gli accenti e parla come Rkomi, così per una volta sarà davvero una risata a seppellire tutti e tutto. In fondo anche il rapper di Calvairate a paraculescamente provato a portare una coppia di anziani sul palco, lasciando che poi nella serata della finale ci fosse solo la donna a ballare col cappotto di lui, evidentemente nella finzione passato a miglior vita, ma io tutti questi articoli a riguardo mica li ho letti.
Peter Cameron anni fa ha intitolato il suo libro, poi divenuto un best seller internazionale, Un giorno questo dolore di sarà utile. Era il 2007, i social erano da poco arrivati, altrimenti chissà se qualcuno gli avrebbe dato del paraculo, con quel suo tirare in ballo indebitamente il dolore. Ora vado a fare un video al filippino a torso nudo dall’altra parte della strada, non sia mai che qualcuno mi accusi di star qui a inventarmi le storie che racconto, o tempora o mores.