Rosanna Marani: «Odiavo le ingiustizie, ho iniziato così in Gazzetta. Rivera l’intervista più bella e sofferta»
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È stata la prima donna a lavorare per Gazzetta dello Sport
“È un privilegio essere ricordati”. Inizia così una chiacchierata durata circa 40 minuti, in cui il tempo si è fermato. Parlare con Rosanna Marani fa questo effetto: la sua voce e la sua risata dolce ti portano in un mondo diverso, in anni in cui le donne facevano ancora più fatica di oggi e in una dimensione giornalistica molto diversa da quella che conosciamo e siamo abituati ad osservare.
Marani, che l’anno scorso ha festeggiato 50 anni di carriera, ha fatto la storia del giornalismo, divenendo, dopo molte battaglie, superando stereotipi e pregiudizi la prima donna a essere assunta a “Gazzetta dello Sport” nel 1973. Lo ha fatto in una epoca in cui alle donne non era permesso scrivere di sport, una ingiustizia che non poteva rimanere tale.
Come nasce la sua predisposizione a dire No e a non arrendersi allo stesso tempo davanti a quei no?
Tra i ricordi che ho di mia madre, di quello che raccontava della mia infanzia, so che il no è stata la prima parola che ho pronunciato. Lei mi diceva: ‘Io ti chiedevo: Vuoi la pappa? E tu rispondevi no. Hai sete? No’. Era tutto un no, fino a quando sei cresciuta e hai cominciato a considerare e a conoscere la differenza tra sì e no’. Era una ribellione al mio essere, non lo so… qualcosa di connaturato. Per il resto, a me dà fastidio vedere le ingiustizie e l’indignazione in me si trasforma in azione. Mi ricordo da ragazza…a Roma, vedo un tizio che borseggia due signore americane, io sono in 500, non ci penso due minuti a correre dietro al ladro. Lui entra in un cunicolo di viuzze romane, lascio la macchina, entro in un bar e dico ‘c’è un ladro, c’è un ladro’ e mi fanno il gesto con la mano a destra, io vado a destra e mi ritrovo una serie infinita di scale con il ladro che mi fa ‘sei entrata nel posto giusto’. Naturalmente, mi sono spaventata e sono tornata indietro, due signore mi hanno raggiunto, mi hanno offerto un caffè, ero pallida, mi dissero. Il senso di giustizia mi ha motivato moltissimo: tutte le cose che non erano permesse alle donne, io le facevo.
Perché proprio la giornalista?
Credo di aver determinato il mio destino a 10 anni, quando la maestra, Vera Poggiali, mi ricordo ancora il nome, presentò una mia composizione che si chiamava “Perché” ad un concorso letterario per le scuole. Spiegò, in classe, che non si doveva ripetere sempre l’aggettivo, il sostantivo, ma bisognava cercare i sinonimi e prese ad esempio il mio tema. Se ben ricordo, parlava di un albero che diventava legno, quindi perché cresce, perché fa ombra…il perché era rafforzativo e mi diedero una medaglia e mi dissero di continuare a studiare l’italiano in modo da diventare l’orgoglio della mia famiglia. Queste cose mi sono rimaste dentro e presumo che allora decisi di fare la giornalista, perché poi ho cominciato a “Il Resto del Carlino” di Moroni. Prima ancora scrivevo al “Tempo”. Uno che mi aiutò fu Emidio Iattarelli, era capo cronista di non mi ricordo quale giornale e mi fece scrivere una lettera sui canili. Allora i cani venivano uccisi, da lì nasce il mio amore per gli animali. Mi pubblicò questa cosa e iniziai a imparare, avevo 19/20 anni. Poi, arrivai Resto del Carlino con Italo Cucci. Facevo la pagina di Imola (è nata lì nel 1946, ndr), c’era dentro cronaca, moda, sport, era una pagina intera. Per essere assunta mi attivavo scrivendo dei concorsi: parrucchiere della settimana, così mi mi prenotava 20 copie e o boutique del giorno, il ristorante del mese e ognuno di loro mi prenotava delle copie. Gualtiero Vecchietti era il mio caporedattore e Stefano Benni un collega di allora. Quando andai dal direttore, Girolamo Modesti, sicura che mi avrebbe fatto fare il praticantato, mi disse ‘lei è molto polivalente e il suo paese sarebbe l’America e le consiglio di andare in America, avrà successo’. Io lo guardai e dissi ‘per pudicizia non le dico in quale paese può andare lei’. Per un po’ non ne volli sapere, ho fatto la casalinga. In seguito, Toni Romano che era un amico di mio padre, che nel frattempo era morto, venne e disse ‘tu hai troppo talento’ – erano usciti parecchi pezzi su Il Resto del Carlino – non puoi buttare via il tuo talento dammi la possibilità di fare l’ultima prova andiamo a Milano’. Non volevo, insistette, mi portò lì e arrivammo da Gino Sansoni a Milano. Lui, mi guardò e disse ‘io non conosco nessuno a Grazia o nei i giornali un po’ femminili’. Io alzai la testa e gli dissi che era pazzo, che non volevo scrivere lì, volevo andare a Gazzetta dello Sport. Prima mi disse che ero matta, poi mi guardò e aggiunse: ‘lei è un genio, perché non c’ è nessuna donna’.
Perché lo sport?
Per il principio ‘tu mi dici di no e adesso vediamo se hai ragione tu o se ho ragione io’. È stata tutta una combinazione. Mia madre era tifosa, mia sorella ha sposato un calciatore dal quale ha poi divorziato. In casa nostra si respirava calcio. Avevo scommesso con mia madre che avrei scritto sulla rosea, quando glielo dissi la prima volta, quando qualcosa già si stava concretizzando, mi ricordo ancora la sua faccia, mi disse che ero matta e all’epoca Imola era famosa perché c’erano ancora i manicomi. Dopo qualche mese le ho detto ‘hai visto?!’. Tra l’altro, con la stessa caparbietà riuscì a ottenere quella celebre intervista a Rivera (condizione per avere una chance a Gazzetta e il calciatore non parlava da 6 mesi, ndr).
È stata quella l’intervista più bella e la più sofferta?
Sì sicuramente, è stata voluta, cercata, sudata e conquistata. Ho fatto fatica, non ci credevo neanch’io…le dico la verità, a un certo punto non ci credevo neanch’io. Poi, altre no, non ho intervistato Agnelli e mi ha fatto penare Craxi, lo intervistai per la terza pagina, ma fu un’avventura piacevole, non certo dura come con Rivera. All’epoca ero una precaria, andai ad Ancona dove loro giocavano una partita. Partii da Roma, sapevo poco di giornalismo, però sapevo che corrispondente non era come dire inviata. All’epoca di Rivera dissi che ero inviata della Gazzetta dello Sport, mentre con Craxi ero già dentro la Gazzetta.
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Rosanna Marani con Gianni Rivera
Ha incontrato tanta diffidenza e non è stato facile, c’è qualche episodio che l’ha ferita all’inizio?
Beh sì, di episodi ce n’è più di uno, per esempio in base a come mi vestivo, se avevo i pantaloni o la gonna avevo il ciclo mestruale: quello mi feriva profondamente, parliamo sempre di 51 anni fa. Quest’anno faccio 79 anni, sono entrata a 28, l’anno scorso ho compiuto i 50 anni di carriera. In casa c’era pudore, c’era paura da parte dei genitori di parlare del corpo dall’ombelico in giù e io ero abbastanza ingenua. In casa mia non si bestemmiava, non si dicevano le parolacce. Invece, in redazione, tutte le volte che passavo c’era sempre qualcuno che era triviale. Si può dire che mi dicevano che ‘faceva l’amore’, ma provi a pensare a tutti i sostitutivi, dicevano “Io ti….”, ha capito no? Sono andata a casa, mi sono messa davanti allo specchio e ho detto tutte quella parolacce, fino all’ultima, fino a non arrossire. Un giorno eravamo davanti alla macchina del caffè e c’era il solito imbecille che disse una roba brutta, sempre triviale, per cui io trivialmente lo affrontai e gli dissi ‘ehi, visto che stasera debbo….mi daresti le chiavi che hai detto che hai… uno scannatoio, hai un posto dove vai a… Perché vedi, stasera devo… ‘. Questo mi guardò e gli dissi: ‘no, no, no, non è con te, tu non saresti adatto’. Da quel giorno non volò una mosca quando arrivavo.
In tutti gli anni c’è stato qualcuno che le ha fatto da mentore o che le ha dato consigli?
Lodovico Maradei che amo tuttora, mi è stato vicino, mi ha protetto, quando era capo redattore mi sgridava ma mi ha insegnato ad essere una giornalista, ha sottolineato le mie qualità e ha cercato di modificare i miei difetti. Parlo della professione, ma anche del punto di vista umano. Quando dovevo fare l’intervista a Craxi, lo sfidai, positivamente. Gli dissi ‘adesso esco e ti vado a portare a casa l’intervista a Craxi’. Lui mi guardò spiazzato. Io nel frattempo mi appostavo sotto il suo ufficio, avevo corteggiato alla morte le sue due guardie del corpo, fino a quando un giorno mi dissero ‘ecco passi’. Mi appesi al braccio di Craxi, senza vergogna e gli chiesi un’intervista e lui mi disse di ritornare domani. Andai da Maradei e iniziammo a preparare le domande.
Il ricordo più bello di tutti gli anni a Gazzetta? La prima cosa che le viene in mente?
Il fatto di di avercela fatta, perché è stata una dura battaglia. Sono dovuta andare in tribunale. Poi c’era Garavaglia che mi voleva molto bene, anche lui mi difendeva molto ed era uno di quelli che preparava i titoli e tutto. Ne ho sopportate di ogni, a un certo punto mi hanno tolto il calcio e mi hanno messo al tennis, lì mi chiamavano Linda Terror, poi dopo ho fatto causa e l’ho vinta. È entrato Palumbo (divenne direttore, ndr) e mi ha rimesso al calcio, quindi non è stato semplice. L’avvocato Boneschi, difensore dei giornalisti, mi consigliò, visto che ce l’avevo fatta, di entrare in redazione in punta di piedi. Poi, Gabriella Parca, che era una femminista, scrisse su ‘Il Giorno’ in terza pagina un pezzo dicendo “Rosanna Marani ce l’ha fatta, ammessa in Gazzetta, una grande vittoria”. Entrai in redazione sventolando il giornale, gridando ‘Ehi, sono di nuovo qua, eh! Che si sappia!’. Ricordo che il direttore mi chiamò e mi disse ma ti vuoi stare un attimo calma?
Ha conosciuto anche Gianni Brera…
È stato un maestro, adoravo il suo modo di scrivere. Io amo l’italiano e ho scritto aforismi, poesie…ci gioco con le parole perché credo che sia l’unico patrimonio vero che ha una persona. Brera era autore di neologismi, lui mi prese a benvolere. È diventato famoso pure l’aneddoto della pipì a San Siro (non c’erano i bagni per le donne in tribuna stampa e lei disse ‘allora la faccio qui nell’angolo del bar’ fingendo di alzarmi la gonna fino a quando Brera e altri la fecero passare, ndr). Io pretendo, dopo la mia morte, una bella targa vicino al gabinetto della sala stampa di San Siro, a memoria. Lui ha scritto la prefazione del mio primo libro che parlava di calcio e ha scritto delle cose carinissime su di me. Mi ha dato il privilegio di essere l’unica donna ad andare il giovedì sera da Riccione, un ristorante romagnolo, a Milano, frequentato solo da uomini.
Recentemente è venuto a mancare pure Tommasi, l’ha conosciuto?
Sì, io ho cominciato la mia carriera…. ritorniamo a Roma e al pezzo sugli animali. Andavo in un ufficio: avevo conosciuto Gianni Minà e lì c’era anche Rino Tommasi e cominciavo con loro a scrivere i primi pezzi. È stato un grande, ma lo era da subito, non ha cambiato né carattere né nulla, aveva già un patrimonio genetico da grande professionista.
Poi, dopo 14 anni in Gazzetta passò alla tv, che ricorda di quegli anni?
Fare esperienze diverse è sempre stata la mia molla e spinta. Ricordo quasi tutto, ricordo i giocatori, ricordo le loro facce quando arrivavo nei camerini mi dicevano…’che cosa hai fatto? Cosa pensi di farmi fare oggi?’. Arrivavo con i sacchetti pieni di trucchi piuttosto che di giocattoli. Ho fatto parlare un calciatore dell’Atalanta di omosessualità e poi gli ho messo il rossetto e gli orecchini dopo che lui aveva detto, ‘ma no, noi siamo dei maschi, noi siamo degli uomini’. Ho cercato di far vedere tutti gli aspetti del calcio da un punto di vista ironico. Mi ricordo quella con Pagliuca, i calciatori della Roma vestiti da antichi romani, poi i re Magici, Babbo Natale Maradona, il primo Babbo Natale nero della storia, Gullit, o l’intervista a Maradona muto. Non parlava, per cui ho comprato il libro dei gesti e mi ha rilasciato l’intervista. Con lui c’è stato un buonissimo rapporto, mi ha regalato, per i miei 70 anni, la sua maglia. Mi è mancata la radio, la adoro ma si vede che nel mio DNA non c’è.
Perché secondo lei c’è ancora diffidenza nei confronti delle donne che vogliono lavorare in ambito sportivo e giornalistico?
Rispondo dicendo che la civiltà comporta le equiparazioni dei sessi, sotto il profilo dell’intelligenza, della creatività, dell’attitudine, del talento, cioè di quell’inclinazione che ti permette di voler scegliere il tuo destino, fatto anche di professione, quindi di scegliere la professione che non è in base soltanto a quello che desideri, ma anche alla conoscenza di te stesso o di una predisposizione, è un treno ma che va lentissimo che va di generazione in generazione. Non basta solo la mia generazione, penso che ci vorranno ancora due generazioni, forse. Probabilmente magari basterà una sola, perché comunque oggi c’è tanta gente, ci sono tanti ragazzi e donne che si affacciano sul mondo dello sport. C’è ancora diffidenza, la stessa che presumo che trovi un ingegnere, una ingegnere, una politica, una manager. Si dice ancora delle donne “tu hai le tue cose…”.
Che consigli darebbe a chi si avvicina alla carriera giornalistica uomo o donna che sia?
Non demordere mai. La primissima cosa è sapere chi sei nel bene e nel male. Combattere, perché tanto nessuno ti dà una mano, però devi sapere che nella tua vita un angelo custode lo incontrerai sempre, è quello che mi ha insegnato la vita. Conosci tante persone che ti danno un calcio nel sedere, però sei destinato anche a conoscere almeno uno che ti aiuta. Su questo non ci piove. La vita è fatta a cicli. Quando vai in depressione devi pensare che passerà, ma soprattutto devi sapere qualcosa del tuo talento, apprezzarlo, migliorarlo, essere assolutamente professionale e studiare, studiare, studiare.
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