Muoversi come Pedro Pascal sul mondo

Sono giorni strani, questi, l’ho già raccontato. Sarà la primavera che arriva e poi torna sui suoi passi, sarà che tra qualche settimana andrò a compiere cinquantasei anni, scollinando verso i sessanta, sarà, magari, che nella vita ci sono periodi più tosti di altri, per quella serie di circostanze che il cresce e anche invecchiare, se si invecchia, porta con sé. Nei fatti mi capita spesso di essere malinconico. Stanco e malinconico, che è un po’ un mix pericoloso, di quelli che a volte fanno gridare al burnout, o almeno, che a volte mi fanno pensare che sia al limite di un burnout ma che più in generale credo sia semplicemente un pesante mix di stanchezza, dovuta al lavoro, principalmente, e so che dire che uno che fa il critico musical e lo scrittore è stanco farà incazzare i minatori e operai alla pressa, lo so è in parte me ne dispiaccio, ma anche chi fa il mio lavoro si trova a volte a essere stanco, sappiatelo, perché lavorare si lavora, grazie a Dio, e la testa è sempre attiva, ventiquattro ore su ventiquattro, questo il problema di dover essere sempre performante al 100%, perché se sei free lance ovviamente tutte le tue interfacce pretendono per loro il tuo picco in alto, che diventa quindi una sorta di olimpica costante, e malinconia, gli amici e i nostri cari che ci lasciano, i figli che crescendo sono meno presenti o comunque hanno meno bisogno di noi, quella sensazione di aver già vissuto il più della vita, pur avendo ancora un sacco di cose da dire e da fare, sempre la faccenda dell’essere performativi, ma anche da dire e da fare al di fuori del campo del lavoro, sia chiaro, luoghi da vedere, persone da incontrare, roba così.

Per questo, per questo mix di stanchezza e malinconia, più malinconia che stanchezza, mi ritrovo spesso a cercare una musica che possa essere perfettamente aderente al mio stato d’animo, non tanto per cercare quella sublimazione che comunque l’arte, quando è buona arte, a volte permette, quanto piuttosto per avere almeno una cazzo di colonna sonora adeguata.

Per dire, adesso, l’adesso in cui sto scrivendo, o comunque un adesso che per voi che leggete deve coincidere con l’adesso in cui sto scrivendo, poco importa che sia realmente adesso adesso o che sia successo poco fa, magari mentre stavo pensando a come impostare questo pezzo, perché le mie so che suonano come improvvisazioni, roba vagamente ascrivibile al jazz, ma sempre da una struttura piuttosto precisa, almeno nel boschetto della mia fantasia, per dirla con l’Elio de Il vitello dai piedi di balsa, gran pezzo, per dire, quindi, adesso, l’adesso in cui sto scrivendo sto ascoltando i 10CC che interpretano in studio la loro hit I’M Not in Love. L’idea mi è venuta, non sono un fan dei 10CC, anzi, onestamente a parte questa canzone non conosco nient’altro del loro repertorio, e fino a averla conosciuta per il motivo che andrò a brevissimo a spiegare, non avevo idea di chi diamine fossero i 10CC, leggo su Wikipedia che sono una band di Manchester attiva negli anni Settanta divenuta famosa per un uso anticonvenzionale degli strumenti, specie delle chitarre, vai poi a capire cosa caspita significhi tutto ciò, l’idea mi è quindi venuta perché I’M Not in Love è parte importante della colonna sonora del film I Guardiani della Galassia, diretto da James Gunn e tratto dal fumetto della Marvel, anno del Signore 2014. Anzi, è parte importante della trama del film, non solo della colonna sonora, perché il film inizia proprio con il giovanissimo Peter Quill, ancora poco più che un bambino, che ascolta questa canzone con uno walkman, tanto per far capire di che epoca stiamo parlando, quando arriva suo padre che gli spegne la musica e gli dice che sua madre gli deve parlare, sua madre che sta morendo, morirà di lì a pochi minuti, e che lo vuole salutare su un letto d’ospedale, walkman che poi tornerà nella scena successiva, mentre il giovanissimo Peter è ormai un uomo, un guardiano della Galassia, appunto, che ammazza mostri alieni in giro per lo spazio, stavolta al suono di un brano funky, sempre lì nelle cuffiette del suo walkman, la canzone in questione, vado a memoria, tornerà più avanti, drammaticamente, come usa nei film americani. Questa canzone, decisamente bella, l’ho anche sentita dal vivo un paio di anni fa, vado sempre a memoria, quando sono andato al Magnolia, che è un circolo che si trova all’Idroscalo dove d’estate si tengono bei concerti all’aperto, e credo anche il MiAmi, mi ha sempre fatto cagare il cast del MiAmi, non ci sono mai andato anche se anni, dopo una mia ennesima stroncatura, del tutto teorica, stroncavo l’idea che c’era dietro a questo festival ideato di tipi di Rockit, non è necessario andare sul posto per stroncare un’idea, sul paco del MiAmi si è presentato un collettivo artistico di Bologna, il Collettivo HMCF, i cui membri indossavano una maschera di cartoncino con su stampata la mia faccia, la classica foto con gli occhialoni rosa e i codini che circola spesso, e che quest’anno è finita durante il Festival di Sanremo sulla fiancata di una Byd del magazine per cui lavoravo, io usato come testimonial del loro sponsor, e poi sul palco dell’Ariston, quando Kekko e i ragazzi dei Modà hanno deciso di ricordare il mio aver interpretato l’angelo nel video di vent’anni fa di Angelo di Francesco Renga, andando a indossare una spilla sempre con quella fotografia durante la serata delle cover, serata nella quale, ovviamente, interpretavano quella canzone col suo titolare, Renga stesso (lui curiosamente senza spilla con la mia faccia). Il collettivo in questione, HMCF lì a leggere i miei articoli, allora li chiamavo ancora così, e non pezzi, come ormai da anni, nei quali stroncavo proprio il MiAmi, a creare una sorta di cortocircuito intellettuale. Questa canzone, dicevo, I’M Not in Love, l’ho sentita un paio di estati fa al Magnolia, eseguita da quei mostri dei Mr Bungle, leggo solo ora nel mio archivio che in realtà era solo l’estate scorsa, il 17 giugno, vedo decisamente troppi concerti io in questa vita. Una versione gigantesca, perché Mike Patton e soci sono dei giganti, capaci di passare di genere in genere, accelerando e rallentando, giocando di katana come di fioretto, Patton a impreziosire il tutto con la sua voce unica.

Ecco, I’M Not in Love, per quella scena de I guardiani della Galassia, parte della mia malinconia è proprio dovuta a alcuni addii che in queste ultime settimane mi sono ritrovato a dare a amiche che non sapevo affatto ci avrebbero lasciato, è un ottimo punto di partenza per un pezzo come questo, che vuole provare a esorcizzare dolori miei personali, buttando sul piatto aneddoti, certo, indicando brani da andare a scoprire o riscoprire, anche, e più in generale allestendo in sostanza una playlist ipotetica per giorni luttuosi, seguendo un filo logico, un gusto musicale affinato negli anni, tenendo lontano la musica italiana, per motivi che non sto qui a spiegarvi.

Dovessi star qui io a dirvi che questa scena è una di quelle che più mi emozionano e commuovono, proprio giorni fa mia figlia grande lamentava il fatto che io fossi poco incline a farmi vedere piangente, come tutti gli uomini, ha aggiunto, femminista, sfidandomi a dire una scena di un film che mi avesse commosso fino alle lacrime, scena che però non era appunto questa, ma un’altra sempre appartenente al mondo Disney, Marvel e Pixar sono parte di quell’universo lì, Inside Out. Nello specifico la scena nella quale Bing Bong, quella specie di buffo elefante o quel che è che rappresenta la magia della spensieratezza dell’infanzia, decide di sacrificarsi lanciandosi nel vuoto per permettere a Gioia di poter salire in alto, così da poter poi salvare Riley, sancendo però in qualche modo il suo addio all’infanzia, l’ingresso nell’adolescenza e di lì nell’età adulta. Una scena che trovo straziante, il povero Bing Bong che canticchia con Gioia quella filastrocca giocosa, salvo poi sparire in una sorta di dimenticatoio, con lui l’innocenza di Riley, verrebbe da chiosare.

Dovessi stabilire io l’età in cui il mio Bing Bong si è sacrificato per me, sempre che anche lui l’abbia mai fatto, o più nello specifico il momento in cui ho perso l’innocenza, fatto che nel mio immaginario è avvenuto quando non ero più un bambino da tempo, dovrei indicare un arco di tempo piuttosto lungo, diciamo tra il 1994 e il 1998. Anni nei quali non solo ho conosciuto in modo piuttosto diretto e impietoso il senso del lutto, ma ho anche vissuto alcune delle esperienze umane che mi hanno poi spinto a diventare uno scrittore, sempre che non lo sia in qualche modo sempre stato, mica per niente quei quattro, cinque anni racchiudono il momento preciso in cui ho cominciato a scrivere, intendo scrivere pensando di farlo non nell’alveo della scuola o l’università, fino a arrivare alla pubblicazione del mio primo libro e anche dei miei primi articoli, allora, appunto, li chiamavo ancora così, nel mentre lasciavo la chitarra e la musica suonata e cantata da parte.

Ci ho provato, quindi, ho provato cioè a scegliere una canzone per ognuno di quegli anni. Considerando che erano, non scambiatemi per un boomer, non lo sono anagraficamente e non lo sono sotto nessun punto di vista, considerando che erano anni particolarmente vividi, tanti, tantissimi gli album fondamentali usciti, l’operazione è stata abbastanza complessa, quindi, siccome è stata mia l’idea di una canzone per anno, non ve ne avrete a risentire se in alcuni casi non ho rispettato le regole che io stesso mi ero imposto e di canzoni ne ho scelta più di una.

Quindi il 1994, anno nel quale sono morti, nel giro di poche settimane, Charles Bukovski e Kurt Cobain, quando si dice vedere la propria galassia andare a pezzi. Anno nel quale ho appeso la chitarra al chiodo, diciamo così, e ho iniziato a scrivere pensando, prima o poi, di pubblicare. La canzone che scelgo è Sud and soda dei dEus, brano storto, sporco, devastante con quel “friday” gridato per tutto il corso della canzone e quell’incedere nervoso. E dire che avrei potuto davvero pescare tanto altro, dal pop erotico di Human nature di Madonna, all’altrettanto sghemba e geniale Loser di Beck, passando per quel gioiello oscuro di Black Hole Sun dei Soundgarden, o la struggentissima e disperante Hurt dei Nine Inch Nails, Hallelujah di Leonard Cohen rifatta Jeff Buckley non la prendo in considerazione proprio perché troppe volte è finita cantata in funerali o celebrazioni a ricordo di qualcuno da sfociare quasi nello scontato e il banale. “Friday, friday. friday. friday. friday. Friday. friday. Friday”.

Passiamo al 1995, altro anno bello denso di pubblicazioni, parlo di album, io ai tempi ho finito il servizio civile, passato in buona parte in un dormitorio per senza fissa dimora, prima di passare in un ufficio della Caritas, dopo un’aggressione subita da un senza fissa dimora, ufficio nel quale, per passare il tempo, ho cominciato a scrivere, la presa di coscienza che l’università che avevo lasciato parzialmente da parte a soli due esami dalla fine, non era più esattamente il posto che avrei voluto frequentare. Del 1995 scelgo un brano rap, all’università stavo appunto terminando una tesi che metteva in relazione il movimento afroamericano figlio di Malcolm X con le istanze dell’hip-hop, scelta un filo forzata visto che mi stavo laureando in Storia Moderna. La scelta è 5 on it dei Luniz, canzone dal forte tasso alcolico, decisamente di strada per come potesse ancora essere di strada un genere che nel mentre aveva scalato le classifiche. A vedersela con 5 on it, nella mia testa, altre canzoni sempre di quel 1995, da I Oughta Know di Alanis Morrissette a Hell is around the corner di Tricky, passando per quel gioiello di isteria che è Just dei Radiohead, il cui video è a mio immodesto parere, un’opera d’arte pari alla canzone che deve accompagnare, la storia del tizio che si stende in strada, in una città inglese, non volendo più alzarsi né spiegare ai viandanti il perché di questa sua scelta, neanche quando arriva un poliziotto, col finale, visto dalla prospettiva dall’alto, la band sta infatti suonando in una stanza di un palazzo affacciata sulla strada, quando la gente che ha creato un capannello intorno a lui lo convince a dire perché sta steso a terra, tutto è accompagnato da sottotitoli che spiegano i dialoghi mentre va in onda la canzone, salvo la spiegazione, nel finale tutti coloro che stavano intorno all’uomo steso sul marciapiede a loro volta stesi a fianco a lui, quando si dice saper inquietare qualcuno.

Carino questo giochetto, vero? Però mi è venuto a noia. Quindi sappiate che le rimanenti tre canzoni sono Spaceman di Babylon Zoo, per il 1996, Drinkin in LA dei Bran Van 3000, per il 1997 e Push it dei Garbage, per il 1998. Quest’ultima, per altro, veramente colonna sonora di uno dei periodi più devastanti della mia vita, periodo nel quale giravo avvolto in un mantello di dolore, letteralmente.

Di canzoni buone, a prescindere dagli anni, ce ne sarebbero troppe. E se non intere canzoni, alcuni dettagli, il mio approccio alla materia è pur sempre teorico e intellettuale, non aspettatevi necessariamente canzoni intere, sempre che vi aspettiate qualcosa e non stiate semplicemente seguendo il mio peregrinare sulle pagina come chi subisce un torto, o con il sorriso di circostanza di chi pensa di avere di fronte un pazzo furioso.

A proposito di pazzi furiosi, per dire, Black No 1 dei Type O Negative, fondamentale band black metal capitanata dal gigantesco, era alto più di due metri, Peter Steele, mai abbastanza compianto, è un brano che vorrei venisse suonato al mio funerale, funerale, ne ho già scritto e vorrei evitare di tornarci, che dovrebbe sancire l’ultima volta nelle quali ci sia un luogo nel quale stare pensando al me che non ci sarà più, il mio cuore va seppellito sul Monte Conero, come nel titolo di un mio antico libro, il resto sparso in ceneri dove vorrà chi resterà. Una canzone devastante, cupa, profonda, come il titolo lascia in effetti pensare.

Tornando invece ai film e alle canzoni che a volte li attraversano, come non commuoversi per la scena di Almost Famous nella quale i protagonisti tutti insieme nel pullman che trasporta la band in giro per gli States, groupie comprese si mettono a cantare in coro Tiny Dancer di Elton John dopo l’ennesima crisi rientrata, si fa per dire. Il momento esatto in William, il giovane critico musicale che in realtà sarebbe una proiezione neanche troppo nascosta di Cameron Crowe, regista del film con un passato da firma per Rolling Stone, dice a Penny Lane, la groupie interpretata da una strepitosa Kate Hudson, che deve tornare a casa, nel preciso momento in cui parte il ritornello e lei, facendo un gesto con le mani come a voler fare una magia gli dice, guardandolo negli occhi “sei a casa”, è per me continua fonte di commozione, sarà che nella vita ho deciso di fare esattamente il medesimo lavoro, mettendo la mia penna al servizio della musica. Tiny Dancer, del resto, farebbe piangere di commozione anche senza bisogno di un film di supporto.

Ci sono poi dei brani che hanno trovato indubbiamente trovato supporto nei videoclip che li hanno lanciato, seppur i video sia suppongo roba del passato, oggi funzionano meglio i reel di pochi secondi, a uso di Tik Tok, Dio ce ne scampi.

Per dire, cosa sarebbe stata la nostra vita se a un certo punto non vi avessero fatta irruzione Annie Lennox vestita da angelo, una cascata di capelli biondi, la voce che ben conosciamo, al cospetto di un Dave Stewart nei panni di un annoiato Luigi XIV, o qualcosa del genere, There Must be an Angel (Playing With My Heart) a scombinarci le idee dopo le tante fantasie fatte sulla stessa Annie, parlo per me, i capelli corti e rossi, un look androgino che più androgino non si può a parlarci di dolci sogni in Sweet Dreams (Are Made of This), giusto un paio d’anni a dividere i due singoli? O che ne sarebbe stato dei nostri primi anni zero se non ci fosse stato Justin Timberlake, quello che prima gigioneggiava in quella boy band dal nome troppo difficile da memorizzare per chi delle boy band se ne sbatteva da ragazzino, figuriamoci da adulto, lì a cantare Cry Me a River, accompagnato dal compare Timbaland, con un video che oggi gli costerebbe indubbiamente accuse di stalking o di molestie, i chiari riferimenti alla sua ex, entrambi stelline della Disney, Britney Spears ben presenti in tutte le scene, lui a entrarle in casa di nascosto e a spiarla mentre fa la doccia? Britney Spears, del resto, non ha fatto da meno sculettando in miniabiti da hostess in Toxic, gran canzone della quale ricordo una strepitosa cover della mia amica Cristina Donà, oggi la seguo persa nei suoi balletti seminudi sui social e mi interrogo su quanto lo show business possa essere tossico anche per chi lo ha attraversato con enorme successo. E visto che ho citato Timbaland, uno che per qualche tempo si è conteso il primato di produttore più alla moda con Pharrell Williams e in parte con Kanye West, sappiamo tutti come è andata a finire, credo di essere il solo al mondo a aver apprezzato il lavoro fatto dal nostro con Chris Cornell, compianto cantante dei Soundgarden, parola di chi per anni è stato scambiato con Kim Thayl, il chitarrista della band, per ben due volte ho dovuto fingere di essere lui, entrambe le volte a Bologna, entrambe le volte il giorno dopo un loro concerto, roba che oggi mi capita quotidianamente col vecchietto che abita dall’altra parte della piazza sotto casa mia, convinto che io sia Stefano Bollani, convinzione che mi sono guardato bene dal far rientrare, assecondandolo ormai da troppo tempo per poter tornare sui miei passi, la Scream che i due, Cornell e Timbaland, hanno fatto assieme continua a piacermi anche oggi che Cornell non c’è più, sorte che lo accomuna a buona parte degli alfieri del grunge, e che di anni dall’uscita ne sono passati sedici. Io di Timbaland, però, ricordo sempre con piacere, si parlava di videoclip, quello di Morning After Dark, brano che lo vedeva gigioneggiare con Nelly Furtado e Soshy, una sorta di versione cyber di una storia di vampiri in giro per una città ovviamente notturna, le facce buffe del produttore, a cantare con la voce distorta da un autotune ante-guerra a fare da calamita per la mia attenzione. Nelly Furtado, avendola citata non mi è possibile tacere quel che sto per dire, che musicalmente mi ha sempre detto poco, ma quando sgrana gli occhi fingendosi svampita verso il finale della cover di What’s Going On, una roba fatta da star di varia natura, da Bono a Gwen Stefani, da Nelly, non furtado ma il rapper, a Ja Rule, l’anno era addirittura il 2001, la finalità quella di raccogliere fondi e sensibilizzare per la lotta all’AIDS, ecco, quando Nelly Furtado sgrana gli occhi, il concept del video è che tutti gli artisti cantino con una band con varie scritte sugli occhi, bende delle quali si liberano nel corso del video fino a mostrare gli occhi nel finale, ecco, quando Nelly Furtado sgrana quegli occhi chiari verso il finale del video, credo, chiunque se ne sarebbe innamorato, pure più che di fronte a una Shakira che balla la danza del ventre coperta di bitume in La Tortura, e credo che lo standard sia davvero alto. A proposito di balletti, e a breve capirete il perché della china di questo mio scritto, partito da stanchezza e malinconia, e scivolato ora su una china decisamente più leggera e frivola, la musica è non solo sublimazione del male e del dolore, ma anche un fortissimo strumento di distrazione, parlo per me ma non solo per me, a proposito di balletti, tutti immagino avrete visto quelli di Benson Boone sulle note di Beautiful Things, cantare e ballare a quel modo, converrete, non è roba che tutti possono permettersi, specie con quella tutina imbarazzante addosso. Un balletto che, seppur diversissimo, mi è venuto in mente l’altro giorno, guardando in tv quello che io trovo sia lo strepitoso spot dell’AirPods4, con Pedro Pascal che si muove a tempo come non avesse fatto altro per tutta la vita.

Comunque, giusto per chiudere il capitolo Timbaland, che avevo lasciato lì, sospeso a camminare sulla parete di un palazzo, come nel video di quella Morning After Dark che avevo citato, nello stesso periodo, siamo sempre nel 2009, come per Scream di Cornell, è uscito un altro singolone, If We Ever Mette Again, stavolta con Katy Perry. Tutte canzoni contenute nel multiplatino album Shock Value II, con un fottio di altri ospiti, dall’ovvio Timberlake agli One Republic, passando per Miley Cyrus, i Jet, Brandy, quel Chad Kroeger che coi suoi Nickelback, quelli di How You Remind Me hanno fatto il botto, salvo poi divenire, per ragioni che mi sfuggono, “la band più odiata al mondo”, vari e eventuali. Detto che il brano con Nelly Furtado e Soshy è migliore, musicalmente e come video, seppur il ritornello del brano con Katy sia un uncino che ti entra sottopelle, volevo soffermarmi sulla cantautrice americana. Per anni, infatti, diciamo sin dal suo esordio provocatorio con I Kissed a Girl, parliamo del 2008 e di vero esordio non si tratta, visto che nel 2001 c’era già stato un primo album, lei appena diciassettenne, è stata sulla cresta dell’onda. Una hit via l’altra, lei a giocare con il suo essere sostanzialmente una pin-up con una gran voce profonda e dalla pasta calda, le copertine dei suoi album, su tutti cito Teenage Dream, con lei pannosa e ignuda stesa su un letto di nuvole, una nuvola bastarda a coprirle le chiappe, o quella di 143, con lei che si libera in una tempesta di luce, avvolta in un telo trasparente, le gambe, i capezzoli coperti da schiuma non si è capita come arrivata fin lì, o ancora quella di One fo the Boys, con lei a prendere il sole su un lettino, shorts e top di ordinanza, come fosse una versione rivista e corretta di Daisy, la cugina di Bo e Luke di Hazard, un largo cappello a proteggerle il viso dal sole. Una pin-up con una gran voce e un ottimo talento nello scrivere hit, o nell’andare a scovarle, che però col tempo sembra aver perso il tuo tocco magico, o magari sembra che il suo modo standard di fare pop sia passato di moda, perché

Il suo ultimo lavoro, Witness, nella cui copertina appare con un occhio in bocca, per intendersi, è stato un vero e proprio flop, stroncato dalla critica e dal pubblico, lì a rinfacciarle la collaborazione con quel Dr Luke reo, agli occhi dell’opinione pubblica ma ahinoi non della giustizia americana, di aver abusato sessualmente di Kesha, a sua volta popstar con la hit Tik Tok, titolo che nulla ha a che vedere con il social cinese che sta devastando la generazione dei più piccoli, il brano è del 2010, il social del 2016, più tardi la sua esplosione. Una vera e propria shitstorm, quella piovuta contro Katy Perry, ancor prima che uscisse l’album, il singolo di lancio, Woman’s World, nel quale la nostra appariva come Wonder Woman, a suo dire ironico brano di empowerment femminista, è parso davvero fuori luogo, visto la presenza del produttore in questione. Il fatto che nel mentre, finalmente, Kesha sia tornata “libera”, il recentissimo lancio del tour insieme alle Scissor Sisters dall’iconico titolo Tits Out Tour vince tutto, converrete, a pesare come un macigno in questa narrazione. Katy Perry, che nel mentre è comunque diventata anche una star della tv, e comunque ha qualcosa come sessanta milioni di ascoltatori mensili medi su Spotify, con parecchi brani sopra il miliardo di stream, e in carriera ha venduto appena duecento milioni di dischi, è stata almeno un paio di volte al centro di un’attenzione particolare, diciamo complottara. In parte lo è tuttora. Da una parte c’è chi sostiene, alcuni passaggi dei testi delle sue canzoni e alcune citazioni contenute nei suoi videoclip come indizi, che in realtà Katy Perry altro non sia che JonBenét Ramsey, reginetta di concorsi di bellezza uccisa barbaramente nel 1996, a soli sei anni. Cosa curiosa, dal momento che Katy è in realtà del 1984, e quando la bambina in questione è stata uccisa aveva già dodici anni. Mi viene in mente, poi giuro che smetto, l’attrice Imogean Faith Reid, che interpreta l’agghiacciante bambina ucraina Natalie nella serie Good American Family, prima prova fuori da Grey’s Anatomy di Ellen Pompeo. Una attrice di ventisette anni che nella finzione interpreta una bambina piuttosto inquietante di soli sette anni affetta da nanismo (questa è una storia vera, portata sul piccolo schermo di recente, ma sono ancora alle prime due puntate, non saprei dire se è bellissima o solo agghiacciante). Katy si è comunque più volte dovuta smarcare da questa voce, cosa per dire che ai tempi non ha fatto Paul McCartney, quando dopo il 1966 è cominciata a circolare la notizia della sua morte in un incidente (la copertina di Abby Road come riprova del tutto). Altra voce che gira ormai da undici anni sull’interprete di Roar, uscito proprio in quel periodo, è che sia in realtà il capo della setta potentissima degli Illuminati, a tal proposito vi invito a leggere la bellissima trilogia narrativa che a riguardo ha scritto Robert Anton Wilson, su cui girava invece voce fosse in realtà il fratello di Hakim Bey, inventore e ideologo delle TAZ, le Zone Temporaneamente Autonome. A indurre la gente a credere ciò in parte è stata lei stessa, che ha dichiarato proprio in concomitanza con l’uscita del suo album Prism, salvo poi tornarci su all’uscita del recente 143, quello con lei che si libra come una dea su un fascio di luce in copertina, che le sarebbe assai piaciuta entrare negli Illuminati e che le sarebbe essere stata al centro di un culto di adorazione. Lei che si libra come una dea, quindi, e in precedenza lei che ha un occhio in bocca, e l’occhio è da sempre un simbolo esoterico, non a caso c’è tutta una letteratura su come la presenza di un occhio dentro a un triangolo sulla banconota da un dollaro ci dica qualcosa. Roba affascinante, cui mi piace molto credere, roba affascinante che comunque non ha salvato Katy dal flop del suo ultimo lavoro, e a tal proposito il recentissimo volo suborbitale a bordo dello shuttle New Shepard, di proprietà di Jeff Bezos, per quello che è stato venduto come il primo volo spaziale completamente al femminile, ma è stato letto come l’ennesimo atto di flexamento da parte di ultramiliardari, per altro volo di soli dieci minuti e spicci, non è stata che l’ultima ciliegina su una torta già piena di ciliegine, della serie non azzeccarne una.

Succede.

Ora, se io vi chiedessi in questo preciso momento, oltre quattromila parole dopo che ho iniziato a scrivere questo pezzo, da dove ero partito, sono abbastanza sicuro che non ve lo ricordereste, non di primo acchito, intendo. Poi magari sì, la faccenda del dolore, della stanchezza e la malinconia, della musica lì a sublimare il tutto. Questo perché, parlando di musica, e cambiando la musica di cui ho parlato, come mood, la malinconia e la stanchezza è sparita, lasciando spazio a tutta una serie di altre situazione, in una gamma di sfumature che reputo abbastanza interessante. Con questo non voglio certo dire che non sono più lì, in quel cono di cupezza a metà strada tra malinconia e stanchezza, ma almeno per un po’ mi sono distratto, e spero voi con me.

Chiudo quindi con un pizzico di inquietudine, di disagio, citando un gran video, lì a accompagnare una grande canzone. Parlo di I’M Afraid fo American di Bowie, brano contenuto nell’album Earthing, del 1997. Un album che giocava su sonorità inconsuete per Bowie, sempre che ci siano sonorità consuete per quel genio, molto elettronico, a tratti quasi alla Prodigy (penso al singolo di lancio Little Wonder). Nella video che accompagna la canzone I’M Afraid of American, titolo mai tanto attuale come oggi, prodotto da Bowie con Brian Eno, e non credo serva specificare quanto la coppia in questione abbia ben fatto nei decenni precedenti, Bowie è inseguito per le strade suppongo di New York da Trent Reznor, cantante dei Nine Inch Nails. Trent Reznor è stato il primo artista che io abbia mai intervistato in vita mia, era il 1999, avevo già compiuto trent’anni. Fino a quel momento ero stato uno scrittore. Uno scrittore che aveva avuto varie esperienze nel mondo della musica, certo, un passato da chitarrista in una band hardcore, qualche serata da DJ, anni di studi classici, dal violoncello al pianoforte. Aver pubblicato libri, nel 1999 ero già arrivato a tre, due romanzi e l’esordio con una raccolta di racconti, soprattutto aver pubblicato un romanzo con la Mondadori, “aironfric”, aveva fatto sì che mi proponessero di scrivere articoli per Panorama, che del gruppo di Segrate era uno dei magazine di punta. Nel giro di pochi giorni ho intervistato Beck, poi Trent Reznor, in Italia per lanciare The Fragile e tenere un concerto all’Alcatraz, e Chuck Palahniuk, di cui avevo da poco tradotto Survivor. A Trent parlai di Chuck, e viceversa, le due interviste uscirono in un solo pezzo, una roba tipo “ecco due cattivi maestri”, e mi picco di dire che la loro futura amicizia, di cui parleranno in seguito, abbia avuto me come Cupido. Due pazzi furiosi, Trent e Chuck, e essere inseguiti in strada da lui, povero Bowie, farebbe paura a chiunque, figuriamoci a un damerino come il cantautore inglese. Questo pezzo finisce così, il mio dolore con la faccia dell’autore di Hurt che mi corre dietro, io che provo a scappare grazie alla musica, la musica, in pratica i miei panini caldi sul finale di Una cosa piccola ma buona di Raymond Carver, anche la faccia di Lyle Lovett, scelto da Robert Altman per interpretare il pasticcere frustrato a ripetere al telefono “vi siete dimenticati di Scotty” ai genitori in lutto in America Oggi, in effetti, è inquientante come Trent, il medesimo naso affilato.

Io corro più veloce del dolore, almeno per oggi, voi pensatemi mentre lo faccio eseguendo gli stessi passi di danza di Pedro Pascal in quello spot, però, perché per scappare al dolore è necessaria una certa leggiadria.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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