
È l’occasione che fa l’uomo ladro, si diceva un tempo. Era per dire che certi comportamenti sono comunque figli di un allineamento di astri, o del crearsi di una determinata situazione. Il detto voleva quasi spostare sull’occasione le responsabilità del ladro, così, a occhio, ma credo che sia applicabile anche a contesti nei quali non si scivoli nell’illegalità.
Un evento di vita quotidiana, per dire, ha appena fatto sì che dopo circa sette anni di frequentazione di un supermercato a due passi da casa mia, in famiglia siamo in sei, a tratti sette, ho una frequentazione quotidiana di detto supermercato, pur facendo io lo spesone della settimana altrove, dove posso caricare il tutto in auto, ecco, un evento di vita quotidiana ha appena fatto sì che dopo circa sette anni di frequentazione quotidiana di un supermercato a due passi da casa mia la cassiera che più spesso trovo alla cassa, piccoletta, sempre incazzata, i capelli blu a dare al tutto un tocco di situazionismo estremo, mi abbia sorriso. Un sorriso che le è quasi sfuggito, controvoglia, quindi spontaneo e irrefrenabile. Un sorriso dovuto al monologo di un signore anziano alla casa tre persone prima di me. Il signore in questione, avrà avuto tra i settanta e gli ottanta anni, un cappotto grigio e una sciarpa a bande colorate come quella del Doctor Who interpretato da Tom Baker tra il 1974 e il 1981, ha iniziato un monologo a voce alta, il signore altrettanto anziano a seguirlo in fila come unico spettatore di riferimento. Ignoro il motivo scatenante del monologo, immagino qualcosa che riguardasse il suo non andarsene in giro col carrello della spesa, come molti anziani, ma il fulcro del suo discorso era suppergiù questo: le nuove generazioni sono delle merde. Essendo un signore anziano, a breve ci arrivo, lui avrebbe forse detto “dei pappamolla”, e forse l’ha detto davvero, prima che il suo cianciare attirasse la mia attenzione. So solo che a un certo punto ha cominciato a dire che “i giovani”, così, in generale, non hanno più forze. Giorni fa ha chiesto a sua nipote di sollevare un peso di neanche dieci chili e lei ha detto di non farcela, ha aggiunto a mo di esempio. Poi è arrivato il primo momento esaltante del suo discorso, questo: “E dire che una volta portavano i cannoni su fino all’Adamello, certo, coi muli”. La mia attenzione era tutta per lui. Io ci sono stato in cima all’Adamello, da ragazzo, una cosa agghiacciante, anche per il mio sapere di quanti miei coetanei, coetanei di allora, nel senso ragazzi giovani, ma appartenenti a altre generazioni, erano lì sotto, seppelliti tra i ghiacci chissà da quanto tempo. O meglio, non chissà da quanto tempo, ma dalla prima guerra mondiale, quando cioè l’Adamello è stato campo di battaglia con gli austriaci, in quella che è stata giustamente chiamata la “guerra bianca”, visto il ghiaccio che ammanta tutto da quelle parti. Un settantenne che fa riferimenti alla prima guerra mondiale, in qualche modo circoscrivendo quella che è stata la generazione dei miei nonni, entrambi nati sul volgere dell’Ottocento, e entrambi impegnati appunto in quel conflitto, in una sorta di insieme che includa anche lui, nato in realtà a seconda guerra mondiale finita da tempo. Il tipo, però, capito che il suo secondo, quello cioè che era dietro di lui in coda alla cassa, era un buon ascoltatore, di quelli che fanno cenni con la testa senza dire nulla, ha proseguito, affondando la baglionetta, immagino avrà pensato. “Non hanno forze, certo, ma poi li vedi al bar a bere tutto il tempo. Venga al Politecnico,” ha aggiunto, “li trova tutti lì a bere Gin Fizz”. Sono in estasi, come la Madonna quando le è apparso Carmelo Bene, suppongo. Prima il riferimento all’Adamello, ora quello al Gin Fizz. Vi sfido, è una sfida reale, di quelle che prevedono che qualcuno volendo mi risponda, a dirmi di aver mai sentito in un bar, in un pub, in un qualsiasi locale ordinare un Gin Fizz. Parlo di avvenimenti che non risalgano al secolo scorso, per intendersi. Di più, sfido molti di quanti nel secolo scorso sono nati, magari come me alla fine degli anni Sessanta, a sapere con certezza che il Gin Fizz fosse un cocktail, un cocktail leggo su Wikipedia a base di gin e soda, con un goccio di limone e sciroppo di zucchero, in pratica un Gin Tonic prima del Gin Tonic, e con l’aggiunta dello zucchero, vi sfido, perché sono certo, ma certo al 100% che per voi Gin Fizz era una rivista di quelle dove si vedevano donne nude in tempi nei quali le donne nude non si vedevano in televisione o dentro il cellulare. Non esattamente una rivista porno, come Le Ore, ma dove poter vedere o intravedere tette e culi di quelle starlette televisive e attrici di film che un tempo si sarebbe detti spinti, come Edvige Fenech, Nadia Cassini, Ornella Muti e via discorrendo. Al punto che, giuro, sentendolo nominare il Gin Fizz, ho pure pensato a un lapsus, lapsus che apriva a tutta una serie di congetture su come questo modello di boomerismo, lì a blastare i giovani per la loro mancanza di forze, si fosse fatto le braccia masturbandosi con detta rivistina, l’aver appreso da Wikipedia che il Gin Fizz è in effetti anche un cocktail a far naufragare questo mio andar per la tangente.
Rientrata la delusione per il mancato gancio alla mascella, resta che il tipo in questione, a suo lasciar intendere un professore del Politecnico, perché ovviamente ha aggiunto, “la voce per chiedere il Gin Fizz al bar ce l’hanno, poi alla prima domanda all’esame diventano muti”, ha prima buttato lì la questione dell’Adamello, poco ci mancava che dicesse di essere stato compagno di plotone con Rigoni Stern, per poi passare a un riferimento altrettanto antico come il Gin Fizz, il cocktail, l’essere un boomer con un qualche ipotetico potere in mano, il decidere della sorte degli allievi che ipoteticamente si presentano di fronte a lui all’esame a rendere il tutto orrorifico, più che divertente.
Questa cosa del dire “ai miei tempi” è uno spauracchio col quale faccio spesso i conti, tra me e me. Non perché io pensi di poter citare i tempi in cui la mia generazione faceva la lotta partigiana sugli Appennini, ma perché parlando spesso di musica contemporanea, non esattamente quanto di più esaltante ci abbia passato il convento da che il convento frequento, mi trovo giocoforza a fare paragoni inutili e spesso avvilenti con un passato che mi risulta giorno dopo giorno sempre più inarrivabile. Non per una questione legata alla nostalgia, attenzione, né al fatto che in fondo la musica che ascoltiamo in gioventù, quando per la prima volta siamo noi a scegliere cosa mettere sul piatto (oggi si dirà nella playlist, immagino) è quella che ci rimane più attaccata addosso, per quella faccenda dell’imprinting, quanto piuttosto perché, è un dato oggettivo, l’aver affidato a un algoritmo il compito di selezionare cosa funziona e cosa no, e di conseguenza aver lasciato che fosse quel medesimo algoritmo a decidere da che parte indirizzare tutte o quasi le nuove produzioni, ha impoverito praticamente il panorama tutto che ci troviamo davanti agli occhi, la santa distrazione del poter avere tutta la musica del mondo sottomano a fare il suo sporco lavoro in quella direzione. Certo, ci sono dovute e doverose eccezioni, e ci mancherebbe pure altro, e la contemporaneità, intesa come globalizzazione, da una parte, e capacità e possibilità tecnica di fare cose prima anche solo impensabili, è stata e viene usata da alcuni in maniera assai interessante, ma è pur vero che la china generale, diciamo il flusso principale, si è indubbiamente impoverito, la faccenda che tutti noi anziani si dica che la musica oggi è tutta simile a se stessa più un dato di fatto che una sensazione. La questione, la dico in poche parole, è che l’algoritmo, con quel suo restringere sempre più i paletti entro i quali muoversi per poter entrare nelle playlist, parlo di minutaggio, di BPM, di frequenze, ha ridotto al minimo le possibilità, e per dirla coi pittori, è come se di colpo sulla tavolozza non ci fossero più i tre colori primari il bianco e il nero, coi quali dar vita a tutte le sfumature possibili, ma giusto un paio di essi, e poi arrangiatevi. Se a furia di chiudere i paletti le armonie possibili sono sempre meno, perché minori sono le frequenze entro le quali muoversi, e di conseguenza minori gli accordi e anche le melodie, e se i suoni si somigliano tutti perché spesso presi dagli stessi folder, non parliamo del ritmo, che praticamente è sempre il medesimo, è ovvio che quel che ne uscirà fuori è la copia di quello che è uscito ieri, l’altro ieri e anche domani. Una sola sfumatura di grigio. Il problema, ve lo dico mentre porto un cannone con un mulo sulla vetta dell’Adamello, non è tanto e solo che le canzoni siano scritte e prodotte sempre da quei soliti quattro o cinque nomi, quanto piuttosto che siano tutte scritte su un cliché che quei quattro o cinque autori e produttori deve assecondare, pena il non essere altrimenti stremmato a dovere. Sarà mica un caso che chi negli ultimi anni è uscito in maniera dirompente sulla scena, penso ai Maneskin, prima, e a Lucio Corsi, oggi, si rifà a un momento storico ben preciso, quello degli anni Settanta e del Glam Rock, nel quale c’era invece massima libertà d’azione e d’espressione, un sistema certo presente ma dalle maglie più larghe e soprattutto non guidato da un rigido algoritmo ma da quelli che Frank Zappa definiva “i discografici coi baffi e il sigaro”, gente che non capendone di musica si fidava di chi di musica invece ne capiva, il mercato a prendere poi la forma di quelle intuizioni.
Benvenga Lucio Corsi, lì a bersi il suo Gin Fizz senza la forza fisica di sollevare un peso da dieci chili, del resto canta “volevo essere un duro”, mica “sono un duro che ha portato su cannoni fino in cima all’Adamello”, e benvenga la sua musica che non tiene conto, almeno non troppo, dell’algoritmo, quanto piuttosto di quel passato in cui il vecchio professore del Politecnico era ancora giovane e un po’ meno rompicoglioni, e nel quale la cassiera incazzosa dai capelli blu sarà stata una bambina sorridente cui la vita non aveva ancora presentato un conto evidentemente ritenuto troppo salato, quella che da domani tornerà a non salutarmi quando arriverò alla cassa, né quando me ne andrò dopo aver pagato, perché l’occasione fa l’uomo ladro, ma l’assenza di occasioni riporta tutto all’ordine naturale delle cose.