Lucio Corsi e i cani che si mordono la coda (no, stavolta non parla di animali)

È un cane che si morde la coda. Parto da qui, da un modo di dire che significa che non c’è una via d’uscita, una soluzione, la possibilità di risolvere una determinata situazione. In effetti è una immagine solida, efficace, uno lo dice e te lo visualizzi nella mente. Stamattina stavo andando verso la fermata della metropolitana coi miei due figli piccoli, Francesco e Chiara, gemelli di tredici anni. Loro sarebbero poi andati a scuola, due fermate e poche decine di metri a piedi, io a fare le analisi del sangue, per il check up che tendenzialmente faccio tutti gli anni, il nostro laboratorio di analisi da qualche tempo trasferitosi nell’ammezzato della metropolitana. Durante il percorso siamo passati di fianco all’area cani del parchetto che si trova nella piazza sotto casa nostra. Essendo mattina presto, Milano è una città votata al lavoro, a quest’ora tendenzialmente la gente si sta spostando verso il luogo dove passerà le prossime dieci ore a fare cose, l’area cani è praticamente deserta. Unica eccezione un cane beige, di taglia medio grande. Fossi uno che capisce di cani direi anche di che razza, perché a occhio e croce è un cane di razza, non un bastardino, ma così non è, quindi prendete per buona la descrizione che vi ho dato. Siccome sono partito parlando di un cane che si morde la coda, andando poi a spiegare che stavo parlando del modo di dire, e solo in un secondo momento sono arrivato a parlare del cane beige, di taglia medio grande che abbiamo visto nell’area cani del parchetto nella piazza sotto casa nostra è direi abbastanza scontato che ora io dica che il cane in questione si stava mordendo la coda. Una scena, però, va bene essere prevedibili ma non è che stiamo qui a pettinare le bambole, assolutamente divertente. Divertente non solo e non tanto perché la scena è palesemente simpatica, ma perché il cane in questione sembra che si stia assolutamente divertendo. Non dico che si possa vedere un sorriso sulla sua bocca, a parte quelli che si vedono in certi meme e in certi video sui social, video e meme che credo siano stati ritoccati, non ho mai visto un cane sorridere, e dubito possa farlo. Ma se un cane si sta divertendo, saltellando più come ci si immagini faccia uno stambecco in montagna che un cane in un’area cani di Milano, lo si può ben capire anche solo guardandolo. Io e i miei figli, infatti, abbiamo sorriso all’unisono. Anzi, siccome la differenza tra sorridere e ridere sta anche nei suoni che nel secondo caso si emettono, abbiamo riso, a nostra volta divertiti. Ho quindi appuntato mentalmente l’idea di riprendere il concetto di cane che si morde la coda, a partire da questo aneddoto personale. Quello che da qui vorrei sviluppare, mi sono detto mentalmente, mentre stavo seduto nella sala d’attesa del laboratorio d’analisi, mia moglie che era uscita una quarto d’ora prima di me, il suo appuntamento era appunto un quarto d’ora prima del mio, seduta al mio fianco, quello che da qui vorrei sviluppare, mi sono detto mentalmente, è un discorso che ruota intorno al fatto che spesso ci capita di dare per assodate faccende che riteniamo certe, ma che in realtà così certe non sono. La spiego meglio, a volte ci convinciamo che succederà qualcosa, invece succede il contrario, e questo perché siamo soliti assecondare certe nostre intuizioni convinti che siano qualcosa su cui scommettere a occhi chiusi, intuizioni evidentemente non sempre azzeccate.

Quello che avete appena letto, grosso modo, lo si potrebbe definire un incipit. Un incipit indubbiamente lungo, complesso, ma pur sempre un incipit. O prologo, magari, se fossimo al cospetto di un testo articolato, diviso poi in capitoli, per intendersi. Non necessariamente gli incipit devono essere esattamente allineati all’argomento che poi si affronterà, credo che sia lapalissiano giunti a questo punto, posso citare gli incipit di tutte le puntate dei Simpson come prova provata di ciò, e il citare i Simpson è ovviamente un fare l’occhiolino alla cultura postmoderna, come a volermi includere in un macrosistema che preveda la presenza anche di Matt Groening, che dei Simpson è il papà, oltre di tutti gli altri artefici del postmodernismo. Il bello di scrivere è che si può dar per scontato qualsiasi cosa, Stefano Benni parlando proprio della magia della scrittura diceva “adesso posso dire che entrano in scena centinaia di elefanti”, sottintendendo che il lettore è chiamato a credere allo scrittore alla cieca, senza pretendere prove di quel che si scrive, quindi, sì, sono parte di un macrosistema con Matt Groening e altri postmoderni. Lì in genere succede qualcosa, che ha sempre Bart, il figlio discolo, come protagonista, poi la storia andrà da tutt’altra parte, Bart che scrive decine di volte una frase simpatica alla lavagna, per punizione, come punto saliente della sigla, a quel punto per sancire la fine dell’incipit e l’inizio della storia.

Questo incipit non è come quello dei Simpson, non sono così geniale, e soprattutto questo è un testo scritto, non una puntata di una serie animata per la tv, quanto piuttosto un mio classico incipit, nel quale parto per la tangente, divago, lasciando però qui e là le mollichine che poi mi ricondurranno verso la via di casa, parlo per me, Pollicino, lasciando delle indicazioni più o meno chiare di che tipo di discorso voglio sviluppare a partire da quel cane che si morde la coda, da considerare una situazione senza soluzione, in realtà semplicemente un cane che si sta divertendo come un pazzo al parchetto sotto casa mia.

La fondamentale differenza tra me e Matt Groening, in questo, è che la storia di prendere lucciole per lanterne, pensare quindi che un cane che si morde la coda è qualcosa di negativo, mentre in realtà può essere un momento di divertimento, mi sembra piuttosto attinente a Lucio Corsi, che è la faccia che campeggia nella foto di copertina e il nome che fa bella mostra di sé nel titolo, protagonista vero di queste mie tante parole. Ero infatti convinto che passare per Sanremo fosse per lui un rischio, forse indossando abiti troppo paternalistici, io, perché il suo essere fuori dagli schemi, e niente è più dentro gli schemi del Festival, anche quando ospitava un Achille Lauro con il body di Britney Spears era assolutamente schematico, il suo essere fuori dagli schemi potesse costargli il ruolo imperituro di “quello strano”, il freak che ci piace tanto ma alla fine sempre freak rimane. Glielo avevo detto, in una trattoria di Niguarda, quartiere periferico a nord di Milano, come a metterlo in guardia dai rischi. Avevo citato la canottiera di Giovanni Truppi, indicando in quel suo caratterizzante indumento il solo oggetto di memoria di quel suo passaggio sanremese, questo nonostante la canzone portata in gara, “Tuo padre, mia madre, Lucia”, fosse un vero gioiello. La storia è andata evidentemente in altra maniera. Lucio è passato dall’Ariston esattamente per come chi lo conosceva prima, io tra questi, sapeva fosse, ha conquistato praticamente tutti, a partire dal suo modo vero di stare sul palco, curioso che sia apparso come quello più vero l’artista che più di ogni altro ha usato quelli che si possono identificare come “abiti di scena”, e poi per la canzone, senza ombra di dubbio una delle più belle in gara, destinata a rimanere nel tempo. Lucio Corsi, il cantautore naif, che guarda a Ivan Graziani come al glam rock, stavolta poco al glam rock e molto a Ivan Graziani, che vive tra la sua Maremma e la sua Niguarda, è oggi una realtà condivisa da tutti, e presto difenderà gli italici colori a Eurovisione, andandosela a vedere con la sua canzone che è un vero inno a essere se stessi, a prescindere dalle aspettative proprie e degli altri, ma anche in qualche modo un manifesto alternativo alla mascolinità tossica, essere fragili e contenti, andandosela a vedere con altre due idee di Italia, quella assolutamente sprezzante messa in scena da Gabry Ponte con Tutta l’Italia, e quella amorevolmente situazionista espressa da Tommy Cash.

Non a caso la presentazione del suo nuovo album, il quarto, dal titolo Volevo essere un duro, avviene non in un locale, magari nella medesima trattoria di Niguarda dove aveva incontrato la stampa prima di Sanremo, ma presso la Sala Testori, un auditorium vero e proprio sul retro del Teatro Parenti, proprio di fianco ai Bagni Misteriosi, struttura balneare milanese piuttosto à la page. Un salto di quantità, che denota l’esatto momento in cui la gente ha scoperto la qualità, tutto torna. È qui che ieri ha radunato la stampa di settore per presentare il suo album, la cui uscita in streaming era prevista per la mezzanotte, quella fisica a partire dall’apertura dei negozi. Una presentazione evidentemente attesa, stando alla quantità di facce presenti, non è che uno viene indicato come il vincitore morale del Festival così, a caso.

Io il disco non l’ho ancora sentito, fatto che mi mette addosso qualche perplessità, riguardo almeno alla conferenza, ma la presenza di un pianoforte e di una chitarra acustica su un palchetto nel quale campeggia anche a classica faccia alla Transformer di Lucio, e dove fa bella mostra di sé su un piedistallo il quadro della mamma di Lucio che è poi finito, come d’uso, nella copertina del nuovo album, mi lascia pensare che avremo tutti modo di sentire le canzoni di qui a breve.

Prima dell’inizio della conferenza, che poi si dimostrerà in realtà appunto uno show case nel quale il nostro eseguirà tutte le nove tracce del disco, o accompagnandosi esattamente al pianoforte o alla chitarra, una padronanza degli strumenti e del palco che già tutti avevano potuto ammirare dal palco dell’Ariston, chi lo seguiva da prima anche nei suoi tantissimi live collezionati in dieci anni di carriera, si è però consumato un dramma, o forse verrebbe da dire uno psicodramma. A fianco alla Sala Testori, così si chiama lo spazio del Franco Parenti destinato alle conferenze, ci sono le piscine dei Bagni Misteriosi, assai belle a vedersi e incredibilmente piene d’acqua anche ora che siamo a marzo, quindi fuoristagione. Ho detto piscine, sì, quindi chi è solito leggermi avrà già intuito di cosa andrò a parlare, anzi, di chi. Perché quando la sala ha cominciato a riempirsi, velocemente visto il numero alto di partecipanti, le prime file sono subito state prese dai più lesti, lasciando che chi solitamente siede per uso capione o diritto di casato in prima fila rimanesse a bocca asciutta. Parlo di quei tre quotidianisti che da tempo immemore tutti coloro che frequentano conferenze stampa di ambito musicale conoscono col nomignolo di Pool Guys, io il responsabile di questo nomignolo divenuto d’uso comune. La storia è vecchia e risaputa, Luca Dondoni de La Stampa, recentemente salito agli onori delle cronache quando Selvaggia Lucarelli ha reso virali i video nei quali recensisce aspirapolveri e cellulari, Andrea Laffranchi de Corriere della Sera e Paolo Giordano de Il Giornale anni fa sono volati a Miami a spese di Laura Pausini, lì per presentare il suo album Simili, e si sono fatti un selfie a bordo piscina, l’hashtag scelto da Dondoni per accompagnare il tutto #thepoolguys. Ai tempi scrivevo per il sito del Fatto Quotidiano, e non ho perso l’occasione di evidenziare come andare a spese di un’artista a Miami e poi dover scrivere del suo album, a mio modo di vedere, generava una crepa, e la cosa si è fatta sentire nelle tre redazioni dei tre sedicenti colleghi. E si è fatta sentire soprattutto tra colleghi e addetti ai lavori in generale, che da quel momento così hanno preso a chiamarli. I tre, del resto, oltre a aver sempre preso possesso dei posti in prima fila, complici certi uffici stampa benevoli, da qualche tempo hanno anche dato vita a un podcast assieme, Pezzi, quindi a tutti gli effetti come un trio vanno trattati. Solo che oggi il trio non può sedere in prima fila, primo step del dramma, così Luca Dondoni e Andrea Laffranchi siedono affranti a metà sala, defilati di lato. Io, per capirsi, sono seduto a fianco del palco, in una panca senza schienale, ma non ho fatto il labbrino, non mi hanno mica mandato in miniera con un canarino nella gabbietta per avvertirmi delle fughe di gas. Ma il vero psicodramma si manifesta poco dopo, quando il valente critico di Rockol Gianni Sibilla, una delle poche firme che rispetto e leggo sempre con piacere, si siede, su indicazione del compagno di scuderia Claudio Cabona, per cui valgono gli stessi aggettivi e la stessa stima, proprio nel posto vuoto a fianco di Luca Dondoni, riempiendo uno spazio che tutti sapevamo sarebbe poi stato occupato da Paolo Giordano. Paolo Giordano che infatti è arrivato e, spaesato, non ha potuto ricongiungersi coi suoi cari, vagando come un’anima del limbo in giro per la sala. A un certo punto lo si è sentito anche dire “beati voi che siete in prima fila” a Nico Donvito, Angela Calvini e gli altri che in prima fila erano, non certo per abitudine o diritti acquisiti. Vorrei poi star qui a raccontare di come Paolo Giordano abbia a più riprese provato a farsi un selfie con Lucio a fine show case, finendo però per fare bombing a quello di Angela Calvini di Avvenire, e di come la stessa Angela Calvini, che credo di aver visto in almeno un centinaio di occasioni, mi abbia chiesto se ero il “manager di Lucio Corsi”, aggiungendo alla mia perplessa risposa negativa, “hai la faccia da manager”, vai poi a capire che significa, ma credo che il focus del pezzo dovrebbe essere su Lucio Corsi e il suo quarto strepitoso album, Volevo essere un duro. Un album che Lucio ha eseguito live, in acustico e da solo, ripeto, al piano e alla chitarra, parlando molto tra un brano e l’altro, le domande che arriveranno poi giustificano perfettamente il suo non voler lasciare troppo spazio ai giornalisti. Un lavoro fatto di tante storie, stavolta con molta meno natura presente e molte più storie di uomini. Come ha detto lo stesso Lucio, è come se avesse preso il drone col quale guardava il mondo negli album precedenti e lo avesse sostituito con un treppiedi messo sul marciapiede. Storie spesso sue, ma anche di chi gli sta attorno, orientate molto verso il passato, l’adolescenza scelta come periodo più interessante per parlare poi di crescita e di come si possa o si voglia essere. Per dirla a modo suo, un modo per reinventarsi il passato così da poter riscrivere anche il futuro. Un album bello denso, direi, divertente e emozionante, con canzoni che ruotano intorno alla forma canzone tradizionale, che si intenda per tradizione il cantautorato italiano, i nomi che saltano all’orecchio sono Ivan Graziani, Rino Gaetano, Alberto Fortis, Lucio Dalla, o la musica americana, dal talking blues al rock’n’roll, passando per la ballad. Tante parole, tante immagini, tante storie, questo è Volevo essere un duro, un lavoro maturo che non snatura affatto quanto di bello Lucio Corsi ci ha fatto sentire in precedenza, e che credo possa accontentare molto anche gli ultimi arrivati, tantissimi, lì di fronte a un artista maturo e con un proprio immaginario e una propria poetica ben definita. Un album, quindi, che è al tempo stesso strettamente legato al passato di Lucio Corsi, medesime radici, medesime reference, ma segna una svolta narrativa, un differente punto di vista, o meglio, un differente panorama osservato e quindi raccontato: l’umanità. In tutto lo sguardo alieno di Lucio Corsi, la sua penna forbita e ironica, capace di tirare fuori immagini sempre efficaci e in qualche modo inusuali, poetiche e moderne, stralunate e assolutamente piantate coi piedi per terra, a tratti anche tragicomiche, come in Situazione complicata, una delle canzoni più belle di questa covata. Stavolta anche personaggi destinati a entrare anche nel nostro immaginario, dal già noto Francois Delacroix, passato anche dalla Domenica In di Mara Venier a Rocko, suo compagno di banco alle medie, professione bullo, amico vero o immaginario, ci tiene a precisare, suo e di Tommaso Ottomano, primo caso mondiale, in caso, di amico immaginario condiviso.

Lucio Corsi è oggi una realtà del nostro cantautorato consolidata, con una fama arrivata certo in tempi ristretti, da poco più di zero a cento in poche settimane, ma con una gavetta che gli permette comunque di non montarsi la testa e di guardare al futuro con la voglia di fare tanti live e di divertire e divertirsi. E di live, questo pure verrà detto durante la conferenza, Lucio ne farà tanti, tantissimi, a partire da quelli imminenti nei club, un tour già completamente sold-out, per passare alle tantissime date estive, che si concluderanno con un bagno di folla all’Ippodromo di Milano, e in quella data ha promesso di portare con sé una band allargata, con tanto di fiati e cori. Perché Lucio per il resto andrà in giro col solito sodale Tommaso Ottomano, che già abbiamo visto al suo fianco a Sanremo, co-autore di tutti i brani, co-produttore dell’album sempre con Lucio e stavolta anche con Antonio Cupertino, e regista dei videoclip, e con la Banda, come la chiama lui, gli stessi amici dei tempi delle superiori con cui suona da sempre. Sette elementi sul palco, a suonare chitarre, pianoforte, organo, batteria e basso. Perché cantare e suonare è il suo e il loro lavoro. Al punto che a Basilea, per Eurovision, Lucio promette di non fare troppe scene, dedicando alla musica tutta l’attenzione, e portando con sé una armonica a bocca, visto che la base sarà in playback ma il microfono con cui cantare sarà acceso. Lui che ha indicato nel Rolling Thunder Revue di Bob Dylan, nel Last Waltz della Band e nel Wings over America degli Wings i suoi tour di riferimento ambisce in realtà a un Never Ending sempre dylaniano, suonare e suonare, ovunque e di fronte a qualsiasi pubblico, alla faccia del cane che si morde la coda (quello del detto).

PS

Devo fare una confessione, amici lettori. Avendo deciso di partire dall’immagine del cane che si morde la coda, controllando online che fosse corretta la mia lettura di questo modo di dire, sono incappato in un paio di siti dedicati ai cani che specificavano come un cane che si morde la coda sia evidentemente molto sotto stress, se non addirittura borderline, praticamente un cane pazzo. Quindi forse l’idea di gioia e spensieratezza che ho voluto usare per dimostrare che a dar credito a certe convinzioni si può finire per cadere in errore non era proprio corretta. Succede. Voi fin qui l’avrete presa per buona,, a meno che non abbiate cani e cani che si mordono la coda. Domani se rivedo quel cane beige sotto casa tratterrò il sorriso, e magari gli regalerò qualche crocchetta addizionata di Xanax. Comunque resta che Volevo essere un duro è un grande album e che nessun Lucio Corsi è stato maltrattato per scrivere questo mio pezzo.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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