Faceva caldo la notte che bruciammo L.A.. In memoria di Brian Wilson

Uno passa le giornate a cercare immagini efficaci, il modo giusto di raccontare le cose, quella frase o quella trama che in qualche modo tengano il lettore attaccato alla pagina. Siamo in tempi distratti, frammentari e frammentati, tenere il lettore attaccato alla pagina è faccenda di primaria importanza, per chi scrive, e forse anche per chi legge. Comunque uno sta lì che si scervella tutto il santo giorno, perché tocca sempre prendere le contromosse a quel che la vita ti pone davanti, non proprio a te in prima persona, o meglio, non solo a te in prima persona, ma al mondo in generale, poi succede che arrivino notizie di primaria importanza, e queste notizie si incastrano come in una partita di Tetris, non devi far altro che star lì a descrivere le cose, benedetta vita.
Ieri è morto Brian Wilson. Per chi non lo sapesse, e chi non lo sapesse farebbe bene a colmare questa lacuna, perché stiamo parlando di una delle personalità più importanti del Novecento, per quel che riguarda la musica e la cultura popolare, Brian Wilson è stato il fondatore di Beach Boys, e il loro principale autore, di conseguenza, appunto una delle personalità più importanti del Novecento, a mio modo di vedere anche degli anni Zero.
Uno dice Beach Boys e magari pensa a canzonette leggere, disimpegnate, il surf, le belle ragazze, i coretti. Tutto vero, sia chiaro, ma i Beach Boys, e quindi Brian Wilson, sono molto di più. Sono l’idea stessa dell’armonizzazione applicata al rock’n’roll, appunto, le linee melodiche che si sovrappongono e vanno a creare altre linee melodiche, soluzioni che le ascolti e ti sembrano la cosa più naturale e bella lì a disposizione, ma prima di lui nessuno aveva neanche sognato di andare a disegnare. I Beach Boys hanno sofferto, almeno in Europa, della presenza in contemporanea dei Beatles, credo di poterlo dire senza paura di troppe smentite, ma la storia del pop ci insegna che nei fatti era più vero il contrario, se è vero come è vero che John e Paul ascoltato Pet Sounds della band californiana andarono letteralmente fuori controllo, spingendo il loro produttore George Martin a trovare il modo di ricreare quel tipo di suono e tirando poi fuori un lavoro come Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, vera e propria emulazione di quel lavoro. Di quel lavoro, va detto, e in parte anche di Freak Out! delle Mothers of Invention di Frank Zappa, certo, ma prevalentemente di quel lavoro gigantesco a firma Brian Wilson. Un lavoro, Pet Sounds, va detto, che minò definitivamente il progetto Beach Boys, e forse anche la mente di Brian, dedito in maniera ostinata alla psichedelia, nel senso dell’uso di sostanze psichedeliche. Al punto che la band in qualche modo si sfaldò sotto i suoi occhi, e con la band anche la sua psiche. O forse viceversa. Per ascoltare il seguito vero e proprio di Pet Sounds, il famigerato Smile non a caso divenuto parte portante della trama del capolavoro Visioni Rock, romanzo dell’autore cyberpunk Lewis Shiner nel quale Roy Shackleford si aggira nel passato per provare a far portare a termine i grandi lavori, divenuti leggendari, che il rock non ha mai visto uscire, per ascoltare Smile, dicevo, si dovrà aspettare il 2004, quando Brian Wilson lo pubblicherà, la sua ossessione per lo studio di registrazione, ricordiamo che il singolo di maggior successo della band, Good Vibrations, costato qualcosa come cinquantamila dollari, uno sproposito, è stato inciso, vuole leggenda, in decine di studi, sovrapponendo voci su voci, strumenti su strumenti, andando a creare quel lavoro di cesello che in qualche modo segnerà per sempre la storia della musica contemporanea.
Ma questo non è un saggio su Brian Wilson, ripeto, chi non lo conoscesse ha la fortuna di vivere in un’epoca dove la musica sta tutta lì, a portata di click, recuperare quel che si è perso è sempre più semplice, ma il racconto di come a volte la vita sia molto più brava a creare trame di quanto noi potremo mai sforzarci di fare. Perché Brian Wilson, ottantadue anni, se n’è andato in quella Los Angeles che in qualche modo ha contribuito a rendere mitologica con le sue canzoni, lui che in vita sua non aveva mai imbracciato una tavola da surf, sorta di Emilio Salgari delle canzoni pop, proprio mentre la medesima Los Angeles, e con lei tutta la California, incarnazione di un’America solare e votata al benessere è letteralmente in fiamme. Anche qui, sappiamo tutti cosa sta succedendo, Trump ha sostanzialmente dichiarato guerra al governatore locale, Gavin Newsom, democratico, mandando la guardia nazionale a sgomberare le strade dove è scesa una protesta compatta e a tratti anche violenta, le leggi sull’immigrazione del tycoon ritenute illegittime e dittatoriali. Una protesta che ricorda quelle del 1992, la nota vicenda di Rodney King, e che come nel caso di Black Lives Matter si sta espandendo per tutti gli USA, anche San Francisco battuta a ferro e fuoco. Uno strano contrasto, le fiamme, i cassonetti rovesciati, i marines e la guardia civile schierata in assetto di guerra, e le canzoni celestiali dei Beach Boys, roba da scena di un film particolarmente ispirato, non fosse che tutto questo è in realtà gentilmente offerto dalla storia vera e propria, forse la Storia vera a propria, vallo a sapere. La morte di un genio, Brian Wilson, che quella terra ha contribuito a elevare a immaginario e poetica, proprio mentre quell’immaginario e quella poetica, forse andrebbe detto quel sogno, crolla miseramente a terra, sotto i proiettili di gomma dei fucili dell’esercito americano sparati contro i cittadini.
Volessimo complicare ulteriormente la questione, nel senso di rendere questa narrazione ancora più articolata, potremmo metterci anche la recentissima morte di Sly Stone, che a Los Angeles ha emesso l’ultimo respiro, ma che dell’estate dell’Amore, così veniva chiamato il periodo nel quale, a suon di rock’n’roll, nella costa Ovest degli USA si muoveva una rivoluzione intellettuale e giovanile che sperava di poter cambiare lo stato delle cose, Sly and the Family Stone, col loro funky ossessivo in qualche modo a dare il tempo al tutto. Due colossi, Brian Wilson e Sly Stone, coetanei, il primo del 1942, il secondo del 1943, artefici di un’era aurea della musica e della cultura e controcultura occidentale, fabbricanti di quel sogno che è franato rovinosamente a Monterey, prima, in Vietnam, anche, e più in generale in quella deriva che si è manifestata chiaramente sotto i nostri occhi che ha visto l’idea di una nazione costruita in apparenza sull’inclusività e la convivenza di tante diversità diventare una sorta di molosso lì a ringhiare al mondo intero la propria idea di democrazia e libertà, certo era un’illusione già in partenza, è ovvio, i nativi americani nelle riserve la prova provata di come quel sogno fosse nato già con la cornice di un incubo.
In questi ultimi anni abbiamo visto tanti, tantissimi alfieri di quell’epoca, e di quelle successive, andarsene, chi per vecchiaia, chi per aver bruciato la propria vita con troppa foga. La morte è parte della vita, non lo scopro certo io ora, ma sapere che così tanti pezzi di quel quadro bellissimo che la musica ci ha posto di fronte se n’è andato, uno dei più fulgidi, quello che faceva tremare d’invidia Paul e John, non esattamente uno di passaggio, e che li spingeva a dare il meglio di loro, è qualcosa che ci lascia decisamente nello sconforto, più poveri e anche più soli. Brian Wilson forse se n’era già andato da decenni, vallo a sapere, il suo starsene incartato nella sua psiche un dedalo troppo difficile da sbrogliare per noi comuni mortali. Era tanto che il suo genio non si esprimeva, e del resto chi ha scritto Pet Sounds o Smile non è che sia tenuto a fare altro, credo, la pretesa di una performatività a quel livello è arrogante quanto ingrata. Ma che la California sia messa a ferro e fuoco proprio mentre il suo corpo sta da qualche parte a Los Angeles ormai pieno di vita mi sembra davvero un’immagine che nessun grande scrittore avrebbe potuto scrivere, geniale anche nell’uscita di scena.