
Partiamo dal tanto odiato autotune. Potrei attaccare dicendo: non tutti i mali vengono per nuocere. Ma lascerei intendere un giudizio neanche troppo interpretabile, che svierebbe il discorso. Provo quindi a dare una lettura differente a quello che è un effetto, in senso tecnico, e che in quanto tale, è ovvio, non può essere confuso con una causa, né con una conseguenza.
Facciamo qualche passo indietro, così da avere davanti agli occhi una scena più ampia, meglio comprensibile.
Nella società dei social network e dell’apparenza, ne parlavo giusto qualche giorno fa, essere sinceri è impossibile, forse anche inutile. È impossibile perché viviamo costantemente dovendoci confrontare con la richiesta di una nostra rappresentazione, e inutile perché una qualsiasi rappresentazione, per definizione, per quanto possa essere il più fedele possibile all’originale non sarà mai l’originale. Quindi basta l’intenzione, come quando si devono fare certi regali a Natale.
Nelle intenzioni possiamo essere sinceri anche nel momento in cui ci ammantiamo di finzione, di sovrastrutture, di costrutti. Possiamo, cioè, non fingere anche nel momento in cui appariamo assai diversi da quel che saremmo, se non ci nascondiamo dietro quel che appariamo, ma lo indossiamo con la disinvoltura di chi sa di essere al centro di una messa in scena, di un gioco di ruolo. Di più, essendo appunto una rappresentazione, quindi un gesto finalizzato a parlare e parlarci, il nostro apparire differenti da quel che siamo va interpretato esattamente come tale, senza fare confronti col reale.
So che nei fatti, diciamo nel 99% dei casi, l’autotune, è da lì che siamo partiti ma evidentemente non è solo dell’autotune che si sta parlando, è un trucchetto atto a sopperire a delle carenze, non certo la tanto millantata cifra stilistica e men che meno uno strumento utilizzato con lo scopo di permettere quella messa in scena, una sorta di effetto speciale che ci fa credere che in una determinata scena di un film sta sbarcando nel deserto del Nevada una astronave aliena che, probabilmente, lì non è mai sbarcata, ma qui si parla di teorie e non di pratiche, lasciate gli oggetti ingombranti a casa e mettetevi comodi.
In questa ottica di rappresentazione la presenza di funzioni che ci permettano di elaborare la realtà a nostro piacimento, dall’autotune, appunto, in musica, a Photoshop e gli altri filtri, nel mondo del visivo, per non dire di quegli accorgimenti fisici quali il botox o la chirurgia estetica, che interviene direttamente sul corpo, rende l’artificialità qualcosa di progettuale, di programmatico. Almeno in termini teorici, il famoso coltello che può servire per tagliare il pane come per sgozzare.
Esiste un genere, oggi, anche se in realtà esiste già da ieri, uno ieri che può risalire fin verso la metà degli anni dieci, l’hyperpop, che è in qualche modo la cristallizzazione di quanto detto fin qui, una estremizzazione di filtri atta a creare un reale palesemente irreale, inrappresentato ma rappresentabile, anzi, inrappresentato in natura, ma rappresentabile grazie a quegli artifici di cui sopra. Un genere che spinge decisamente sull’acceleratore in termini estetici, le voci costantemente elaborate, i suoni stucchevoli, velocizzati, tutti sintetici. Nato dall’intuizione di due genialoidi, il produttore A.G. Cook, producer fondatore della PC Music, e SOPHIE, producer e artista tragicamente e prematuramente scomparsa nel 2021. Il loro incontro, e la loro collaborazione, anzi, le collaborazioni che intorno a loro si sono sviluppate hanno dato vita a un vero e proprio genere musicale, recentemente portato sotto l’attenzione del pubblico di massa, leggi alla voce mainstream, grazie al successo planetario della popstar britannica Charli XCX e del suo album BRAT.
Tre passaggi intermedi fondamentali, per intendere bene di cosa si sta parlando, il singolo Hey QT, interpretato da QT, artista inesistente creato dagli stessi A.G. Cook, SOPHIE in unione con l’artista performer Hayden Durham, la voce era invece della vocalist Harriet Pittard, QT, acronimo per Quinn Thomas, a sua volta testimonial e creator di un energy drink, il DrunkQT, a sua volta inesistente. Siamo nel 2014.
È invece il 2017 quando A.G. Cook e la stessa SOPHIE collaborano con Charli XCX per il suo mixtape Pop 2, dentro il quale troviamo buona parte dei nomi di peso della contemporaneità, parlo di pop ma anche di sperimentazione, da Tove Lo a Caroline Polachek, passando per Brooke Candy, Pabblo Vittar, Dorian Electra fino a quel Tommy Cash balzato in maniera imbarazzante alle nostre cronache per la sua Espresso Macchiato, scambiato per un attacco alla cultura italica da parte di chi, evidentemente, nulla sa di musica e di arte contemporanea.
Terzo passaggio, arriviamo al 2019, l’uscita di 1000 gecs, dei 100 gecs, considerato in qualche modo una sorta di pietra miliare del genere, pur etichettato come Bubblegum Bass piuttosto che come hyperpop.
Incentrato su ritmi spesso ossessivi, sopra i quali si muovono melodie estremamente orecchiabili interpretate da voci totalmente elaborate sinteticamente, con continui cambi di tonalità assolutamente impossibili in natura, l’hyperpop è una specie di punto di incontro tra mercato e arte contemporanea, con le istanze del pop portate agli estremi con intenzioni assolutamente sperimentali, a tratti massimaliste come si intende il massimalismo in una lettura postmoderna, il tutto con testi che sono spesso crepuscolari, e altrettanto spesso intenti a sottolineare le ipocrisie e discrepanze della contemporaneità. Le voci pitchate, le sonorità sature di glitch, i ritmi metallici, anche una estetica assolutamente vicina a quella queer, dove i colori sono fluo e sovraccarichi, tutto l’hyperpop è assolutamente finto, e al tempo stesso assolutamente credibile, reale, tanto quanto è reale quel mondo virtuale col quale ci siamo abituati o assuefatti a vivere quotidianamente.
Proviamo a inquadrare il tutto allestendo un veloce parallelo col mondo dell’arte figurativa, l’hyperpop non a caso è mosso da nomi che in quel campo agivano prima di diventare o interpretare, siamo sempre qui, popstar, dalla già citata Hayden Durham, dietro il progetto QT, a Hannah Diamond, divenuta uno dei nomi di punta del genere con canzoni e con una estetica assolutamente zuccherosa e artificiosa, ma approdata al canto dal mondo della fotografia e dell’arte figurativa.
L’hyperpop è in qualche modo la rappresentazione musicale, o meglio lo è stata, del passaggio dalla pop art all’ipermodernismo. Se prima infatti c’era la pop art, che in puro stile postmodernista si prendeva cinicamente gioco del consumismo, oggi c’è l’ipermodernismo e l’iperrealtà, che tende a dar vita, nel senso letterale del termine, di infondere appunto vita, ai nostri avatar. Basta solo sapere che stiamo parlando di avatar, non di persone reali, questo senza sminuirne la portata, e, uso una parola che potrebbe suonare paradossale, senza snaturarne l’essenza. In questi termini è assai interessante constatare come il costante tentativo, meglio, la costante volontà di negare l’identità per affondare uno dei miti fondanti del realismo capitalista, lavorando quindi sulla propria trasfigurazione, come SOPHIE coi suoi brani hyperpop quali Faceshopping o Lemonade, lavorando sia sui suoni, sulla voce, sull’estetica e anche sull’immaginario, sia passato attraverso un genere musicale in apparenza, avrete capito che la parola apparenza è la chiave di volta di questo scritto, superficiale. Un po’ come a suo tempo, nella pop art, Andy Warhol aveva fatto esaltando e elevando all’ennesima potenza la standardizzazione delle lattine di zuppa Campbell o di Coca-Cola, identiche nel sapore per gli appartenenti a qualsiasi ceto sociale, quindi in grado di abbattere gap e differenze, non imbastendo quindi un confronto con la società dei consumi che le aveva generate, ma in qualche modo donando loro un che di poetico, utopistico, oggetto che da mero prodotto diveniva unica ipotesi di comunione collettiva, attraverso i brani hyperpop è possibile ipotizzare un mondo nel quale siamo noi i promotori reali delle nostre esistenze, fuori da gabbie e imposizioni dall’alto.
Andando oltre, lo descrive bene Julie Ackermann nel saggio “Hyperpop- Il pop nell’era del capitalismo digitale”, la rilettura del pop degli anni zero praticata nell’hyperpop è esattamente il contrario della nostalgia del passato ipotizzata tragicamente da Mark Fisher con la sua hauntologia, o della retromania di Simon Reynolds, quanto piuttosto una vera accelerazione del tutto, volta a abbattere tutte le discriminazioni che i primi anni del nuovo millennio veicolavano, anche involontariamente, in una chiave assolutamente inclusiva. Pura anti-nostalgia che non a caso è a suo modo divenuta manifesto queer.
Ce lo dice, soprattutto, l’uso della voce, quindi il tanto vituperato autotune. In un gioco di ruoli, gioco che certo è partito inizialmente da una condizione di natura, ma che è sempre stato assecondato per comodità o convenienza, si è finiti per rendere cristallizzato un cliché tutto basato su dominio e sottomissione, la voce maschile, grave e quindi autorevole, contrapposta alla voce femminile, acuta, quindi esile se non addirittura infantile. La possibilità di lavorare sul suono della voce, elaborandola, distorcendola, trasformandola, è stata quindi a sua volta l’opportunità, la sola praticabile, per scontornare i generi, renderli veramente fluidi, nei fatti non solo a parole, giocando a sovvertire canoni, abbattere veri e propri dogmi. Pensa te, l’autotune che diventa wrecking ball in grado di abbattere ecomostri quali le discriminazioni di genere, alla faccia dei puristi. Lo dico da vecchio luddista che da sempre combatte una propria personale battaglia contro gli algoritmi delle piattaforme di streaming, per intendersi, con in casa un pianoforte, un paio di tastiere, un basso a cinque corde, una decina di chitarre, in prevalenza acustiche. Un luddista che da anni però lavora in rete, come ben potete vedere.
Pensare che l’hyperpop sia appunto un genere col quale probabilmente il pubblico mainstream si è confrontato attraverso le canzoni che hanno scalato la classifica di Charli XCX, o magari addirittura una veloce ricerca su Tommy Cash, artista estone da noi assurto a ruolo di mostro anti-italiano per la sua Espresso Macchiato, destinata a giocarsi la vittoria al prossimo Eurovision giocandosela proprio con il suo corrispettivo tamarro portato a Basilea da Gabry Ponte, è qualcosa, se possibile, ancora più situazionista dell’opera di Tommy Cash stesso, gli strali del Codacons, del mod leghista Centinaio, di parte della stampa nazionalista di destra a rendere il tutto qualcosa di inimmaginabile. Andatevi a ascoltare cosa ha fatto fin qui, provando a ipotizzare da noi qualcuno che faccia roba come Winaloto, Untz Untz o Pussy Money Weed, Zuccenberg, con Diplo e Suicideboys. Poi tornate a parlare di spirito patrio e a indicare nell’autotune la causa di ogni male. Certo, da qualche parte c’è Tony Effe, a rendere tutto questo mio scrivere vano, pretenzioso, forse addirittura dannoso, ma era necessario almeno provarci, mio amore mio amore mio amore.