
Nutro da sempre una smodata simpatia nei confronti di Bill Bryson. La nutrivo quando scriveva libri di viaggio, mettendosi goffamente a raccontare del suo muoversi a zonzo per il mondo, e la nutro ancora di più da che ha spostato la sua attenzione su altri tipi di viaggio, che sia la nostra storia recente, il corpo umano o le nostre abitazioni.
Nel 2003 ha pubblicato un libro che determinato questo suo spostarsi su altri lidi, Breve storia di (quasi) tutto, dove al centro del suo girovagare c’è una versione smart di divulgazione scientifica.
Ora, visto che anche io ho passato una porzione della mia vita a occuparmi di viaggi, quando ancora le riviste di viaggio esistevano, anche di guide, quando ancora non si usava Google per sapere cosa vedere una volta arrivati in una città straniera, e visto che da anni ho deciso di applicare la mia scrittura principalmente alla critica musicale, ma nel mentre è cambiato tutto e oggi il critico è più obsoleto di un lettore BlueRay in casa, eccomi a scrivere una sorta di Breve storia di (quasi) tutta la musica, a vostro beneficio. In realtà anche a mio beneficio, visto che spero alla fine si capirà perché scrivo quel che scrivo e nello stile in cui lo scrivo.
Partiamo dall’inizio.
La musica esiste da che esiste l’uomo. Immaginiamolo ancora incapace di stare in posizione eretta ma già lì a battere ossa contro ossa, come nella scena iniziale di 2001 Odissea nello Spazio.
Andando avanti, iniziando a modulare la voce, cominciando a costruire strumenti, l’uomo ha cominciato a pensare la musica come qualcosa di pià complesso, articolato, strutturato. Certo, per secoli, millenni il compito di tramandare la musica è stato affidato all’oralità, la musica non veniva scritta e di inciderla, ovviamente, non se ne parlava proprio.
L’idea che fosse arrivato il momento di fermare la musica su carta è arrivato grazie alla musica sacra, quando con l’avvento dei canti gregoriani, quindi della polifonia, poter segnare le note, almeno indicativamente, che andavano intonate è diventato fondamentale. Siamo intorno al cinque-seicento dopo Cristo, la notazione neumatica i primi segni, vagamente primordiali, con cui segnare le note su pagina.
Ancora qualche secolo, e a cavallo tra la fine del Novecento e l’inizio dell’anno Mille, quando in molti pensavano non ci fosse neanche una vaga ipotesi di futuro, un sacerdote, Guido D’Arezzo, penso di dare alle note un nome, e di segnare su pagina il pentagramma, dando in qualche modo il via alla notazione per come la conosciamo oggi. Le famose sette note, che nei fatti sono dodici, le ha segnate lui per la prima volta, e dopo circa un secolo a quelle indicazioni verranno aggiunte i toni ritmici, andando a dar vita alla notazione modale, melodia e ritmo insieme.
Piccole rivoluzioni, fondamentali, che però riguardano ancora solo la musica scritta, in prevalenza musica sacra.
Intorno al millequattrocentocinquanta, nel mentre, il mondo dell’editoria veniva davvero rivoluzionato da Gutenberg, con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, prodromo della stampa industriale.
Tornando però alla musica, tra il sedicesimo e diciassettesimo secolo sarà la volta in cui, grazie soprattutto al genio di Johan Sebastian Bach, la musica tonale, che cioè si sviluppa intorno all’armonia di una singola scala musicale, prenderà definitivamente piede. Per intendersi, è tonale buona parte della musica che ascoltiamo ancora oggi, in musica leggera. Si dovrà arrivare fino a ridosso del Novecento per incontrare la musica atonale, Schoenberg il profeta di questa teoria, che poggia più sulla interpretazione la rilevanza di una esecuzione, per capirsi.
Nel 1834, intanto, un altro compositore Robert Schumann darà vita alla Nuova Rivista di Musica, in pratica il primo magazine di critica musicale di cui si ha notizia. Una rivista nella quale, più che dar vita a recensioni, Schumann indicava talenti ancora non emersi, tra questi Chopin e Brahms, portandoli alla luce. In fondo la critica avrebbe anche questo scopo, anche se negli ultimi anni, complice l’approdo nel settore di tanti giornalisti che con la musica avrebbero di fatto poco a che spartire, è più diventata una sorta di gran cassa di quel che il mercato decide di spingere, o tempora o mores.
Quattro anni dopo, nel 1838, sarà la volta della Gazzetta musicale, nata in Italia, dove invece inizieranno a comparire vere e proprie recensioni.
Nel mentre, grazie al romanticismo, la musica che oggi chiamiamo classica ha iniziato a spopolare, uso un termine che probabilmente farà inorridire chi nelle stanze dei Conservatori, in nomen omen, si muove ancora oggi come fosse ieri.
Poi, verso il volgere del secolo, ecco un paio di passaggi, questi sì, che sconvolgeranno il mondo della musica, definitivamente. È il 1877 e Alva Edison inventa il fonografo, cioè la prima macchina in grado di registrare suoni, quindi musica. La musica da questo momento può essere, seppur sommariamente, incisa. Infatti nel 1889 arriva anche il primo “disco”, un 78 giri in porcellana. Nulla che ancora possa approdare nel mercato, intendiamoci, anche perché questo mercato ancora non esiste, ma un primo esperimento che darà in qualche modo il là alla discografia. In realtà si dovrà aspettare ancora molto prima che la discografia per come la intendiamo esista, e nel mezzo è necessario l’arrivo di un’altra rivoluzione che contribuirà non poco a lanciare questo nuovo mercato, la radio. Il 2 giugno 2896, infatti, Guglielmo Marconi brevetterà un sistema di comunicazione di telegrafia senza fili, cioè attraverso onde radio, aprendo il mondo a questa enorme rivoluzione.
La radio contribuirà come nessun altro strumento prima, non ce n’erano del resto, a diffondere le nuove musiche che, nel Novecento, inizieranno a muoversi. La musica, in radio, inizialmente, era quella eseguita dal vivo dalle orchestre, poi sarà la volta della musica incisa. Nel 1931 per la prima volta la musica viene incisa in quello che tecnicamente è il primo disco in vinile. La Quinta di Beethoven, non prodotta per il mercato. Per vedere un long playing, chiamiamolo come si usava in tempo, o LP che dir si voglia, toccherà aspettare la fine della seconda guerra mondiale, e per la precisione il 1948, quando sarà la Columbia Records a immettere nel mercato il primi 33 giri in vinile. Una ennesima rivoluzione, cui seguirà quella ancora più potente dell’arrivo del rock’n’roll, quando un nuovo genere musicale rivolto ai giovani, e considerato addirittura eversivo per quel veicolare pensieri di emancipazione e liberazione sessuale, finirà in realtà per concretizzare una idea capitalistica nata qualche decennio prima, diciamo con l’inizio del secolo, la nascita dei giovani come categoria commerciale. Da questo momento, infatti, si penserà e guarderà ai giovani non più come a quella strana fascia di età che divide l’infanzia dall’età adulta, ma a un segmento di mercato cui appioppare prodotti pensati ad hoc. Da questo momento in poi, inoltre, la musica leggera si rinnoverà con una frequenza quasi canonizzata, il rock’n’roll, il surf, il beat, il prog, il punk, il post-punk, la new-wave, via via, passando dal rap e dal grunge, che in qualche modo hanno sancito la fine di questa epopea, poi andrò a spiegare a grandi linee perché.
Tornando invece alla musica, e al modo di fruirla, va segnalato come, con l’avvento del fonografo, e quindi della possibilità di incidere, prima in 78 giri e poi in 33 giri, in seguito anche in 45 giri, la discografia si troverà di fronte a dilemmi differenti. Dapprima, con una quantità importante di musica scritta per essere eseguita dal vivo, non certo per essere registrata, ci si è dovuti ingegnare per trovare il modo di far coincidere le opere con la durata che quel tipo di formato in vinile permetteva. Ma una volta che i dischi si sono cominciati a vendere, complice anche la radio, si è cominciato a scrivere musica pensando proprio all’incisione, lasciando che le versioni dal vivo arrivassero solo in un secondo momento, e neanche sempre. L’esecuzione dal vivo, quindi, è divenuta conseguenza dell’esecuzione in studio, registrata. Annotate questo passaggio, di gran rilievo nella storia della musica contemporanea.
Andiamo avanti veloci, saltando di come, da noi in Italia, i generi che si susseguono non sono esattamente i medesimi generi che si susseguono all’estero, e arriviamo al passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.
Nel 1979, ma è qualcosa che a rileggerlo ora sa di profezia, i Buggles, popband di un’ora, che però vede tra le sue fila quel genio di Trevor Horn, dietro centinaia di hit in quel periodo, pubblicano un brano destinato a avere un certo successo, Video Killed the Radio Star. I videoclip stanno iniziando a prendere piede, accompagnando con immagini le canzoni che si affacciano sul mercato, nei fatti i video non uccideranno le radio, è evidente a tutti, ma di lì a breve diventeranno cuore della discografia, almeno per qualche tempo.
Nel 1980, però, Sony e Philips, due colossi della tecnologia, creano un nuovo supporto, che l’anno successivo verrà immesso sul mercato discografico, il cd. Sarà la Philips a decidere la durata della musica che può essere contenuta in un cd, settantaquattro minuti e qualche secondo, spostando di nuovo la discografia altrove, da quel momento, infatti, si comincerà a pensare ai dischi come un prodotto di lunga durata, spesso composti da brani trainanti, i singoli, e brani riempitivi. Considerando che il primi album erano stati concepiti come raccolte di singoli, quindi prodotti che arrivavano quando ormai i singoli erano stati venduti, e che solo in un secondo momento li si è pensati come progetti a loro stanti, si può parlare di un’altra bella rivoluzione.
Rivoluzione che in realtà trova molti detrattori, sulle prime. Si dice, a ragione, che il suono digitale, dentro i CD finiscono dei file digitali, appunto, hanno meno anima di quelli incisi in analogico e finiti dentro gli album in vinile. Il famoso concetto del fruscio della puntina, in realtà prova provata di una scarsa alta fedeltà, nasconde una qualche verità: l’analogico permette una registrazione che dia al suono la propria profondità, il digitale, che cancella rumori di fondo e tiene i suoni tutti in parallelo, suona piatto. Andatevi a leggere il fondamentale saggio di Damon Krukowski “Ascoltare il rumore”, l’assenza di tridimensionalità, il rumore cui fa cenno Krukowksi, ha appiattito il suono, rendendolo in qualche modo meno “umano”. Certo, il tempo di prendere bene la mira e si ricorrerà in qualche modo ai ripari, introducendo quella profondità in maniera coatta, inserendo appunto dei rumori di fondo atti a tal compito. Le registrazioni digitali, per contro, hanno costi molto meno elevati di quelle analogiche, che usano nastri costosissimi e che non si possono reincidere, quindi la scelta di puntare tutto su questo formato è evidente.
Nel mentre avviene un altro passaggio centrale nella storia della discografia, nel 1988 viene creato un algoritmo in grado di comprimere i file audio, quindi anche quelli musicali, con una buona qualità, si chiama MP3. Da questo momento la musica digitale, assai meno costosa per le case discografiche, diventa di facile consumo per chiunque, in via teorica. Anche perché chi produce i lettori cd è anche produttrice di musica, quindi tutto sembra perfetto. Non fosse che chi produce i lettori e la musica, leggi alla voce Sony, vede bene di immettere nel mercato anche dei duplicatori di CD, cioè dei lettori in grado di registrare cd originali, un po’ come in tanti già facevano con le audiocassette. L’unica differenza è che tra un CD originale e un CD registrato non esiste alcuna differenza, dal punto di vista qualitativo. Nasce, mettiamola così, la pirateria musicale. Andatevi a vedere su Netlfix quel gioiello di Mixed by Erry, a riguardo.
Nel mentre, facciamo un passo indietro, nel 1981 negli USA nasce MTV, la prima televisione dedicata alla diffusione di videoclip, da quel momento e per anni vero nodo centrale della promozione del mercato mainstream e non solo.
Se la pirateria ha assestato un primo colpo al cuore della discografia, anche perché nel mentre il CD ha messo in un angolo il vinile, a dare il colpo definitivo arriva un’altra invenzione, il web. Già circolato all’interno delle università americane alla fine degli anni Sessanta, col nome di Arpanet, il WWW, World Wide Web fa il suo esordio ufficiale nel 1991, cambiando la vita di noi umani per sempre, non solo di noi umani che ci occupiamo di musica, si intende, lo sapete già.
Qualche anno e ecco che l’invenzione dell’MP3 e quello del web impattano, colpendo a morte la discografia per come la conoscevamo. Nel 1999, infatti, due ragazzini americani buttano sul web un sito nel quale è possibile far circolare file audio in forma gratuita, secondo quella che è la logica peer to peer. In pratica chi ha file musicali, e avendo un computer con lettore cd è facile tradurre le canzoni in MP3, può metterle in una sorta di database comune dal quale chiunque può attingere, gratuitamente. E illegalmente, va detto. Il sito si chiama Napster. Giusto il tempo di capire che danno far passare la musica per un bene gratuito sta infliggendo alla discografia che i ragazzini, tali Shawn Fanning e Sean Parker vengono arrestati, ma da lì in poi sarà un susseguirsi di nuove modalità atte tutte a condividere file illegalmente. Emule e Torrent i due siti più famosi.
Per metterci una pezza, conscio che se la musica comincia a circolare gratuitamente difficilmente si potrà tornare indietro, il padre padrone della Apple, Steve Jobs, si inventa l’iPod, e di conseguenza iTunes. L’idea è semplice, non possiamo più dare un prezzo alla musica, allora diamo un prezzo a un oggetto cool, di moda, esteticamente bello, col quale la musica la si può ascoltare in giro, già lo walkman era stato a suo modo rivoluzionario. Una pezza a colori, che però per un po’ sembra reggere.
Solo che nel mentre c’è chi sta andando avanti col pensiero, sempre guardando alla musica come a un bene ormai gratuito. Nel 2006, in Svezia, Daniel Ek e un manipolo di giovani nerd decidono di provare a ideare una piattaforma dentro la quale si possa caricare e quindi cercare tutta la musica del mondo, nel modo più veloce possibile, certo a discapito della qualità (anche qui, andatevi a vedere, sempre su Netflix, la serie The Playlist): Spotify. In questo caso, a differenza che con l’iPod, nel frattempo un po’ meno cool, non a caso nel 2007 Apple inizierà a puntare sull’iPhone, non è un oggetto quello che si vuole far pagare, quanto un servizio, quello cioè di avere tutta la musica a disposizione, in streaming, quindi senza occupare spazio nel nostro device, e anche con la possibilità di raccoglierla in playlist, corrispettivo hi-tech delle compilation che chiunque vivo ai tempi ha fatto con le audiocassette, nel mentre destinate a sparire dal mercato, soppiantate proprio dalla musica digitale.
Ritornate indietro di parecchie righe, quando vi ho segnalato che nel 1450 Gutenberg gettava le basi per l’editoria come la conosciamo oggi, inventando al stampa a caratteri mobili. Poi pensate a quelli che, quando è nato l’ebook, hanno provato a allestire un parallelismo tra i supporti fisici per ascoltare la musica e i libri di carta, a detta loro entrambi destinati a sparire per sempre, e ora fatevi una sonora risata, la carta è lì da sempre e, sembrerebbe, per sempre.
Tornando alla musica, Spotitfy, in realtà, ai tempi è solo un progetto in divenire, al momento la discografia se la sta ancora vedendo contro la pirateria online.
Al punto che, nel 2012, Beck, cantautore americano dotato di talento e ingegno, lancia una bella provocazione sul mercato, l’album Song Reader. La sua idea, dai toni vagamente apocalittici, è semplice: occhio a rubare la musica sul web, perché potrebbe capitare che si ritorni a quando la musica non era ancora incisa, e per poterla sentire toccava andare ai concerti. Concerti che, questo ovviamente nell’idea di Beck è sottintesa, non erano esattamente alla portata di chiunque, se eri imperatore avevi Mozart che veniva a suonare a corte, se eri un povero Cristo ti accontentavi di andare in teatri scalcinati o in piazza a sentire i musicanti. Beck, infatti, pubblica il suo album di canzoni Song Reader, ma invece che mettere dentro il CD i file audio, come tutti quanti, in combutta con la rivista McSweeney’s di Dave Eggers, tira fuori un album che viene fatto uscire senza supporto fisico, né ovviamente in streaming, ma solo sotto forma di libretto di spartiti. Idea doppiamente geniale, perché da una parte indica un baco nel sistema, la pirateria, dall’altro lascia spazio a una soluzione indubbiamente artistica e fantasiosa, le canzoni sono in effetti suonabili. E infatti verranno suonate da suoi colleghi, in una seconda versione di Song Reader che, poco genialmente, va detto, annulla la provocazione precedente lasciando spazio alla musica incisa.
Comunque, il tempo di applaudire al suo genio che, nel 2013 Spotify diventa ufficialmente attore del settore discografico, arrivando col tempo a occupare la più importante fetta di mercato. Oggi lo streaming, Spotify ne è leader di mercato, occupa all’incirca il 95% del settore, il vinile, tornato si fa per dire in auge, sopra il CD, ormai diventato oggetto quasi di culto.
Va sottolineato come, sulle prime, specie a una discografia in grande affanno, lo streaming è parsa davvero un’ancora di salvezza, niente più furti di canzoni, semmai una grande svendita, semigratuita. Il Cd è morto, riposi in pace, la pirateria divenuta inutile, visto che lo streaming è gratis o quasi gratis (e anche quello quasi gratis è spesso gratis, vedi al verbo “craccare”), così che la musica è diventata onnipresente, ma questo lo vediamo poi. Mica è un caso che le case discografiche si sono subito piegate in ginocchio di fronte alle piattaforme, così come in precedenza avevano fatto con le radio e poi coi talent. Stavolta, è chiaro, a rimetterci sono principalmente gli artisti, defraudati dei loro compensi, e ovviamente il pubblico, che ha sì la musica gratis, ma come e che musica, ma loro, le discografiche, al momento prosperano, poco conta che non guardino affatto al domani, e men che meno al dopodomani, venendo meno non solo al loro compito di fare scouting, ma soprattutto a quello di costruirsi un catalogo per il futuro (ancora oggi la discografia, anche nello streaming, si regge per circa l’85% sul catalogo, cioè sulla musica uscita in passato e uscita proprio per durare nel tempo, oggi si punta al tutto e subito, e poi amen).
Il fatto che oggi, nell’Era dello Streaming, pensate questa parte della frase cantata con enfasi, sulle noti di Age of Aquarius, dal musical Hair, si incida sul vinile, poi, capace come nessun altro supporto di rendere la profondità della musica analogica, musica digitale, attesta come si stia parlando di mode folli. Il fatto che, invece, l’arrivo dello streaming abbia per la prima volta sostituito un nuovo genere musicale, spostando sul supporto con cui si ascolta musica l’attenzione che un tempo era concentrata a ragione sulla musica stessa, invece, è la prova provata dello stato di decadenza nel quale viviamo. Lo streaming, infatti, ha ulteriormente cambiato le carte in tavola per quel che riguarda i supporti e la musica. Se con il vinile ci si era prima trovati di fronte al problema di come far entrare in quel supporto, con quella durata specifica lì, due lati con circa venticinque minuti massimo di tempo a disposizione, la musica preesistente, e poi si era cominciato a scrivere musica pensando direttamente a quel supporto e quella durata, cosa che era avvenuta anche con il CD, settantaquattro minuti, vai tu a fare un album di venticinque minuti con tutto quel tempo a disposizione, la faccenda dei volumi da tenere alti, perché il digitale alzava le frequenze oltre la soglia, lo streaming ha spostato il discorso altrove. Non esiste più un device specifico, lo stereo, quasi tutti i giovani, giovanissimi che sono fruitori di Spotify, nel tempo il mercato musicale si è rivolto sempre più spesso alle ultime generazioni, usano per ascoltare musica lo smartphone, a volte, spesso, anche senza cuffiette. Per quanto gli smartphone di ultima generazione siano evoluti, non sono stati concepiti per ascoltare musica, quindi la fedeltà del suono che permettono è relativa. Il che si traduce in frequenze alte e basse inesistenti, impossibilità di giocare con la dinamica, che sarebbe quella caratteristica di alternare suoni forti e suoni piani nei brani, la taglio con l’accetta, fedeltà nella riproduzione dei suoni piuttosto bassa. Questo, ovviamente, ha portato a una omologazione della musica, verso il basso, per di più. Quindi canzoni tutte concentrate sulle frequenze medie, col medesimo numero di battute, parlo di ritmo, e anche con melodie simili, perché avendo meno frequenze disponibili si ha anche una tavolozza con meno note da cui attingere a disposizione, come se un pittore si trovasse a dipingere usando solo due dei colori primari. La qualità è calata, e siccome nel mentre c’è stata l’esplosione dei social, Tik Tok su tutti, ecco che anche la forma delle canzoni è cambiata. Brani sempre più corti, coreografabili, con ritornelli semplici che devono arrivare dopo pochi secondi, l’attenzione è comunque scesa oltre le soglie minime. Del resto, in questi tempi, proprio grazie allo streaming, la musica è pervasiva come non mai, ovunque, in ogni momento della nostra vita, anche se con un ascolto molto meno attento, anche perché un bene gratuito pretende di suo meno attenzione di un bene che abbiamo scelto e comprato, pagandolo. E qui torniamo alla figura del critico musicale, che poi sarebbe il mio mestiere, e del perché sono stato qui a riassumervi in neanche tremila parole la storia della musica. Quando ho iniziato a scrivere di musica, per settimanali e mensili, Panorama e Tutto Musica, ascoltavo i dischi con qualche settimana di anticipo sull’uscita, incontravo chi quei dischi li aveva incisi, li recensivo prima che uscissero e, spesso, su quelle recensioni i lettori decidevano se valesse o meno la pena uscire di casa, andare in un negozio di dischi, spendere dei soldi, spesso al buio, i dischi non li si era ascoltati su Youtube o su Spotify, poi tornarsene a casa, mettere il disco sullo stereo e ascoltarselo, con calma. Erano quasi dei consigli degli acquisti, basati su un rapporto di fiducia tra chi scriveva, io, e chi leggeva, il pubblico. Ora la musica è ovunque, gratis. Il mio ruolo di critico, oggi, è tornato quello di Schumann ai tempi di Nuova Rivista di Musica, indicare talenti ancora non emersi, al limite spiegare perché questa o quella canzone, che vi piace tanto, merita in effetti di essere ascoltata o, per contro, non meriterebbe, tanto voi la ascolterete lo stesso per motivi che con la critica nulla hanno a che fare. Io, che un tempo scrivevo recensioni, quindi scrivevo di musica, ora parlo di quel che succede intorno alla musica, del sistema. Questo almeno fino alla prossima sconvolgente innovazione che, ancora una volta, scombinerà tutto. Qui tocca sempre stare sul pezzo, signora mia, di sicuro non ci si annoia mai.