
Mens sana in corpore sano.
Essendo un uomo di cinquantasei anni evidentemente sovrappeso, uno che si fa quando può, spesso, lunghe camminate di dieci chilometri, ma non pratica sport da che un brutto incidente ha interrotto a quarantadue anni una promettente carriera da calciatore, i miti del rock come spiriti guida, direi che dovrei essere del tutto incline a guardare questo antico detto latino con un certo sospetto. Sospetto dovuto al fatto che questo detto latino, in realtà, facilmente comprensibile anche a chi il latino non l’ha mai studiato, con la tipica pigrizia di chi affronta quel che è codificato come certo, neanche fosse un dogma, chi di un corpore sano fa un certo vanto, una esibizione degna del peggiore narciso, spesso a livello di mens non è che sia altrettanto esemplare, al punto da aver generato stereotipi altrettanto dati per buoni, accertati e quindi accettati universalmente.
Porto un’esperienza personale, come spesso mi capita di fare. Esperienza accaduta qualche tempo fa.
Sono in un albergo, sono le nove di mattina e sto facendo colazione al mio tavolo, mia figlia Lucia di fronte a me. La sala delle colazioni in questo albergo, evidentemente pensato per chi viene in città per lavoro, le camere hanno tutte letti singoli uso singola, è piuttosto piccola, questo benché il buffet sia assolutamente ricco, sia per quel che riguarda il dolce che il salato, una vasta quantità e qualità di frutta e servizio bar a arricchire il tutto. Ci sono sette tavolini da due, posti su due file, con su un lato disposta la frutta, un robot da centrifuga a fare bella mostra di sé, e di fronte le torte, i biscotti, i croissant e gli yogurt, e tutto quel che concerne il salato, uova sode, bacon, affettati e formaggi vari. Sempre i fronte, in alto, ci sono le bevande, succo di ananas e arancio, acqua e the, oltre che svariate tipologie di cereali e marmellate.
Siamo a piano terra, a due passi dalla concierge e dall’ascensore che porta ai piani dove si trovano le scale, la porta girevole d’ingresso sempre lì vicino.
Io ho preso un cappuccino, un bicchiere di succo d’arancio e un piccolo croissant alla crema, che la giornata sarà lunga e impegnativa, Lucia un caffè e dei cereali in una piccola ciotola di vetro.
Gli altri tavoli sono quasi tutti vuoti, c’è un nostro collega due tavoli dietro di noi, per il resto non c’è nessun altro, quando arrivano tre signori tra i cinquanta e quaranta. La parola signori va intesa come modo forse troppo elegante per dire uomini, maschi, il tipico look di chi è impegnato a fare fitness. Ho letto in rete che in città c’è una manifestazione dedicata al benessere e alla salute, immagino che i tre tizi, chiamiamoli così, siano qui per quello. Uno si è fatto una centrifuga con quasi tutti i tipi di frutta presenti sul ripiano laterale, una centrifuga che presenta tutta una serie di sfumature a decrescere che vanno dall’arancione fino al bianco sporco. Mi ricorda una fialetta di vetro, assai allungata, come quelle che usano nei centri di analisi per raccogliere il sangue, dove sono disposte in maniera altrettanto sfumate le sette terre di una determinata zona di Mauritius, un ricordo da portarsi dietro dalle vacanze.
Su un piatto ha anche disposto cinque uova sode, e ora se ne sta seduto a contemplare il tutto, manco avesse fatto un mandala coi petali di un fiore raro, pronto da essere spazzato via dal primo refolo di vento. Gli altri due sono in piedi, uno a cercare di capire cosa prendere, l’altro all’apparenza più determinato. I tizi sono vestiti tutti e tre così, canottiera di quelle ipertecnologiche, antisudorazione, pantacollant aderenti che arrivano a metà coscia, evidenziando la muscolatura della gamba e l’assenza di un pisello degno di quel nome, polsini di spugna, e calzini abbinati, scarpe da ginnastica di quelle altrettanto tecnologiche. Il terzo tizio, quello più deciso, ha appena infilato del pane nel tostapane. Attenzione, non del pane da toast, ma proprio del pane. Arriva una cameriera chiaramente di origini dell’est, forse ucraina, lo si capisce da quell’aspetto duro, la poca empatia, avrete tutti presente di cosa parlo, che gli dice che non si può mettere il pane normale nel tostapane. Il tizio risponde piccato che l’ha fatto anche ieri, e lei sottolinea che c’è scritto chiaramente in una targhetta, fatto in effetti rispondente al vero, al che il tipo replica con una frase che suona come “Ti sei svegliata di cattivo umore, oggi? È da stamattina che mi stai trattando male,” fatto che sembra cadere nel vuoto. Il tizio, mentre il pane sta continuando a tostarsi, si riempie un piatto con tutte le uova sode rimaste, una decina, poi prende un ananas e comincia una accurata operazione di sbucciatura. Prende un grosso coltello e la taglia a fette orizzontali. Poi taglia i cerchi ottenuti in tre strisce, e comincia a togliere la buccia. Sta facendo un casino inenarrabile, ma in fondo io sto qui a bermi un cappuccino, cazzi suoi. La sta tagliando tutta, e ogni fettina viene inserita con una certa precisione dentro il robot da centrifuga. Ritorna la cameriera, che dice che quella è un ananas che sta lì per decorazione, non per essere mangiata, al che il tizio sbrocca del tutto. Dice che lei lo sta vessando dalla mattina presto, che questo non c’è scritto da nessuna parte, anche se il fatto che il pane non si potesse tostare, scritto chiaramente, non ha sortito comunque alcun effetto, e che quando stamattina alle sei e mezzo ha chiesto un caffè, prima di fare allentamento, lei è stata scortese perché non glielo ha fatto, e che è una maleducata e vuole parlare con un suo superiore. La cameriera non replica, se non continuando a ripetere che non si può tostare il pane, che non si può mangiare l’ananas e che il bar apre alle sette. Il tizio continua, alzando la voce, un fastidioso accento romano a rendere il tutto ancora più pesante. Dice che lui e i suoi colleghi sono qui per lavorare tutto il giorno, e che prima di lavorare si allenano, e questo è il solo pasto che possono fare, come se la cosa avesse una qualche rilevanza per la cameriera o per noi che siamo qui in veste di involontari spettatori. La cameriera sembra essere rassegnata alla maleducazione dei clienti, quindi smette di replicare, fatto che innervosisce ulteriormente il tizio, che evidentemente non si accontenta di una resa. Chiama infatti la ragazza che sta alla reception, che nel mentre è arrivata qui col suo completo gessato. Lui ripete la manfrina, con un tono di voce sempre più alto. La ragazza ripete quello che ha detto la cameriera, aggiungendo che sicuramente la cameriera non è stata maleducata, e invitandolo a abbassare il tono di voce. Sono tentato di intervenire, ma non vorrei rendere la discussione, che di suo è una farsa, una tragedia. Il tizio chiede che la cameriera venga licenziata, giuro, dice proprio così “dovete licenziarla”. Alla replica della ragazza in completo gessato, che fa notare che non sta a lui occuparsi di queste faccende, aggiunge “o dovete impedirle di stare al pubblico, perché non lo sa fare”. Dice anche, giuro, che se non la licenziano lui e i suoi colleghi potrebbero anche decidere di cambiare albergo, il che, considerando che stando a quel che dice internet, oggi è l’ultimo giorno di questa manifestazione dedicata a benessere e salute non è opzione praticabile, la ragazza dice che di questo dovrebbe in caso parlare col direttore, perché la prenotazione dice altro. La parola direzione sembra aver attirato l’attenzione del tizio, che nel mentre deve aver bruciato il pane, di finire di pulire l’ananas si è occupato uno dei suoi colleghi, così come di farne poi una centrifuga, stavolta tutta gialla. Dice che vuole parlare col direttore, e nel dirlo alza il tono di voce, cambiando anche un po’ registro, come in genere capita ai ragazzini nell’età dello sviluppo, quando passano da toni bassi baritonali a acuti tenorili anche all’interno della stessa frase. Il tutto, immagino, è collegato alla faccenda del pisello piccolo evidenziato dalle pantacollant aderenti, oltre che agli estrogeni e agli steroidi di cui chiaramente si sarà fatto chissà da quanto tempo. Vuole parlare col direttore, tutti pensiamo per far licenziare la cameriera, e la ragazza della concierge gli da la più bella risposta che mi sia mai capitato di ascoltare di fronte alle rimostranze di un cliente, non parlo solo di alberghi, parlo di clienti in generale, “Se lo trova ci parli pure”, senza però dire dove e come trovarlo.
Questa cosa del direttore introvabile deve aver mandato in cortocircuito i pochi neuroni sopravvissuti a anni di centrifughe, anabolizzanti e allentamenti, altrimenti non si spiega come un uomo adulto possa andare in giro così conciato senza provare un profondo senso di vergogna, e come poi non provi un disagio insopportabile nel fare una fiera del genere solo perché gli è stato fatto notare che ha un comportamento da idiota. Un cortocircuito tale da indurlo a smetterla di fracassare la uallera a tutti i presenti, andando piuttosto a devastarsi il fegato ingerendo le dieci uova sode e una centrifuga ottenuta spremendo una intera ananas, lasciando a tutti noi la sensazione piuttosto precisa che tutti quei pregiudizi che da anni coviamo, legittimamente, nei confronti di chi pratica culturismo siano una delle poche certezze che questi tempi così devastati e appunto incerti non hanno mandato a farsi friggere, la mens sana andrà magari davvero di pari passo col corpore sano, ma è una mens vuota e quindi inutile, meglio tenerci i nostri corpi malconci e le nostre menti lucide, che tanto morire prima o poi si muore tutti, almeno lo si faccia da vivi. Questa faccenda dei pregiudizi che trovano riscontro nella vita reale mi permette di spostare il discorso un poco più in là, in quel campo cioè nel quale si muovo liberi proprio i pregiudizi, i nostri, che riteniamo talmente solidi da non essere mai messi in dubbio. Pregiudizi che sono quindi certezze, e che a dirla tutta non sono neanche veri e propri pregiudizi, quanto piuttosto giudizi ex post. O forse giudizi dovuti a esperienze pregresse, non necessariamente nostre esperienze. Per dire, non è che tutto quel che sappiamo è frutto di una nostra conoscenza diretta, alcune cose passano attraverso l’istinto, qualcosa legato immagino al nostro DNA, altre per passaggio di persona in persona, altre ancora per parallelismi che la nostra mente è razionalmente portata a fare. Parlo di chi non fa culturismo e va poi a rompere i coglioni alle cameriere negli alberghi, ovviamente. Provare tutto o di tutto nella vita è impensabile, oltre che inutile, credo, e dico questo da persona molto curiosa e che ha anche la fortuna di fare un lavoro che guarda alla curiosità come una risorsa.
Io, tendenzialmente, per giudizi frutto di esperienze e per pregiudizi dovuti al DNA dovendo scegliere tra un culturista e un rockettaro malconcio e maledetto non ho mai avuto dubbi da che parte stare, e anche per questo ho scolpito il mio corpo sui lipidi al suono di una chitarra elettrica distorta che si muove cupa su un incedere violento in quattro quarti.
Quindi, torno al punto di partenza, il Mens Sano In Corpore Sano da cui queste mie parole hanno mosso i primi passi è una emerita sciocchezza, stando almeno a certi standard contemporanei. E se non è una sciocchezza è pur sempre vero che dovremo ringraziare Iddio fino allo sfinimento del fatto che ci sia stata gente che quel corpo ha deciso di esporlo a ogni tipo di sostanza pur di tirarne fuori non un fisico scolpito nella roccia, quanto piuttosto quella musica che ha segnato il nostro tempo, e cosa è stato mai più significativo dell’ultimo trentennio del Novecento se non la grezza e violenta veemenza dell’heavy metal, poi metabolizzato nella grezza veemenza malinconica del grunge che da un gruppo monolitico come i Black Sabbath di Ozzy Osbourne ha preso non dico tutto, ma indubbiamente molto. Mi sono interrogato, saputa la notizia della morte di Ozzy, avvenuta a pochi giorni dall’addio alle scene, addio che poi si è appunto rivelato come addio al mondo, avvenuto sul palco di Birmingham, la sua Birmingham, avvolto dall’abbraccio non solo dei suoi fan ma anche di tanti colleghi e amici lì per rendere onore a un indubbio cattivo maestro, e mi sono detto che non volendo speculare e spesolarmi sul suo starsene lì in carrozzina, emblema di un’epica ormai passata ma ancora vividissima, era il caso di trovare una via particolarmente sghemba per esaltarne le istanze, andando a parere da tutt’altra parte per poi far detonare il tutto in un finale di partita degno della sua carriera. Quindi eccomi qui a ricordare un padre evidentemente non eterno del rock, che con i suoi eccessi, credo che scrivere di Ozzy e non citare almeno di sfuggita gli abusi con le droghe, il pipistrello morso, la colomba decapitato porti a una multa pecuniaria piuttosto ingente, e soprattutto con la sua musica, potente, cupa, distorta, per citarlo, paranoide, ha fatto da fondamenta a uno degli ultimi tentativi di creare un genere che non fosse già preesistente, lui da una parte, in buona compagnia certo, dall’altra il prog e chi comunque ambiva a una sua idea di bellezza, di rassicurante certezza. Da anni si usa chiudere i coccodrilli, così si chiamano i pezzi che piangono chi se ne va, spesso pezzi scritti per tempo, ma sfido io a pensare che Ozzy se ne sarebbe andato così a ridosso dal concerto di Birmingham, con un “la terra ti sia lieve”, espressione mutuata evidentemente da quella cultura anglosassone che vuole i morti finire sottoterra, e non in loculi cementificati come nei nostri cimiteri. Farlo per Ozzy, però, suonerebbe davvero troppo buffo, più delle sue facce stralunate, i suoi look eccentrici, i suoi occhialini tondi a provare inutilmente di nascondere le occhiaie. Continua a divertirti, Ozzy, ora hai di fronte l’eternità, e beato te che non hai mai bevuto una centrifuga in vita tua, slendida mens insana in corprore rock.