Quando pensavamo che Bob Dylan fosse un robot

L’altra sera c’era la luna piena. Lo so perché ogni volta che arriva la luna piena c’è una cantautrice di nome Vanina Vincent, italiana ma anche argentina e anche tedesca, non ho mai capito in quali percentuali, che mi manda un messaggio su Whatsapp, come un reminder, nel quale mi spiega anche di che tipo di luna piena si tratta, roba legata all’astrologia oltre che l’astronomia. Che ci fosse la luna piena, però, lo avrei scoperto comunque, perché non era nuvoloso, e quando c’è la luna piena in genere la postazione dalla quale guardo la televisione la sera, nel divano che si trova proprio di fronte alla televisione, in sala, viene invasa dalla luce chiara della luna piena, e certo che lo so che in realtà è la luce del sole che la luna riflette contro la Terra. Un effetto strano, quello della luna che illumina quasi a giorno il pavimento della sala, per altro rovinando ai miei occhi il buio che cerco sempre quando guardo la televisione, effetto strano perché le tre porte finestra della sala, due ai lati della televisione, appesa a una parete, una alla sinistra del divano dove me ne sto a guardare la tv, laterale, non usufruiscono dell’illuminazione cittadina, non più di tanto, siamo al settimo piano, i lampioni si trovano parecchi metri sotto di noi, e le abitazioni sono troppo lontane, una piazza nel mezzo, per portare ulteriore luce qui dentro.

L’altra sera, però, di luce se ne vedeva poca, nonostante la luna piena. E se ne vedeva poco perché la luna piena era di colore rosso, come nella nota canzone napoletana portata ai tempi in vetta alle classifiche di vendita dei dischi da Renzo Arbore in compagnia dell’Orchestra Italiana. Il fenomeno della luna rossa, o luna di sangue, a volerla dire come fossimo in un film horror, è dovuto all’inclinazione che la luna ha nei confronti del sole, o meglio a come la Terra si trova tra la luna e il sole. I raggi, infatti, filtrati dall’atmosfera, la Terra in parte oscurerebbe la luna, di suo, finiscono per deviarne l’angolazione, regalandole quel colore rosso così romantico e suggestivo.

Parlare di luna mi pone di fronte a tutta una serie di possibilità. Un tempo, diciamo fino all’anno in cui non sono nato, il 1969, parlare di luna, anzi, in quel caso di Luna sarebbe stato ipotizzare scenari futuri possibili, azzardare tematiche degne di un romanzo di fantascienza. Sin da sempre l’uomo sognava di metterci piede, e guardava comunque lassù con una curiosità mista a mistero, dal mito di Lilith all’Ariosto, passando per un po’ tutti gli scrittori di fantastico. E il fatto che la Luna tenesse insieme qualcosa di ancestrale, le maree, la femminilità, i lupi mannari, e al tempo stesso rappresentasse un’idea di futuro, ci dice quanto la Luna fosse in sé complessa, capace davvero di incarnare a suo modo un mistero assoluto.

Un’idea passata di futuro, quindi, proviamo a partire da qui. Che se uno ci pensa bene, in fondo, l’idea che abbiamo ancora oggi di futuro è vecchia, superata dai fatti, incontrovertibilmente impossibile da far aderire a quel che nel momento esatto in cui il passato è diventato presente e poi ieri, ci si è materializzato sotto gli occhi. Quando i fantasmi della seconda guerra mondiale hanno cominciato a diradarsi, lasciando all’uomo uno straccio di idea di futuro, l’ottimismo che oggi evidentemente è venuto meno, si è cominciato a sognare quel che sarebbe potuto accadere di lì a breve. La colonna sonora è stata identificata, per reazione a quello che passava il convento, con qualcosa legato al mondo delle macchine, è nota la storia di come sia nata la sigla di quella che a oggi è la serie tv fantascientifica più longeva, con la compositrice Delia Derbyshire a incidere una motivo di Ron Grainer utilizzando i pochi mezzi possibili ai tempi, parliamo dei primi anni Sessanta, lei che in quanto donna neanche avrebbe potuto avere accesso gli studi di registrazione, stando alle regole non scritte vigenti. Un lavoro che anticiperà quell’immaginario lì, fatto di synth e sequencer, i Kraftwerk, addirittura robotici nell’estetica, apparentemente monotoni nel modo di muoversi sul palco, a incarnare alla perfezione un’idea futuribile ancora oggi non soppiantata da nessun nuovo genere. Un po’ come la cara vecchia Luna, quindi, esiste una tipologia di strumenti, e quindi una tipologia di musica, che da quegli strumenti è abitata, che un tempo veniva indicata come musica futuristica o futuribile, e che oggi, ormai passata e degna di un revival, viene ancora associata al futuro.

Fatto di per sé curioso, come in genere si percepisca qualcosa che ci suona nuovo come altro da noi, o come si percepisca qualcosa di altro da noi come destinato a rappresentare prima o poi una novità. Tanto più che quel che oggi sembra nuovo, domani sarà consueto, e dopodomani parte del passato.

Provo a spiegare la faccenda guardando a una situazione differente, che ruota sempre intorno al mondo della musica. Perché esistono poi situazioni nelle quali quel che un tempo sembrava incredibilmente futuristico, con gli anni, è passato a risultare assolutamente il suo esatto contrario.

Nel 1965 un giovane ma già osannato Bob Dylan arriva al Newport Folk Festival, quello che ai tempi è il più importante evento legato alla musica di tradizione americano. Lui viene considerato, a ragione, un enfant prodige, ultimamente la faccenda è arrivata al cinema col film A Complete Unknown , non credo serva mettere troppi disegnini a corredo del tutto. Arriva lì dove lo attendono come un Messia, e lui, come un Messia eretico, si presenta con una band munita di chitarre elettriche, suonando una musica che potremmo indicare come rock. Un sacrilegio, accolto come un atto blasfemo, con tanto di contestazioni, insulti, lancio di oggetti. Bob Dylan diventa un reietto, e da allora per qualche tempo ogni sua apparizione pubblica verrà battezzata, scusate se continuo a flirtare con un vocabolario religioso, con contestazioni anche violente. Al punto che quando poi avrà il famoso incidente in moto, neanche troppo casualmente dalle parti di Woodstock, che del rock diventerà simbolo globale, col conseguente ritiro dalle scene nella Pink House, in compagnia della Band di Robbie Robertson, ritiro durante il quale verranno incise le canzoni poi raccolte sotto il titolo di Basement Tapes, in molti penseranno a una mossa architettata per sparire per un po’ dalle scene, altro che incidente.

Di fatto per svariati anni Bob Dylan, il reietto, scomparirà dalla scena pubblica. Niente dischi, niente apparizioni, niente concerti.

Poi nel 1975, esattamente cinquant’anni fa, dopo dieci anni dai fatti di Newport, Bob Dylan decide di tornare a suonare seriamente dal vivo, e per farlo mette su un vero e proprio circo. Nessuna metafora, parliamo proprio di carrozzoni, carovane, artisti e saltimbanchi, un circo.

Il bardo di Duluth, colui che aveva portato ben più che scompiglio nella comunità tradizionalista americana, al punto da essere in qualche modo messo al bando dalla stessa, ritorna, e lo fa in bella compagnia. Col Rolling Thunder Revue, questo il titolo del tour del 1975, Dylan torna sul palco e torna con uno spettacolo che è sì un concerto, ma è anche molto di più. Come i vecchi imbonitori che si aggiravano per il Far West provando a vendere pozioni magiche attraverso a quelli che erano chiamati Medicine Show, a essere generosi, Freak Show per tutti gli altri, il cantautore futuro premio Nobel si dipinge il volto di bianco, si circonda di circensi, ballerine, poeti e artisti e comincia a girare il paese, portando uno spettacolo che odora di vaudeville, di circo, di burlesque. Un ritorno che col tempo diventerà quel famoso Never Ending Tour che lo vede ancora oggi girare per il mondo senza sosta. Nel caso del Rolling Thunder Tour, al suo fianco, tanto per non farsi mancare niente, il poeta beatnki Allen Ginsberg, Joan Baez, il Roger McQuinn dei Byrds, Sam Shepard, T-Bone Burnett, Mick Ronson, Kynky Friedman, Joni Mitchell, la violinista Scarlett Rivera e una giovanissima aspirante attrice di nome Sharon Stone.

Uno spettacolo che suonerà a sua volta anomalo, strano, bizzarro. Uno spettacolo che molto deve a un’altra esperienza beatnik, la presenza di Allen Ginsberg non è lì per caso. Tredici anni prima, infatti, nel 1962, Ken Kesey, vera popstar della letteratura americana col suo Qualcuno volò sul nido del cuculo, uscito proprio quell’anno e poi destinato a diventare un grande film per la regia di Milos Forman, uno strepitoso Jack Nicholson come protagonista, nel proprio nel 1975, mentre Dylan andava in giro col Rolling Thunder Revue, vedi tu le coincidenze, carica un gruppo di amici su un vecchio scuolabus e decide di partire per una peregrinazione in giro per la California. Gli amici di Kesey si fanno chiamare Merry Pranksters, mentre Furthur è il nome che viene dato allo scuolabus, dipinto con colori sgargianti e psichedelici. Alla guida, ecco i beatnik, si trova Neal Cassady, il Dean Moriarty a fianco di Jack Kerouac nel romanzo On the road, a fare la colonna sonora, dal vivo, una band di nome Warlocks, di lì a breve ribattezzati Greateful Dead, Timothy Leary nei panni della guida spirituale, per quello che è un viaggio reale tanto quanto psichedelico, visto l’arrivo di una nuova droga di nome LSD. Il tutto finirà nel secondo libro di un giovane scrittore, destinato a essere la punta di diamante di quello che tutti chiameranno New Journalism, Tom Wolfe, L’acid-test al rinfresko elettriko il titolo del suo reportage. Nel caso del Rolling Thunder Revue sarà Sam Shepard a scrivere il reportage, creando una circolarità che ai tempi non venne notata, ma che è piuttosto evidente.

Bene, se il Rolling Thunder Revue è stato in qualche modo l’esplosione delle istanze che Bob Dylan aveva fatto piovere sul Newport Folk Festival, le prese di distanza da una tradizione che si era cristallizzata su se stessa, non volendo più fare i conti con la contemporaneità e la realtà, una semplice chitarra elettrica attaccata a un amplificatore come segno di una modernità che, come il progresso ai tempi della rivoluzione industriale, sembrava lì lì per spazzare via quanto di buon l’umanità aveva costruito col sudore delle proprie mani, oggi quella medesima chitarra elettrica e quell’amplificatore vengono visti dai puristi come un segno di umanizzazione estrema da contrapporre alle macchine cattive, come in un brutto romanzo di fantascienza. Da una parte, quindi, ci sono i buoni, i rockettari che suonano davvero con strumenti veri, chitarre elettriche e via discorrendo, dall’altra i cattivi, che si tratti di chi usa la temutissima AI per fare canzoni copiate da altri o chi ricorre all’autotune per risolvere evidenti carenze in fatto di intonazione. Il futuro del passato che viene oggi visto solo come passato, anzi, come cura ai mali del presente.

Tra i buoni, scopro per una di quelle casualità che casualità non sono e che attraversano i miei ragionamenti e quindi i miei scritti con una frequenza altissima, ci sono anche i Rico and the Buker Boys, che nella loro Jerry’s Band, otto minuti di brano, inanellano sessantacinque riferimenti a altrettanti brani dei Grateful Dead, l’immagine di copertina del brano è un dipinto chiaramente fatto con l’AI che mostra Jerry Garcia e soci a bordo e sopra il tutto non di uno scuolabus ma di un classicissimo furgone Volkswagen, tipo quello che in Cars si chiama Fillmore (altro nome legato al mondo del rock, mica per caso). Lo scopro per una casualità che risponde al fatto che Dean Steinhart, il Rico che da il nome alla band, mi ha scritto un messaggio su Linkedin, social nel quale non ho mai fatto un posto in vita mia, ma che per ragioni che mi sfuggono ogni tanto passo a controllare. Sul perché Dean alias Rico mi abbia scritto da Detroit per presentarmi il proprio progetto, considerando che su Spotify hanno zero ascoltatori mensili verrebbe da interrogarsi, ma non siamo certo qui per farci altre domande, non qui e non ora.

Comunque, la luna è ancora piena, anche se come astronomia vuole, comincia a esserlo un po’ meno di ieri. Tra meno di un mese sarà di nuovo lì, salvo catastrofi degne di film come Armageddon. Almeno su quello possiamo sempre far conto, e chissà se è poi vero tutto quel che si racconta succeda nella faccia nascosta.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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