Un requiem post-datato per Tom Robbins

Non c’è settimana che qualche giornalista musicale compiacente, compiacente con Carlo Conti, la Rai o la discografia mainstream, fate voi, non si impegni a scrivere il classico articoletto nel quale si cantano le gesta dell’ultimo Festival di Sanremo, i successi mietuti sul mercato dai brani presentati in gara, con le certificazioni che arrivano, si potrebbe dire, a ondate proprio per permettere questo tipo di simpatiche marchette. Poco conta che il motivo risiede in buona parte in un cambio delle regole interne alla FIMI, cioè all’ente preposto a certificare dischi d’oro e di platino, regole ora più esigenti, motivo per cui per arrivare ai dischi d’oro e di platino tocca impegnarsi di più, al punto che queste ondate in realtà nascondono risultati assai inferiori agli anni scorsi, in termini di certificazioni. Certo, è un po’ come col colesterolo, se l’OMS, qualcuno sostiene in combutta con le lobby farmaceutiche, abbassa di continuo il tasso di colesterolo tollerabile, è chiaro che ogni anno il numero di persone che soffrono di colesterolo alto sarà maggiore, non per un graduale peggioramento della salute pubblica, ma perché si è lavorato su quelle gabbie numeriche. Sarebbe come paragonare i punti fatti dalle squadre di Serie A da che per la vittoria se ne assegnano tre con quando la vittoria portava due punti in cascina, ovvio che i numeri sono clamorosamente differenti. Se gli amici a quattro zampe, cioè i miei sedicenti colleghi usi a fare un po’ troppi inchini, la smettessero di riportare dati ad minchiam, e si concentrassero su quelli reali, forse la faccenda cambierebbe, almeno in fatto di narrazione. Mi sono talmente infervorato a dire ciò che ho momentaneamente dimenticato dove volevo andare a parare, mi fermo un attimo, faccio mente locale e torno da voi. Eccomi, mi sono ricordato, son qui per denunciare un danno subito e stavo quasi per subirne un altro, diamine.

Parlavo delle marchette più o meno volontarie, a volte ho il sospetto che chi le scrive lo faccia per una forma di sudditanza psicologica, più che spinto da un ragionamento di comodo, che esaltano i risultati del Festival di Sanremo. In realtà, va detto con onestà intellettuale, sono ormai anni che in effetti il Festival sta portando a veri e propri successi, in virtù di una serie di accadimenti succeduti sotto il regno di Amadeus V, a partire dalla pandemia con conseguente blocco dei live, dal dominio assoluto dello streaming, dal fatto che, per quei due motivi, chi un tempo avrebbe bellamente snobbato la manifestazione sanremese si è trovato quasi costretto a andarci, portandosi dietro tutti gli altri e trasformando, di fatto, Sanremo in una sorta di onnicomprensiva matrice utilizzata poi con minor sforzo e attenzione sul Concertone del Primo Maggio di Roma, sul Live di Radio Italia a Piazza Duomo di Milano, sul Power Hits Estate, il Club Tenco e tutto il resto. Un tempo chi dominava le classifiche non andava al Festival, da anni i dominatori son tutti lì. Ciò nonostante Sanremo resta Sanremo, cioè un programma tv di gran successo, specie grazie al mix virtuoso di FantaSanremo e uso smodato dei social da parte dei più giovani, e noi siamo tutti lì a parlarne, io personalmente smettendo di farlo quasi del tutto a partire dalla mattina della domenica successiva alla finale. Se lo faccio ora, in realtà non è di Sanremo che sto parlando, è perché se è vero come è vero che smetto di parlarne appena è finito, cercando di evitare gli strascichi il più possibile, nelle settimane precedenti al Festival la mia attenzione è quasi tutta occupata dalla kermesse sanremese, non fosse altro perché da anni vado in riviera a fare dei format che richiedono un sacco di lavoro in fase di organizzazione. Per questo è successo un fatto che trovo gravissimo, e di cui sto appunto provando a parlare da seicento e oltre parole, preso come sono dalla foga fatico quasi a tenere io stesso il filo del discorso, la morte di Tom Robbins. Attenzione, lo dico subito, non è che lo scrittore americano è morto a causa del Festival di Sanremo, lo spettacolo in questione può sì essere mortalmente noioso, ma che io sappia nel suo caso la faccenda è andata diversamente. Però Tom Robbins è morto a novantadue anni, sì, è vero, non era giovanissimo, almeno all’anagrafe, il 9 febbraio, e io l’ho scoperto solo oggi, per di più davvero casualmente. Stavo lì facendo una mia ricerca sulla controcultura americana, argomento che mi appassiona da sempre, almeno da che ho deciso che nella vita avrei provato a fare controcultura nel nostro paese, quando mi è apparso un articolo di RivistaStudio che ne annunciava la morte. Un articolo vecchio di quasi due mesi, tanti ne sono passati dai fatti, che io ai tempi mi sono perso perché impegnato, che so?, a provare a fissare un’intervista con Rocco Hunt, capirete bene voi che tragedia.

Tom Robbins è stato uno dei massimi scrittori americani del Novecento, uno dei pilastri della controcultura americana, vera e propria popstar in patria, da noi pubblicato con costanza ma senza raggiungere i medesimi risultati di vendita. Libri quali Natura morta con picchio, Profumo di Jitterburg, Cowgirl- Il nuovo sesso o la recente autobiografia Tibetan Peach Pie sono dei veri e propri classici, al pari dei romanzi e racconti di Hunter Thompson, Richard Brautigan o di Hubert Selby Jr, tanto per dare le coordinate del mio pantheon personale. Dotato di una fantasia incredibile, unita a una affabulazione poderosa, il tutto aiutato da una vita da hippie portata avanti fino al punto di morte, più grossa della vita, direbbero proprio in America. Una sorta di prosecuzione di quello che era stato il movimento beatnik, appena con un po’ più di ironia e leggerezza, nel suo caso specifico. Tra i suoi libri ho molto amato proprio Natura morto con picchio, che partiva per la tangente dalle immagini utilizzate da una nota marca di sigarette per decorare le proprie scatole, anche se forse quello che me lo ha fatto conoscere è stato Il nuovo sesso, portato nel 1993 al cinema da Gus Van Sant con una imperdibile Uma Thurman come protagonista nei panni di Sissy Hankshaw, una ragazza dai giganteschi pollici, quindi votata per sua natura a fare l’autostop, oltre che a masturbarsi. Uma Thurman, non credo serva sottolinearlo, tra questo film, Pulp Fiction e i due Kill Bill, ma in precedenza anche e soprattutto per essere stata la Venere di Botticelli nel Le avventure del barone di Munchausen di Terry Gilliam e Cécele de Volanges in Le relazioni pericolose di Stephen Frears, Dio mio che cast con John Malkovich, Glenn Close, Michelle Pfeiffer e appunto Uma, e in seguito, perché no?, con la Edie Athens portata nel grande schermo al fianco di John Travolta, ma anche con una comparsata di Steven Tyler degli Aerosmith, in quel Be Cool tratto dal romanzo di Elmore Leonard e portato al cinema da F. Gary Gray, è in qualche modo una delle attrice feticcio della mia generazione, tanto quanto Tom Robbins ne è uno scrittore feticcio. Ovvio che usare la parola feticcio per Uma Thurman richiama subito alla mente le storie relative ai suoi piedi così cari a Quentin Tarantino, esperto del settore, ma non è di piedi che voglio parlare, non oggi. Mi sembra semmai più interessarmi sul concetto di “natura morta”, immortalato nel titolo del romanzo di Robbins, Still Life in americano, termine che ha origine nel XVIII secolo per una errata traduzione dall’olandese Still-Leven, che starebbe per “natura immobile”, da contrapporre alla natura mobile rappresentata dagli esseri viventi, umani o animali, rappresentati nei quadri, nel caso della natura morta, infatti, oggetto della pittura erano in prevalenza oggetti e frutta, qua e là qualche animale imbalsamato.

Mai stato particolarmente appassionato di nature morte, io, parlo di arte, ma di fatto ci sono almeno due libri che citano la natura morta nel titolo, e su questo mi sono a volte interrogato, noi scrittori abbiamo in effetti un sacco di tempo libero da porter dedicare a mere cazzate. L’altro libro che cita la natura morta è l’anomala raccolta di biografie di artisti jazz scritta da Geoff Dyer, Natura morta con custodia di jazz, libro che però in realtà presenta la natura morta solo nella versione italiana, l’originale si intitolava But Beautiful: A Book About Jazz. L’idea di Dyer, scrittore che ho sempre trovato più interessante da un punto di vista teorico che pratico, i cui libri cioè mi sono sempre sembrati più interessanti quando ne ho letto la sinossi o quando qualcuno me li ha raccontati di quanto non sia accaduto poi leggendoli, è a suo modo geniale: scrivere biografie inventate di famosissimi jazzisti a partire da fotografie fatte durante loro esibizioni dal vivo, nel momento esatto in cui, quindi, stavano esprimendo la loro arte, che nel jazz si esprime appunto nell’improvvisazione dal vivo.

Quanto alla natura morta in sé, dire che “natura morta” sia un concetto molto attuale, tra cambiamenti climatici e disastri ambientali tutti riconducibili a un’azione dissennata dell’uomo, è dire l’ovvio, anche se alla fine di nature morte, parlo d’arte, oggi se ne vedono pochine. Tornando al libro di Dyer, però, grande idea, meno grande il libro stesso, opinione mia. Ma comunque grande idea, che ho anche pensato di coverizzare, l’ho fatto spesso di coverizzare libri o idee di altri, sempre dichiarandolo e comunque stravolgendo e facendo miei i punti di partenza ideati da altri, penso a Tangenziali, cover di London Orbital di Iain Sinclari scritto a quattro mani da me e Gianni Biondillo, o penso a Anatomia Femminile, che era un’esplosione del concetto dietro a Patchwork girl di Shelley Jackson, per dirne un paio. La mia cover, se mai l’avessi fatta, sarebbe stata spostata nel mondo dei dj, non saprei dire quanto paragonabili ai jazzisti a livello di valore artistico, ma indubbiamente a loro volta fotografabili realmente nell’atto di creare mentre se ne stanno dietro i piatti su un palco, l’idea che le foto posate o i ritratti dipinti posati di artisti del passato fossero appunto posati, e quindi finzionali, il punto di partenza per il concept di Dyer. Il mio libro, lo avessi scritto, si sarebbe intitolato: Natura morta con vinile, o una cosa del genere. La mia idea, che ovviamente si discostava non poco da quella di Dyer, era di dare in qualche modo una qualche credibilità e nobilitazione ai dj, spesso non considerati musicisti e comunque mai visti come colleghi da chi la musica la suona davvero (lo so, sembra di essere dentro il testo di Sarà un uomo di Luca Carboni, grandissima canzone scritta nel 1985, cioè quarant’anni fa, e ancora oggi, evidentemente, attuale, nonostante fosse dedicata a un futuro figlio del cantautore bolognese, poi arrivato e oggi ventiseienne). Considerando che quando cullavo l’idea di scrivere questo progetto erano i primi anni zero e che oggi siamo qui a interrogarci sull’autotune, direi che siamo davvero una natura immobile, per dirla all’olandese del diciottesimo secolo. Che poi, a dirla tutta, fa davvero ridere come oggi come oggi, l’ho già detto più volte, venga considerata vera musica, cioè musica umana, da contrapporre a quella finta e disumana, delle macchine, la musica rock, suonata usando prevalentemente chitarre elettriche fatte suonare attraverso un mixer e degli amplificatori. Niente di particolarmente umano o naturale, per dirla col poeta, e comunque esattamente sessant’anni fa, poco meno, quando cioè Bob Dylan ebbe l’ardire di salire sul palco del Folk Festival di Newport accompagnato da una band essenzialmente rock, le chitarre elettriche laddove fino a quel momento c’erano solo chitarre acustiche o al limite classiche, successe letteralmente il finimondo. Si parlò di tradimento, la gente sbroccò di brutto accusandolo di aver bestemmiato in chiesa, e il suo nome, fino a quel momento considerato quello di una semidivinità, di colpo divenne impronunciabile, al punto che il nostro, vuole la vulgata o forse la leggenda metropolitana, neanche un anno dopo scomparì per un po’ dalle scene, ufficialmente per l’incidente in moto che avrebbe poi dato il la alle registrazioni fatte nella zona di Woodstock, dove nel mentre si era trasferito dopo l’abbandono del Greenwich Village, insieme alla Band, il tutto poi uscito col titolo di Basement Tapes. E dire che nei dodici mesi tra Newport e il misterioso incidente in moto aveva avuto modo di tirare fuori due pietre miliare della musica americana e non, Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde. Un periodo piuttosto anomalo, quello, che porterà a uno stop nei concerti lungo quasi otto anni, giusto qualche sortita pubblica qui e là, ci credo che poi è partito quello che anche oggi viene chiamato il Never Ending Tour, concerti su concerti. Su quel periodo di reclusione ha scritto un bellissimo libro Greil Marcus, critico musicale americano, La repubblica invisibile, quel medesimo Greil Marcus che ha dedicato un intero libro a un brano dello stesso Dylan, Like a Rolling Stone, anche se la sua opera più di rilievo è Tracce di rossetto, il cui sottotitolo è “una storia segreta del ventesimo secolo”. Una volta tornato in pista, nel 1973, in concomitanza con l’uscita dei due album Pat Garret and Billy the Kid, dalla colonna sonora dell’omonimo film, e Dylan, il bardo di Duluth, città del Minnesota cui Gore Vidal dedicherà un intero romanzo pseudo-distopico, agghiacciante e divertente ritratto del mondo dello

spettacolo USA, detto per inciso, non si fermerà più. Nel 1975, stavolta fuori con l’album Blood on the Tracks, Dylan darà il via al Rolling Thunder Revue, mitologico tour che lo vedrà accompagnato sul palco da Roger McQuinn dei Byrds, Joan Baez, oltre che Allen Ginsberg e Sam Shepard, in una sorta di spettacolo circense entrato di diritto nella storia della cultura novecentesca. Da quel magico tour verrà tratto un film, diretto da Martin Scorsese, che poi filmerà anche The Last Waltz, addio alle scene della Band di Robbie Robertson, e un libro a firma di Sam Sheppard, a sua volta vero gigante della narrativa e della drammaturgia americana del secolo scorso.

Ancora una volta controcultura, quindi, che poi è esattamente il punto da cui tutto questo mio scrivere oggi è partito, solo incidentalmente qualcuno avrebbe potuto pensare io volessi parlare davvero di Sanremo o dell’autotune, Dio Mio.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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