Piacere, Kayla Trillgore. Fuori la terza parte di Tragedy of the Body

Esiste una frase attribuita a Duke Ellington che recita, suppergiù, “esistono solo due generi musicali, musica bella e musica brutta”. Il che attesta che anche un grande genio come lui potesse dire emerite cazzate. O che quella frase in effetti non l’ha mai detta, vallo a sapere. Nel caso di un’altra famosissima frase, attribuita a Frank Zappa, genio decisamente non da meno di Duke Ellington, “scrivere di musica è come ballare d’architettura”, coadiuvata dall’altro aforisma “i giornalisti musicali sono persone che non sanno scrivere che intervistano persone che non sanno parlare per persone che non sanno leggere” è noto che non sia abbia evidenza storica che di sua vera affermazione si tratta, ma è altrettanto noto che una bugia ripetuta più volte diventa realtà, quindi tant’è. Tutte queste frasi, di fatto, parlano a loro modo di critica musicale, perché i generi sono convenzioni un tempo utili ai negozianti, che così sapevano in che scaffali infilare i vinili di determinati artisti, ma nate per comodità dei critici, che così non dovevano star lì a faticare troppo per far capire al lettore di che tipo di musica stava parlando. Tornando però a Duke Ellingston e al suo proclama a effetto, è evidente che esista la bella e la brutta musica, come del resto esiste una musica che si trovi esattamente a metà strada, ma è pur vero che a parte le macro definizioni, come musica come arte e musica come intrattenimento, a loro volta divisibili per bella musica come intrattenimento e brutta musica come intrattenimento, ci sono ulteriori divisioni possibili, fatte proprio a partire da quelle convenzioni, quelle categorizzazioni che tutti, critici musicali e semplici ascoltatori, riconoscono come generi musicali. Questo lasciando fuori da questo discorso la faccenda sull’oggettività e soggettività riguardo la musica, discorso complesso e nei confronti del quale suppongo di trovarmi d’accordo col vecchio Duke, per il resto riposa in pace.

Oggi come oggi di musica ce n’è indubbiamente troppa, e tutta o quasi disponibile gratuitamente, quindi il problema non è solo stabilire quale sia bella musica e quale no, ma anche semplicemente intercettarla, lasciandola almeno per qualche istante emergere dal gigantesco calderone che la contiene. Un tempo la musica pretendeva attenzione, perché per ascoltarla toccava mettere un vinile sopra un piatto e stare lì all’ascolto. Oggi è pervasiva, invasiva, ovunque. La possiamo ascoltare con gli smartphone, sempre e quasi sempre male. E se anche non volessimo farlo è quasi impossibile aggirarsi per una qualsiasi città senza essere letteralmente circondati da canzoni di varia natura. Questo rende gli ascolti sempre più distratti e frammentari, per non dire inesistenti, la musica diventa anche meno di un sottofondo, finendo per scomparire, a volte senza neanche aver dato segno di sé. Gli artisti, specie quelli emergenti e indipendenti, sanno quindi che il loro essere artisti non può fermarsi al semplice fare musica, che di per sé è faccenda piuttosto complessa e ambiziosa, ma devono cominciare a ragionare anche come comunicatori e esperti di marketing, ragionando costantemente su come porsi al centro dell’attenzione dei propri ipotetici ascoltatori, nel caso del pop addirittura di tutti gli ascoltatori. Una faticaccia, un lavoro improbo, che prevede competenze che spesso chi vorrebbe fare canzoni non è tenuto a avere, e che se affidate a terzi finiscono per prosciugare la parte più importante di qualsiasi budget, rischiando di vedere investimenti importanti per la veicolazione di un progetto sui social a fronte di investimenti risicati in studio di registrazione.

Quando quindi sentiamo Daniel Ek, CEO di Spotify, in un’ipotetica nuova Norimberga, virata sulle musici, colui che per primo dovrebbe salire al patibolo per aver appiattito a furia di algoritmi e ascolti fatti male la musica che gira intorno, dichiarare che i cantanti dovrebbero mollare ogni idea relativa alla produzione di album per concentrarsi sul pubblicare una canzone al mese, in barba all’arte e all’ispirazione, dobbiamo anche pensare a che tipo di sforzi creativi un lavoro che preveda costanti picchi verso l’alto deve contemplare. Ogni santo mese una nuova canzone sul mercato, con una idea geniale per farla emergere in quella galassia di uscite, un’idea in grado di farla emergere e farla attecchire, roba complicatissima. Non che lavorare su progetti più articolati sia più semplice, intendiamoci, lì gli sforzi sono tanti per creare un repertorio coerente e di livello, pur prevedendo quei brani in grado di far conoscere alcuni aspetti dell’artista altrimenti destinati a rimanere sommersi, brani comunque non destinati a essere singoli, quindi non altrettanto performativi sul breve dei singoli, e la progettualità di comunicazione e di marketing deve essere più solida, perché durare per più tempo, ma può giocare su sfumature di una medesima idea, creare collegamenti, procedere per step, giocare su ritmi tantrici piuttosto che trasformare la programmazione in una infinita gang bang.

Tutto questo deve esserselo detto Kayla Trillgore, cantautrice in chiave electropop già conosciuta con brani quali Nerodenso, LONTAN999, Priest, nel momento in cui ha deciso di lavorare sull’EP Tragedy of Body, letteralmente la tragedia del corpo. L’artista italo-rumena, cantante e produttrice che appoggiandosi sull’esoscheletro dell’elettronica ama spaziare tra il dark e il metal, ha infatti costruito un castello, ovviamente stregato, intorno al corpo e al corpo di donna, pensando quattro brani e di conseguenza quattro capitoli di un percorso che comincia con la nascita, Birth il titolo del brano d’apertura, e arriva alla morte, il quarto capitolo è Death_Meta, passando per il dolore di Split e il piacere di Mmmelt. Un viaggio corporeo, quindi, ma al tempo stesso esoterico e mentale. Ma siccome, appunto, far emergere la musica indipendente oggi è difficile, se non impossibile, ecco che la nostra ha partorito un’idea importante, legare l’uscita dei quattro singoli capitoli, da intendersi appunto come singoli, a altrettanti numeri di un Art Magazine dal titolo omonimo, nel quale arti figurative, approfondimenti teorici e suggestioni di varia natura trovano asilo, a compendio dei singoli brani. La trovate qui https://tragedyofthebody.bigcartel.com/. L’art work della copertina, poi divisa nelle quattro immagini legate alle issue dei quattro singoli, è di Laura Tura, artista interessantissima che vi invito a seguire, mentre al fianco di Kayla Trillgore per la direzione artistica delle zine ci sono Leonardo D’Isidoro e Zeno Mora. Un lavoro interessante, che va di pari passo con la parte musicale, difficilmente indicabile in questo contesto come il “core business” dell’operazione Tragedy of the Body, ma sicuramente il punto di partenza di tutta questa operazione. Kayla, ne parlavo proprio qui, dove mi soffermavo su Dada Sutra, altro nome da tenere d’occhio in questi tempi agonizzanti, è una vera artista, capace di intrattenere, le sue performance live sono ipnotiche, oscure, a tratti anche violente, ma comunque a alto tasso emotivo, un’artista con un respiro internazionale, uno sguardo profondo e la voglia di portarci in quelle profondità con lei. Parlare di corpi, nell’epoca della bidimensionalità apparente per antonomasia, tutti siamo più quello che mostriamo si potrebbe quasi concludere, è una scelta di campo precisa, un tempo si sarebbe detto politica. Parlare di piacere e di piacere declinato al femminile è forse addirittura eversivo, ricordiamo bene tutti cosa succedeva alle donne che provavano a uscire dal recinto circoscritto nel quale era un tempo loro consentito muoversi, i roghi delle streghe prima vera forma di misoginia cavalcata come fosse un vanto, eversivo quanto necessario. Non a caso in questo terzo numero dell’art zine si parla di icone, stavolta non pi concentrandosi sulle madonne quanto piuttosto sulle puttane, così come di erotismo, di modificazioni corporee intese come di colpevolizzazione della donna per i suoi ruoli di potere, una donna dominante e padrona del proprio piacere è ancora oggi vista come sbagliata, capace di proiettare un alone di paura sul maschio, checché il successo recente di maschi non tossici quali Lucio Corsi o Brunori SaS possano lasciar intendere. Un progetto ambizioso, Trageddy of the Body, indubbiamente, e già solo per questo meritevole di quell’attenzione che la logica di Daniel Ek non ha preso in considerazione dando vita alla sciocca teorizzazione del singolo ogni mese, ma soprattutto un progetto molto interessante, profondo, dove la musica, perfettamente in bilico tra inquieto spirito dark e sensualità dirompente, fa da traino, e la parte affidata all’art zine omonima permette un’esplosione di possibilità, costellando di punti di domande la nostra ormai abituale distrazione quotidiana. Non saprei dire se è questa l’idea di piacere che ho in mente, quando penso al piacere, ma so che quello strano senso di disagio che ho provato ascoltando Mmmelt e leggendo e guardando il terzo numero di Tragedy of the Body è stato qualcosa di intenso e inatteso, come l’affacciarmi per qualche istante in un mondo che non sono neanche sicuro di aver mai preso in considerazione. L’arte, quella bella, direbbe Duke Ellington, serve anche a questo, a consentirci delle possibilità inattese. Evviva Kayla Trillgore, quindi, cantante, producer, musicista, artista, strega.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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