
La musica è senza ombra di dubbio la forma d’arte più immediata. Quella, cioè, che arriva comunque a parlare alla gente senza che la gente sia necessariamente educata a comprenderla. Quella, addirittura, che arriva alla gente quando la gente non è necessariamente pronta a riceverla. Sei in giro per strada, magari trafelato perché stai andando da qualche parte e sei in ritardo, hai qualche preoccupazione che ti fa stare con la testa da un’altra parte, quel che è, quando a un certo punto qualcuno esce da un negozio, lasciando che dalla porta aperta arrivino le note di una canzone. Ecco, è lì, in quel momento che la canzone vi rapisce e vi porta altrove, vi accende un ricordo, tira fuori da qualche parte dove il vostro subconscio l’aveva nascosto, vi scatena un’emozione. È una questione di pochi secondi, ma la musica è aerea, supera ogni ostacolo, se deve arrivare arriva. Certo, potrebbe accadere anche con l’arte visiva, col cinema, con la scultura, la poesia, ma converrete che per ovvi motivi il discorso è sempre un po’ più complicato. E certo, non è neanche vera la faccenda che l’educazione all’ascolto sia irrilevante, perché certa musica, più complessa e volendo anche più alta, la classica, il jazz, necessita sì di educazione per essere compresa, decifrata, il rischio altrimenti quello di risultare incomprensibile, indigesta. Esatto, indigesta, perché il parallelo con il cibo è piuttosto stringente, abituati come siamo a mangiare cibi confezionati, coi sapori omologati e facilmente riconoscibili, qui come in altre parti del mondo, quando ci troviamo davanti qualcosa di genuino, il noi che sto usando è ovviamente un noi generico, rischiamo di non riconoscerlo e di non accettarlo, finendo per scegliere di mangiare qualcosa di minor valore, o peggio, meno sano, in qualche modo contribuendo pasto dopo pasto a analfabetizzarci gastronomicamente. Lo stesso succede con la musica, è evidente. A furia di ascoltare robaccia è solo la robaccia che accettiamo, rifuggendo da tutto ciò che esca dai canoni, dai canoni del mainstream, discorso che è assai peggiorato da che è l’algoritmo non solo a dettare le nostre scelte in fatto di ascolti, ma anche il gusto estetico di chi la musica la fa, pena il non finire nelle playlist. Ma più in generale rimane vero che la musica è una forma d’arte, un transfert immediato. Come succede all’aria, incapace di arginarla e relegarla in un angolo di una stanza.
In questo panorama, fatto sì di immediatezza, ma anche di appiattimento, chi come me passa parte della giornata a ascoltare musica non di sfuggita, ma con l’attenzione dovuta al proprio mestiere, non può che cercare salvezza nei dettagli, nelle sfumature, finendo per accontentarsi spesso di aspetti che potrebbero apparire irrilevanti a orecchio umano, come i suoni infrarossi percepibili solo dagli animali, i medesimi in genere che raccontiamo quando sono i cani di un determinato luogo a percepire per primi l’arrivo di un terremoto, provando a mettere in salvo i loro stupidi padroni.
Credo ci succeda, stavolta il noi è rivolto appunto a chi si occupa di musica per mestiere, ma magari il discorso è estendibile anche a chi lo fa con estrema passione, dedicandovi qualcosa in più di una semplice porzione di tempo libero, credo che ci succeda, quindi, come a chi è appassionato di calcio, passione che risale a quando era piccolo, e di fronte al calcio moderno, iperfisicizzato, con schemi e strategia tirate all’estremo, quasi che una partita sia paragonabile a una di quelle che si possono fare con la PES, dove sono certe giocate funamboliche, lasciate all’estro di qualche raro campione eccentrico, a tenere in vita l’attenzione. Nella prevedibilità di uno schema che fronteggia un altro schema, ripetendosi ad libitum, direbbe un vecchio spartito, minuto dopo minuto, un guizzo diventa una boccata d’aria necessaria, un pezzo di legno della nave che sta affondando che rimane a galla nel gelo circostante, anche se poi sappiamo bene che fine fanno molti di quelli aggrappati con ostinazione a quei pezzi di legno, abbiamo tutti visto Titanic.
Chi ama la musica finisce quindi più per apprezzare i dettagli che il quadro d’insieme, essendo spesso il quadro d’insieme qualcosa di irricevibile, sciatto, scontato, banale. Una citazione, e da che il postmoderno ha elevato la citazione a forma d’arte a se stante le citazioni sono praticamente ovunque, anche quando citazioni non vorrebbero essere ma veri e propri furti, plagi, appropriazioni indebite di guizzi altrui, il postmoderno è stato da tempo archiviato, mentre l’assenza di originalità è diventata d’uso comune, una citazione ci scatena gli ormoni come neanche una scollatura ai tempi delle medie, come se fossimo stati in grado di riconoscere un linguaggio cifrato che ci indica l’esatta posizione del nemico durante un conflitto, laddove spesso è semplicemente la ricerca di una strada sicura, sicura in quanto già percorsa prima da altri. Un giro armonico che ci arriva familiare, in quanto abusato, su cui non sarà poi possibile costruire una melodia originale, perché a furia di restringere gli spazi i movimenti fattibili sono sempre di meno e sempre quelli, ci spinge comunque verso un moto emotivo quasi irrefrenabile, come se fossimo stranieri in terra straniera e ascoltare qualcuno parlare la nostra lingua avesse il potere di riportarci per qualche istante di nuovo a casa. I dettagli, ripeto, sono importanti, spesso molto più di quel che succede nei restanti novanta minuti di gioco. I guizzi diventano addirittura vitali, salvifici. Di tutto un torneo, metaforizzo ancora usando il calcio, resta un momento iconico, Dio mio a breve la parola iconico farà la fine di tutte quelle altre che abbiamo slabbrato fino a renderle inutilizzabili, resilienza, sostenibilità, forse anche patriarcato. Vinciamo un mondiale, per quelli della mia generazione il tutto si è cristallizzato l’11 luglio del 1982, e quel che rimane è la corsa a pugni chiusi di Marco Tardelli, talmente forte da annullare i suoi passaggi come commentatore in Tv, la sua storia con Myrta Merlino, tutto quello che è avvenuto dopo. In alcuni casi, penso sempre al calcio, l’iconicità è addirittura rimasta fuori dal campo, Paul Gascoigne che si presenta nudo e coperto di bagnoschiuma di fronte a un basito mister Dino Zoff, che gli aveva intimato di scendere subito nella hall dell’albergo nel quale la Lazio era in ritiro, tutti a aspettarlo per andare allo stadio, l’aggressivo atteggiamento da bullo di Zlatan Ibrahimovic nei confronti di Sacchi in una delle sue prime interviste con la maglia del Milan, quei gesti destinati a darci ossigeno mentre boccheggiamo in apnea.
Ok, dirà qualcuno, perché a un certo punto c’è sempre quel qualcuno lì, il primo che si spazientisce e pretende di sapere subito dove il tuo discorso vuole andare a parare, la fretta è cattiva consigliera, ci dicevano da piccoli, e la gatta frettolosa ha fatto i figli ciechi, detto che suppongo faccia riferimento a qualcosa che, parlando di gatti, mi sfugge, ma è pur vero che vi ho tenuto qui già per millecentoquarantadue parole, direi che forse quel qualcuno potrebbe aver anche ragione di reclamare una conclusione sensata, non bastasse il viaggio e ci si volesse banalmente concentrare solo sulla meta finale, ok, quindi, dirà qualcuno, ma tutto questo parlare di immediatezza della musica, ma anche di omologazione della musica contemporanea, e di questo ipotetico attaccarsi ai dettagli, ai guizzi, come ancora di salvezza nel bel mezzo di un naufragio, un naufragio non certo in luoghi esotici, come quello del Bounty, tutti a godersi la vita come in un quadro di Gauguin, il Paradiso Terrestre trovato per caso, un naufragio nei mari ghiacciati, tutto questo cianciare, in pratica, per dire cosa? Per dire che della musica, oggi come oggi, credo sia da salvare ben poco, questo del resto ci dice anche una fuggevole analisi del mercato, laddove il repertorio, che spesso affonda le radici negli anni Sessanta, parliamo ahinoi di sessant’anni fa, è quello che tiene in piedi la baracca, la contemporaneità destinata a una veloce e indolore comparsata, senza neanche il nome nei titoli di coda.
Per qualche giorno, a metà febbraio, ci siamo ritrovati tutti a parlare del Festival di Sanremo, per gli addetti ai lavori più una fiera di settore che una kermesse canora, e ci siamo esaltati o irritati per le canzoni in gara, ventinove, un numero abnorme a pensarci bene. Canzoni che poi hanno spiccato il volo, ci hanno tenuto a raccontare uffici stampa e discografici, la FIMI lì a brindare per l’ingresso nelle Charts Global di alcune delle canzoni in gara, il solito Olly, Giorgia, Fedez. Numeri strabilianti, ci hanno raccontato, e in effetti durante il Festival un po’ tutti abbiamo avuto la sensazione che ormai da anni il livello medio delle canzoni sia cresciuto, vuoi perché il Festival è diventato una parte fondamentale del calendario musicale, non più soltanto un appuntamento per chi nel resto dell’anno se ne stava a casa con le babbucce e il pigiama comodo, vuoi perché, di conseguenza, è al Festival che negli ultimi anni hanno guardato coloro che poi in classifica ci stavano anche a agosto o ottobre, finendo per trasformarlo nella versione invernale di Power Hits Estate, o comunque in una tappa fondamentale della conquista dell’impero. Però, diciamolo con voce stentorea una volta per tutte, di queste ventinove canzoni, come delle trenta dell’anno scorso e via discorrendo, a ritroso come nel romanzo di Huysmann, poco rimane. In fatto di numeri, perché quei milioni, miliardi di streaming sono spesso distratti, irrilevanti per le vite di chi li pratica, e in fatto di cultura popolare, perché quando ci si analfabetizza, è un fatto, si finisce per trattenere poco o nulla di quel che ci passa sotto gli occhi e gli orecchi, non a caso analfabetizzare un popolo è il primo passo per renderlo innocuo, mansueto, schiavo.
Se penso all’ultimo Festival, e per varie questioni mi capita ahimé di farlo spesso, vuoi perché in queste settimane stanno uscendo e usciranno gli album degli artisti che vi hanno preso parte, alcuni dei quali suppongo daranno il meglio di sé sulla lunga distanza, vuoi perché ci ho lasciato parte delle mie energie vitali, ormai ho una certa e aver intervistato, a vario titolo, circa novanta persone durante sette giorni sarà pur costato qualcosa in termini di energia, vuoi perché tornato ho mollato il magazine col quale c’ero stato, come anche nei due anni precedenti, iniziando questa nuova collaborazione che vi ha portato a leggermi qui, se penso all’ultimo Festival di Sanremo non posso che avere di fronte agli occhi due o tre immagini, decisamente meno suoni. Certo, il Festival è un programma tv, normale che il lampo arrivi prima del tuono, ma è pur sempre un programma incentrato sulle canzoni, Houston abbiamo un problema. Così ecco che dovessi salvare qualcosa per metterlo in una capsula destinata a Marte, così che i marziani, povere anime, sappiano a cosa andranno incontro una volta arrivati, spero cattivi come quelli di Mars Attack di Tim Burton, qui da noi, ci metterei senza ombra di dubbio due passaggi della prima esibizione di Lucio Corsi, inutile dire che è lui il vero vincitore di quest’anno, nello specifico il piede tenuto sotto il culo, con grande naturalezza, mentre suonava il pianoforte nella prima parte dello show, e il microfono infilato per qualche secondo sotto braccio verso il finale, giusto per fare un breve assolo alla chitarra elettrica, altro momento di grande naturalezza, certo studiata, quindi in realtà assai poco naturale, ma interpretata alla grande. Poi ci metterei anche il cappello di Neffa indossato con arroganza, così da non mostrare bene il volto, gli occhi nascosti dall’ombra. Un modo per dire, sono qui ma è come se non ci fossi, se non per quel che rapperò, e Dio mio come ha rappato Neffa sulle note della sua Aspettando il sole, Shablo, Guè, Tormento e Joshua giustamente incantati al suo fianco, forse la migliore performance nella serata dei duetti. Per narcisismo ci metterei anche la mia faccia, intesa proprio come la mia faccia su una spilla, niente metafore, addosso ai cinque Modà, Kekko in testa, sempre nella serata dei duetti, modo per omaggiare chi ai tempi ha interpretato l’angelo nel videoclip del brano vincitore del Festival 2005, Angelo di Francesco Renga, incidentalmente sempre io, ma questo è davvero un dettaglio personale, e il fatto che lo abbia flexato qui è un guizzo dedicato solo a chi apprezza anche il mio essere in fondo un po’ una rockstar tra i critici musicali, l’aspetto ci dice qualcosa.
Poi, volendo giusto lasciare che anche l’orecchio abbia la sua parte, citerei lo special del brano La cura per me di Giorgia, un passaggio assai complicato che la nostra ha portato a casa dimostrando in pochi secondi come sia senza ombra di dubbio la migliore cantante italiana, rime strettissime senza spazi per prendere fiato, e poi il riff di tastiere del ritornello del brano di Rose Villain, Do-Fa-Re-Re#, quelli nel quale fa l’iconico, aridaje, gesto del graffio, un gradino sotto il simbolo del cuore coreano fatto da Serena Brancale o le mani incrociate sul microfono di Elodie, parlo di iconicità visiva, come il passaggio al gospel verso il finale, i testi dei brani di Willie Peyote, di Lucio Corsi e di Brunori SaS, il mood new wave del tormentone assoluto di quest’anno, Cuoricini dei Coma_Cose, davvero poco altro.
Molte discipline orientali, come lo yoga o certe arti marziali, dicono che concentrare lo sguardo su un determinato punto è fondamentale, vitale, la radice su cui costruire la nostra stabilità, ditemi voi se deve essere il cappellino di Neffa calato sugli occhi mentre è sul palco dell’Ariston a dovermi salvare, oggi come oggi, dal naufragio del Titanic.
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