
Non ho un ufficio tutto mio. A dirla tutta non ho neanche uno spazio in casa tutto mio, da che il Covid col lock down conseguente ha trasformato lo studio di casa nell’ufficio da dove mia moglie Marina pratica lo smart working, per parte della settimana. Ma anche potendo usufruire di quello spazio, quando lei non c’è, come del tavolo della sala, volendo anche di un tavolino che ho in uno dei balconi di casa, quello che punta verso i monti, bel panorama e zero traffico nella via sottostante, è proprio un ufficio che non ho. Stavo per scrivere mi manca, e in effetti la frase “è proprio un ufficio che mi manca” suona meglio di “è proprio un ufficio che non ho”, solo che mancare è un verbo bastardo, che lascia intendere sia l’assenza oggettiva, non ho un ufficio, l’ho detto, sia emotivo, sento la mancanza di qualcosa o di qualcuno, e a me non avere un ufficio dove andare non manca affatto, ho scelto ventuno anni fa di non averne più uno e anche quando ce l’avevo, in Mondadori, ci andavo quando volevo, senza alcun obbligo a riguardo. Non ho quindi un ufficio tutto mio, e me ne rendo conto quando devo incontrare qualcuno per lavoro. Potrei invitarlo a casa, perché spazio ce n’è, ma la casa è casa, e per quanto io sia uno che lavora a casa l’idea di trasformarla in un posto dove incontro gente per lavoro proprio non mi piace. Lavorando poi spesso con donne, da anni monitoro con particolare attenzione il mondo del cantautorato femminile, e per questo mi capita spesso di incontrarne per farci quattro chiacchiere, l’idea di invitare una cantautrice a casa mi sembrerebbe davvero disdicevole, non fosse altro perché apparecchierebbe delle ambiguità che rifuggo con tutto me stesso, per i motivi che proprio da queste parti nei giorni scorsi ha evidenziato Lucia (qui https://361magazine.com/giornalisti-che-abusano-del-loro-potere-e-storie-di-mele-marce/).
Non avendo un ufficio tutto mio, quando si tratta di incontrare qualcuno, opto in genere per un locale, uno di quelli che sorgono nel mio quartiere, diciamo che amo propormi come uno scrittore e critico musicale a chilometro zero. Comodo, per me, non sempre per gli altri, ma ho deciso di passare per quello asociale, appartato, che non è mai presente e che si fa desiderare, potrò almeno godere dei vantaggi del caso o mi devo beccare solo gli svantaggi? Ce ne sono due in particolare dei quali usufruisco più spesso, uno per i mesi invernali, al chiuso, uno per quelli col bel tempo, all’aperto. Quello all’aperto è davvero a chilometro zero, quasi a metro zero, praticamente di fronte a casa mia, cosa che in genere mi guardo bene dal comunicare a chi incontro, non per una faccenda di privacy, ho comunque evitato di mettere il mio nome nel citofono, sono praticamente introvabile, quanto piuttosto per non far capire troppo, scrivendolo oggi ho svelato l’arcano, che sarei potuto andare all’appuntamento anche in pantofole, mentre chi ho di fronte magari ha attraversato tutta la città. Succede, sono asociale, prendere o lasciare.
Oggi mi sono visto con una cantautrice e musicista, Diana Winter, al momento a Milano per l’allestimento del tour di Giorgia, con la quale collabora da un sacco di anni, prima come corista, poi come corista e chitarrista. Lei è di Firenze, quindi non avrebbe comunque avuto un posto del cuore, perché non proporle il solito bar sotto casa? Anche perché son giorni incasinatissimi, non avrei avuto modo di incontrarla dovendo mettere in conto anche di dovermi spostare. Nel locale in questione, però, oggi c’era un po’ di confusione, molto più che nel solito. In genere, per capirsi, ci sono alcuni anziani, sempre gli stessi, compreso quello che abita lì sopra e si è convinto, complice il mio farglielo credere, che io sia Stefano Bollani, sono cinque anni che vivo nella menzogna, e ci sono famiglie coi figli o studenti del vicino Politecnico. Oggi c’era un mondo di gente, computer accesi, cavi che passavano a destra e sinistra. Il motivo, mi hanno spiegato, è che nella parte non aperta al pubblico, in pratica il forno, perché il locale in questione è un forno, pasticceria e bar, tutto insieme, stanno girando uno spot. Sono due giorni che stanno girando uno spot, e dire che io ero qui proprio due giorni fa per un’altra riunione, evidentemente li ho schivati per poco. Oggi stanno facendo riprese da prima dell’alba, partendo da un concept molto interessante, che mi guardo bene dal raccontare, no spoiler, anche nel campo dell’ADV. Difficile, in genere, trovare spot interessanti, oggi. Parlo per il mio gusto, sia chiaro. E considerando che non guardo praticamente la tv, se non le piattaforme dove gli sponsor non ci sono, parlo anche un po’ tanto per parlare, ma vedo una certa omologazione verso il basso, in genere, sapere che c’è ancora chi ci mette passione e idee, pur lavorando in un mondo malefico come quello delle pubblicità, è rincuorante.
A questo punto, suppongo, stando agli standard di chi scrive, non che io segua molto gli standard degli altri, si sarà notato, dovrei iniziare a parlare di Diana Winter, che ha appena tirato fuori un bellissimo EP registrato in presa diretta, registrazioni sia audio che video che pescano nel suo vecchio repertorio, dove il suo essere cantautrice, ma anche musicista, emerge in tutta la sua cristallina bellezza, Raccolta di suoni Vol. 1 il titolo, Heavy on my heart il singolo di lancio e How Will I Know di Whitney Houston la sola cover presente, perché una artista che si prende il suo tempo e insegue solo l’arte, non disdegnando la possibilità di entrare nel mercato, sia chiaro, ma tenendo l’arte al centro del proprio mirino, andrebbe esaltata fino allo sfinimento, la consapevolezza che per farlo sia necessario starsene in qualche modo a sua volta appartata, senza che siano gli altri a indicare la via a garantire che al centro dell’attenzione ci siano solo le canzoni, fatto in apparenza scontato, ma non poi così comune nella nostra discografia. Dovrei, ma io sono uno che racconta storie, non un giornalista, se proprio devo prendere una direzione preferisco scartare continuamente di lato, piuttosto che procedere per una linea retta. E lo scarto di lato che quanto scritto fin qui mi propone, anche in virtù del nostro reciproco arrivare dalla provincia, mio e di Diana Winter, Winter alla tedesca, non all’inglese, niente inverni coi ventotto gradi che fanno oggi a Milano, Winter come l’omonimo calciatore in forze all’Ajax, alla Lazio e l’Inter, Olandese originario del Suriname, quanti mesti e vergognosi cori dalle tifoserie della quadra di Roma, sua mamma, sua mamma di Diana, austriaca, lei fiorentina di Firenze, lo scarto di lato dato dal nostro essere provinciali, dicevo, mi riporta a un mondo, quello delle pubblicità, col quale siamo cresciuti, io del 1969, lei del 1985, un bel gap anagrafico, e nel quale abbiamo immerso i nostri sogni prima che la vita fosse qualcosa con la quale fare i conti in prima persona, una vita che evidentemente scorreva altrove, fuori dalla provincia, lontano dalla periferia. Certo, c’era stato un momento, quando io non ero nato o ero troppo piccolo per comprendere, nel quale le pubblicità provavano a essere altro da un mero veicolo per vendere prodotti, quanto piuttosto opere d’arte il cui scopo era quello di esserci, di incantare, in fondo anche così si possono fabbricare sogni che poi puoi trovare dentro un negozio. Mi è capitato l’altro giorno sotto gli occhi una vecchia pubblicità del 1967, due anni prima che io nascessi, un lungo spot della Barilla, uno spot evidentemente ideato per Carosello, che degli spot, e che spot, era contenitore sin dal 1957, e per venti anni interi. Nello spot, in bianco e nero, in mezzo a un mare di palloncini bianchi, o comunque chiari, il bianco e nero non lascia spazio a troppe interpretazione, c’era una Mina, intesa come Mina Mazzini, la voce, che si muoveva cantando come solo lei sapeva e sa fare Mi sei scoppiato dentro il cuore. Mina è vestita di nero, e ha sulle spalle e sulla testa una sorta di ramificazione, a metà strada tra la Maleficient portata molti anni dopo sul grande schermo da Angelina Jolie e l’albero della vita che nel 2015 animerà l’Expo milanese. Mina si muove, gli occhi giganteschi che incantano, la forma perfetta, evidentemente dieci anni dopo cambierà idea riguardo l’apparire, e canta, come solo lei sa fare. Canta una canzone che è praticamente perfetta, come parte del repertorio della Tigre di Cremona, così la chiamavano ai tempi, per distinguerla dalla Pantera di Goro, Milva, e dall’Aquila di Ligonchio, Iva Zanicchi. La canzone, scopro andando a spulciare in rete, più che scopro vorrei dire rammento, perché in realtà già lo sapevo, per la parte testuale porta la firma di Lina Wertmüller, la regista, mentre per la parte musicale del maestro Bruno Canfora. Usava, ai tempi, che a scrivere le canzoni fossero anche persone occupate per il resto in altre attività, pensiamo a Se telefonando, sempre di Mina, scritta per il testo da Maurizio Costanzo, a La Lontananza di Domenico Modugno, scritta per il testo da Enrica Bonaccorti, o, per rimanere a Mr Volare, a Cosa sono le nuvole, interamente scritta per il cantautore pugliese da Pier Paolo Pasolini. Altri tempi, nei quali essere artisti a tutto tondo era evidentemente plausibile, non che il Rinascimento fosse poi così più vicino che ora, e che in effetti ha segnato indelebilmente la storia della nostra cultura popolare. Tutto questo per dire ho scoperto, confesso non spulciando casualmente in rete, sempre che esista una qualche ricerca fatta in rete che sia ascrivibile alla voce “casualmente”, e non risponda piuttosto a quella peregrinazione psicogeografica che l’andare alla deriva porta sempre con sé, conoscenza imprevista e anche per questo più ricca di quella cercata con ostinazione, ho scoperto, dicevo, che parte del repertorio anni Sessanta di Mina, sempre sul fronte testuale, e non solo di Mina, porta la firma di un mio concittadino, mi piacerebbe poter dire illustre, Antonio Amurri. Uno scrittore, umorista, paroliere, evidentemente, autore per radio, tv e teatro di cui proprio a fine giugno ricorrono i cento anni dalla nascita. Un nome che, da anconetano che da sempre opera nella cultura come nel pop, nella mia città natale non ho mai sentito nominare, neanche incidentalmente, nonostante abbia la sua firma in un sacco di opere assai popolari. A parte una manciata di libri, questo il reale motivo per cui l’ho scoperto, dal momento che Baldini + Castoldi ne pubblicherà un paio all’anno, proprio per celebrarne il genio, “Stavolta mi ammazzo sul serio” il titolo da cui l’editore gemello de La Nave di Teseo partirà, e guardando alla bibliografia del nostro il tema dell’ammazzare era evidentemente centrale, altri titoli “Come ammazzare la moglie e perché”, “Come ammazzare il marito senza tanti perché”, “Come ammazzare mamma e papà”, “Come ammazzare la suocera”, tutti oggi improponibili, in epoca di politicamente corretto e con le pagine di cronaca piene di femminicidi e fatti efferati, ma ai tempi letti per quel che erano, umorismo neanche troppo black, a parte comunque una manciata di libri, e tutta una serie di programmi scritti per radio e tv, programmi che ha spesso presentato in prima persona, Amurri ha infatti firmato un sacco di canzoni che noi tutti, anche oggi, ben conosciamo. Per Mina ha scritto il testo di Vorrei che fosse amore, Sono come tu mi vuoi e La banda, per citarne qualcuna, ma a lui si devono, sempre random, anche i testi italiani di Supercalifragilisticespiralidoso e Cam Caminì, rispettivamente per le voci di Oreste Lionello e Rita Pavone, doppiatori del cult Mary Poppins, interpretato da Julie Andrews e Dick Van Dyke, oltre che Zum Zum Zum per Sylvie Vartan e Stasera mi butto di Rocky Roberts. Un gigante, cui la città che mi ha dato i natali si è vergognosamente dimenticata di tributare qualsiasi tipo di onorificenza, una statua, uno straccio di via, una targa. Non che la faccenda dell’essere profeti in patria sia stata presa poco sul serio da quelle parti, ho più volte lamentato pubblicamente, da intellettuale che vive mica per caso a quattrocento e passa chilometri di distanza ma non ha mai smesso di raccontare, volendo anche di cantare, la propria città irriconoscente, ho più volte lamentato pubblicamente, dicevo, di come il nostro poeta più noto del Novecento, Franco Scataglini, finito nelle antologie di scuola, si è visto affibbiare una strada tutta sbrecciata nella zona industriale, davanti al centro commerciale che in città continuano a chiamare Joyland, come trenta e passa anni fa, una strada senza numeri civici, lontani dai luoghi che gli anconetani frequentano a piedi, prova provata di come siano troppo spesso gli altri a riconoscere i meriti a chi i meriti li ha in provincia. Ancora una volta la provincia, quindi, nella quale siamo cresciuti, nella quale torniamo, di volta in volta, salvo poi ripartire. La prossima volta che, di fronte alle autorità locali, rivendicherò per quando non ci sarò più una piazza in centro, una statua, qualcosa che sia legittimo aspettarsi dopo aver così tanto raccontato la città, non mi limiterò più a fare il nome di Scataglini ma ci aggiungerò quello di Antonio Amurri, che non sapevo essere nostro compaesano. Per dirla con i già citati Domenico Modugno e Enrica Bonaccorti, che presero la versione tradizionale abruzzese portata alla luce da Giovanna Marini, e ne hanno rielaborato una versione loro nel 1971, per l’album Con l’affetto della memoria, Amara terra mia, Ancona, amara terra nostra.