
Mi è capitato sotto gli occhi un post della scrittrice Rosella Postorino. Raccontava di come, una ventina di anni fa, avesse una mail che invece che riportare il suo nome e cognome risultasse a nome di Caterina Cinquecentocatenelle e un nickname buffo, piccolamela, e di come con quella mail si fosse ai tempi confrontata con personalità di spicco della letteratura, che si rapportavano con lei chiamandola, appunto, Caterina. Racconta che erano i primi tempi del web, per lei. Erano i primi tempi per il web anche per me, quelli, suppergiù, e anche io ho una storia simile da raccontare. Mi ero aperto un account su Hotmail per scrivere un servizio su Panorama, ricordo, e siccome non si sapeva esattamente di cosa si trattasse, lo avevo fatto con molte cautele, a partire dal non inserire da nessuna parte il mio vero nome e cognome, pensa che fesso che ero. Mi ero aperto un account che aveva per nick name il titolo del mio romanzo uscito per Strade Blu, Mondadori, aironfric, e l’iscrizione l’avevo fatta a nome Tyler Durden, il protagonista doppio e vagamente paranoico di Fight Club. In quei giorni, infatti, stavo traducendo Survivor, altro romanzo di Chuck Palahniuk, e usare il nome di chi in tutti i modi combatteva il sistema mi sembrava la cosa giusta da fare nell’aprirmi un account di posta elettronica. Per anni, però, circa una decina, ho mandato in giro mail che arrivavano da uno strano indirizzo e che risultavano spedite da tale Tyler Durden, chissà in quanti hanno ricondotto quel nome al protagonista del romanzo o a quello del film, con Edward Norton e Brad Pitt. Poi ho capito come si poteva cambiare nome, e l’ho fatto, salvo poi abbandonare a se stessa quella mail nel momento in cui Gmail mi ha permesso di usarne una che non richiedesse ogni volta di fare lo spelling (per altro aironfric era proprio lo spelling di Ironfreak, il supereroe obeso, di carbonio e con priapismo protagonista di quel mio bizzarro romanzo).
Questa cosa dell’usare un nome che non fosse il mio, ma che anzi fosse un nome per certi versi noto, almeno a un pubblico che in qualche modo includesse anche me, ai tempi non mi sembrava poi così strana, e del resto non ho mai avuto un lavoro che pretendesse una certa ufficialità, la bizzarria è sempre stata parte del mio corredo, a tratti anche parte preponderante.
Per chi non lo ricordasse, segue spoiler, Tyler Durden è il personaggio bipolare del romanzo Fight Club, e del film che David Fincher ne ha tratto. Uno dei tipici ingranaggi del nostro sistema che, a un certo punto, si crepa e decide, non esattamente consapevolmente, di volersene levare fuori. Inizia con la famosa faccenda dei fight club, cioè questi circoli non esattamente inclusivi nei quali uomini bianchi si ritrovavano nel retro di alcuni locali, in garage abbandonati o comunque in spazi non sorvegliati per darsele di santa ragione, a sangue. Prima regola del Fight Club, non si parla del Fight Club. Seconda regola del Fight Club, non si parla del Fight Club. Avrete presente, spero. Poi la faccenda gli sfugge di mano e Tyler Durden, che in realtà è l’alterego anarcoide dell’impiegato protagonista della storia, decide di mettere su un vero e proprio esercio, le Space Monkey, atto a destabilizzare il potere con tutta una serie di rappresaglie. Il finale, che per inciso credo sia uno dei più belli della storia del cinema, lievemente diverso da quello del romanzo, ci fa vedere Edward Norton, l’impiegato, finalmente in grado di liberarsi del suo alter ego, incarnato da Brad Pitt, sparandosi in bocca, che stringendo la mano della bella e stropicciata Helena Bonham-Carter le dice l’iconica frase “Mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita”, proprio mentre le bombe piazzate dalle Space Monkey tirano giù tutti i grattacieli sede dell’economia globale. Fine spoiler.
Io per anni mi sono presentato così, a chiunque abbia mandato una email. Ero Tyler Durden. Infilavo fotogrammi porno in mezzo a film della Disney, questo uno dei primi metodi ideati dal nostro per destabilizzare, oltre che iconicissima scena finale del film, dopo che i grattacieli sono caduti a terra, e parlavo presumibilmente di libri, di articoli, magari chiedevo un colloquio con gli insegnanti dei miei figli, come se niente fosse.
Non so se questa parte di storia sia più ascrivibile alla tenerezza, quella per un adulto neanche troppo giovane che si muove per il mondo a metà strada tra spavalderia e ingenuità, o alla follia pura, scegliere di farsi “rappresentare” da Tyer Durden era un po’ come scegliere, che so?, la Banda Bonnot, splendidamente raccontata dal mio concittadino Pino Cacucci nel romanzo In ogni caso nessun rimorso, oppure Vallanzasca, invece mio vicino di casa, seppur in epoche diverse, ora lui è residente dentro il carcere di Bollate, non esattamente una faccenda da prendere alla leggera.
Chiaramente, dalla mia, intendendo con “dalla mia” qualcosa che suoni tipo “a mia discolpa”, c’era il fatto che quando ho aperto il mio primo account di posta elettronica, parliamo di un indirizzo di quelli gratuiti, non di lavoro, non avevo idea che, di lì in poi, o almeno di lì in poi finché non sono arrivati i social e soprattutto Whatsapp, la mail sarebbe stata la forma di comunicazione professionale più importante, roba da mandare la posta cartacea definitivamente in pensione, e da influenzare in tutti i casi la nostra modalità di approccio agli altri, e anche il fatto che anche la presenza che internet sarebbe andata a occupare nelle nostre vite non mi era del tutto chiara, ai tempi non avevo rete in casa e non ce l’avrei avuta per un sacco di tempo, ricordo ancora che tutti i giorni uscivo e andavo in un internet point vicino casa per controllare appunto la posta e qualche ricerca fugace, ancora non c’era neanche Google e già Yahoo sembrava qualcosa di pazzesco, e in tutti i casi, per quanto mi fidassi ciecamente delle intuizioni degli scrittori cyberpunk che in effetti si scoprirà poi avevano assolutamente azzeccato tutto, dalla centralità di internet alla nascita dei social network, passando per le pandemie e i cambiamenti climatici, non potevo neanche immaginare che ci sarebbe poi stato un giorno nel quale buona parte dei miei rapporti interpersonali sarebbero passati di lì, andando a conoscere un sacco di gente, relazionandomi a distanza e anche in vicinanza con gente che conoscevo da prima dell’arrivo di internet, anche coi miei genitori, sempre e comunque grazie a un device, andando anche a lavorare prevalentemente in rete, dal pubblicare articoli a fare videocast, passando pure per la vendita dei libri. Noi ci meravigliamo, il noi è generico e include automaticamente voi che leggete, sulla fiducia e con un certo grado di empatia, per serie come Black Mirror, ma a pensarci oggi è chiaro che sono i romanzi e i racconti di gente come William Gibson, Bruce Sterling, Rudy Rucker o Marc Laidlow che dovrebbero guardare con meraviglia, esattamente come quelli di Chuck Palahniuk, almeno finché ha avuto un po’ di ispirazione. Come in Fight Club, torno a Tyler Durden, già solo quella faccenda della società plasmata sui gusti dell’Ikea, per dire, meriterebbe un Pulitzer, o forse anche un Nobel, per non dire della faccenda del doppio, quello che risponde alle proprie aspettative e quello che si plasma sulle aspettative che gli altri hanno su di noi, tutto è perfetto. Perfetto e deflagrante, esattamente come l’esplosivo che le Space Monkey hanno piazzato nei palazzi della City, quelli dove si tirano le leve dell’economia, in quella magnifica scena finale, Where is my Mind dei Pixies a fare da contrappunto alla voce di Tyler Durden.
È stato indubbiamente deflagrante, passo violentemente a parlare di musica, il successo che ha accompagnato l’arrivo sul pianeta Terra di una band che si chiama Velvet Sundown. Una band, va detto, accompagnata da un certo mistero, almeno nelle sue prime settimane di, diciamo così, “vita”, nulla si sa di chi ne fa parte, a eccezione dei nomi e di qualche foto posata apparsa sui social, e nulla si sa delle loro vite. Quel che è certo è che in data 5 giugno è apparso su Spotify il loro album d’esordio, un mix di psichedelia e rock fricchettone, e che esattamente due settimane dopo è approdato sul mercato, sempre lì su Spotify, il successore Dust and Silence, due album in due settimane, niente male. Quel che però è successo intorno alla band ha dell’eclatante, un milione e centomila ascoltatori mensili, in un mese di vita, grazie anche al piazzamento simultaneo di alcuni brani nelle playlist giuste. Il tutto per canzoni non certo incredibili, con suoni piuttosto standard e melodie ancora più standard. Mica per niente c’è chi ha pensato che in realtà i Velvet Sundown non esistano, o almeno non esistano sotto forma di persone fisiche, che siano cioè il frutto del lavoro della tanto famigerata AI, l’Intelligenza Artificiale. Volendola tagliare con l’accetta, alcuni critici oltreoceano hanno parlato di suoni presi di sana pianta da Suno, che è poi la applicazione che ci permette di scrivere canzoni, santo Dio, mettendo semplicemente delle indicazioni di massima, che so?, vorrei una canzone psichedelica che suonasse come una dei Velvet Sundown e che parlasse di cambiamenti climatici cantata da un uomo di mezza età in inglese, e dopo pochi secondi di canzoni così te ne arrivano tre, frutto dell’AI, se paghi un abbonamento mensile anche di più. Fatto che a un certo punto il portavoce della band, tale Andrew Frelon, ha confermato a Rolling Stone USA, altra prova che l’operazione è evidentemente riuscita, raccontando il tutto come una gigantesca trollata, fatta per marketing da chi fino a quel momento non era mai stato cagato dall’industria e quindi dal mercato. Come dire, una band vera ha deciso che per esserci doveva far finta di essere una band falsa, questa la trama narrata, vai poi a capire se trama reale o fittizia. E trattandosi di un fenomeno prettamente di mercato, quindi di quelli che un tempo ci avrebbero fatto parlare di musica scritta a tavolino, trovo abbastanza irrilevante star qui a fare le pulci alla band, vera o falsa che sia, cercando di capire se le canzoni siano farina del sacco di qualche autore intento a copiare quel che è stato fatto nel rock psichedelico negli ultimi sessant’anni, o un’AI in grado di tirare fuori dal cilindro due album, un set fotografico fatto ad hoc, i video giusti, anche una campagna mediatica giusta, tanto poi Spotify, che prima ci ha imposto la dittatura dell’algoritmo, penserà pure a imporci la dittatura delle canzoni scritte dall’AI. Quel che mi sembra prodigioso è che ci siano cinquecentomila persone e rotti che hanno accolto il tutto con piacere, o quantomeno non si siano opposte al fatto che Spotify abbia piazzato quelle canzoni nelle Playlist che poi sono andate a ascoltare. Per inciso, della partita non fa parte solo Spotify, ma anche tutte le altre piattaforme di streaming.
E qui torno a Tyler Durden, ai Tyler Durden, i due coprotagonisti di Fight Club, che in realtà erano una sola persona, e quello che per un po’ di anni è stato il mio alter ego, almeno quando mi accingevo a mandare una email. Perché lì non c’era solo la questione dell’essere reali, dell’essere percepiti come reali, del credersi reali, ma anche quella del voler sovvertire un sistema costituito andando a minarne i pilastri che fungevano da fondamenta. Ecco, credo che la sola risposta plausibile a un fenomeno come i Velvet Sundown, sempre che siate tra quei pavidi che non hanno ancora abbandonato Spotify, come invitavo a fare giusto qualche giorno fa qui https://361magazine.com/facile-boicottare-mcdonalds-provate-a-farlo-con-daniel-ek-di-spotify-come-dice-piero-pelu/, non è non ascoltarli, ma ascoltarli compulsivamente, intasare quella piattaforma di ascolti finti, distratti, mentre ovviamente fate altro, al fine di dopare un mercato già dopato di suo, creando numeri incredibili intorno a un progetto affatto credibile. Così facendo si arriverà prima o poi a una saturazione, da una parte il sistema musica tenderà a assecondare quella domanda andando a tirare fuori sempre più prodotti finti di quel genere, dall’altra gli artisti, quelli in carne e ossa, forse si sveglieranno e cominceranno a prendere seriamente le distanze da tutto questo. Il momento esatto in cui tutto questo avverrà sarà quello in cui partirà la chitarra di Where is My Mind, accompagnata dai coretti di Kim Deal, la voce di Frank Black dei Pixies a segnare l’attimo esatto in cui tutto crollerà finalmente al suolo, “Andrà tutto bene…”, esplosioni ovunque, “mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita”.