Non ho una grande memoria. Nel senso che, fossi un device, i giga dedicati alla memoria sarebbero davvero pochi, come succede con gli smartphone sempre lì a chiedere di liberare spazio altrimenti le funzioni potrebbero avere dei problemi, gli emoticon dalle facce tristi a confermarcelo. E nel senso che la memoria che ho, parlo ora di qualità e non di quantità, non sempre è impeccabile. Il che potrebbe anche suonare strano, lo so, visto che passo il tempo a raccontare aneddoti e vicende, anche circostanziate, fatto che suppongo mi fa passare come uno che si ricorda perfettamente tutto. Nei fatti, quando scrivo, se devo citare date, titoli o altro ricorro alle ricerche, che in effetti si trovano lì apposta, mentre quando racconto fatti privati, o apparentemente tali, non voglio star qui ancora una volta a specificare come non necessariamente tutto quel che racconto sia vero, a volte è verosimile, altre vicino alla verità, riletta ad hoc per mie scopi narrativi, altri oggetto di pura di pura finzione, la scrittura è sempre finzione, l’ho ripetuto allo sfinimento, quando quindi racconto fatti apparentemente privati, appunto, arrotondo giocando di fantasia, aggiungo pezzi che magari non sono sicuro ci fossero, ricostruisco passaggi giocando con la trama. Applico, in sostanza, quello che ho studiato essere il modo d’agire degli occhi, che impossibilitati a vedere tutto, mandano impulsi al cervello approssimativi, tanto poi il cervello ci mette una pezza e ricostruisce le parti mancanti, immagino con buon margine di approssimazione, visto che questa cosa la si studia ma non la si nota.
Suppongo che un bravo psicologo avrebbe le sue belle motivazioni sul perché io non ricordi un sacco di cose, anche intime e importanti, ma onestamente non ho grande interesse a sapere perché non ricordo qualcosa che comunque non ricordo, e col tempo ho imparato appunto che scrivendo riesco a ricostruire un passato forse anche più interessante del reale, quindi direi che ho trovato un buon compromesso col mio subconscio. Non facessi questa ammissione di omissione, credo, continuerei serenamente a passare per uno che ha una grande memoria, una specie di storico che si muove tra racconti privati e storia della musica.
Succede, però, che a volte mi incarti. E non parlo certo di quando vorrei dire un nome, magari di un personaggio non troppo conosciuto del passato, parlo di spettacolo, o magari di vita privata, che uno sta lì a scervellarsi, ma niente, non gli viene proprio in mente, fatto che potrebbe riguardare anche il titolo di un film, di una canzone o quel che è. Parlo di incartarsi nel senso di perdere il controllo sui ricordi, confondendo palesemente periodi del passato, sovrapponendo avvenimenti, facendo una gran confusione. E siccome è vero e comprovato che i ricordi a volte, se non sempre, finiscono per sostituire i fatti per come sono accaduti, nel senso che a furia di riraccontarci qualche episodio cambiandone la cronologia, aggiungendo dettagli, immagino spesso edificanti, a volte anche i finali, si finisce per credere che le cose siano andate esattamente così, a discapito della precisione e attendibilità, il gran casino diventa davvero generale, perché ci siamo autoconvinti di aver fatto cose che non abbiamo fatto e queste entrano in conflitto con altre cose che ci ricordiamo di aver fatto, e in effetti abbiamo realmente fatto, cose incompatibili con gli altri ricordi.
Per dire, oggi avevo deciso di parlare di Subbuteo. Poi vi dirò anche perché, per ora registrate questo fatto: volevo parlare di Subbuteo. E volevo parlarvene a partire da quando io ho cominciato a giocare a Subbuteo. Nel mio racconto, questo mi ero detto prima di cominciare, avrei tirato in ballo il mio tifare Genoa e West Ham, tifo in entrambi i casi legato proprio al fatto che ho giocato anche con un certo successo a Subbuteo. Questi due aspetti, il fatto che io tifi Genoa e West Ham, è strettamente legato al mio lavoro, o meglio, all’immaginario che negli anni ho costruito intorno al mio nome, a breve ci arrivo. Uso spesso il mio passato per faccende del genere, la questione dell’essere un gemello sopravvissuto alla sua metà dopo un parto tragico, quindi l’idea che io sia in qualche modo stato privato di una parte importante e che allo stesso tempo abbia una sorta di linea diretta, parlo di telepatia, con un altrove non razionale, o il fatto che mio nonno paterno abbia preferito pur di non tornare in guerra, lui che diciassettenne era stato tra i repubblicani arditi al fronte, e che da vero antifascista, dopo aver perso un buon posto da ferroviere per non aver preso la tessera del partito e essere finito a lavorare al macello, ha preferito amputarsi il pollice pur di non prendere parte a quello scempio. Uso questi aneddoti per costruire un immaginario eroico, stravagante, antagonista, oscuro. La faccenda del tifo, poi passo al Subbuteo e ai ricordi, avrei voluto farlo più avanti ma mi sembra che qui la cosa funzioni meglio, è legata la fatto che io ho scelto di tifare Genoa per questioni legate al mio aver cominciato a giocare a Subbuteo, laddove tutti volevano la Juventus, ai tempi squadra che non solo dominava i campionati, ma costituiva la parte portante della nazionale, e segnatevi questo passaggio che tornerà utile, ma anche la Sampdoria, squadra con la maglia eccentrica, da ciclisti, diciamo noi genoani, comunque curiosa per dei bambini che dovevano comunque avere una squadra con cui giocare su quel panno verde. Io, bambino, ho scelto di andare controcorrente, di più, di fare il bastian contrario, e tifoso juventino di famiglia, mio padre Learco e mio fratello maggiore Marco sono tuttora grandissimi tifosi della Vecchia Signora, ho optato per lo sfigato Genoa, sì con blasone, i nove scudetti vinti quando a giocare a calcio erano quattro gatti, ma con un presente, allora come oggi, di grandi delusioni, mi sono trovato a tifare Genoa anche in serie C, sia per retrocessioni meritate sul campo che per colpa di scommesse e altro. Una scelta di campo, essere bastian contrari, andare controcorrente, scegliere di soffrire per tifare per una perdente. Insomma, una bella mano di vernice sul mio immaginario, che nel calcio è andato poi a arricchirsi di altri passaggi, l’Uruguay invece che l’Argentina, per dire, un calcio maschio, che è poi quello cui ho sempre guardato mentre giocavo, attaccante dai piedi buoni, ambidestro, velocissimo, ma votato allo scontro fisico, Roy Keane che spezza la gamba a Halaand senior, il padre di quello che oggi gioca nel Manchester City, come massimo esempio di calcio giocato, lui che con un ginocchio rotto era stato accusato dall’avversario di fare la mammoletta, insomma, ci siamo capiti. Riguardo al West Ham, invece, la faccenda era andata così. Toccava scegliere una squadra della Premier League, non tanto perché ai tempi fosse chissà quanto interessante, non erano ancora arrivati gli arabi o i russi, quanto piuttosto perché il Subbuteo come il calcio da lì arrivava e si trovavano un sacco di squadre inglesi, e io avevo optato per la squadra dei portuali di Londra, il West Ham, altra squadra con un glorioso passato e un presente abbastanza di merda. Solo poi avrei scoperto che era anche la squadra i cui tifosi erano la massima espressione degli hooligan. E anche qui, quindi, un gancio per la costruzione del mio personaggio, del mio immaginario, uno che non si tira indietro se c’è da menare le mani, uno violento, cattivo, temibile e temuto.
Tutto a posto, quindi, solo che provando a ricostruire, prima di cominciare a scrivere, la cronologia di come mi sono avvicinato al Subbuteo, i miei ricordi lì a dirmi gli snodi fondamentali, mi sono accorto che qualcosa non tornava. Io ricordo perfettamente di aver cominciato a conoscere il Subbuteo durante i Mondiali del 1978, quelli poi vinti dall’Argentina perché giocati in Argentina, chi conosce la storia del calcio sa di cosa parlo. Quelli, sempre per parlare di personaggi del calcio che ho amato, di Mario Kenses, il lungocrinuto capitano dei biancocelesti, che non stringe la mano al dittatore Videla dopo la vittoria, dovendo poi passare il resto della sua vita altrove. All’epoca avevo nove anni, pochi, ma nella mia testa era lì che avevo cominciato a giocarci. Bene. Anzi, no, male. Perché io ho cominciato a tifare Genoa giocando a Subbuteo, e il mio primo eroe è stato Jan Peters, giocatore minore dell’Olanda di Johan Cruyff, centrocampista di qualità che però si è rotto subito dopo essere arrivato in Italia, senza lasciare un grande segno, se non l’aver bestemmiato alla sua prima apparizione in una tv locale, come risposta al giornalista che gli chiedeva se conosceva già qualche parola di italiano. Per me un vero amore, al punto che quando ho cominciato a giocare in una squadra della mia città ho deciso di portare sulle spalle il numero 8, come lui, giocando per altro nella stessa posizione nonostante fossi per mia natura più portato per l’attacco, in seguito a un incidente, la rottura del malleolo del piede destro, sarei diventato ambidestro, una rarità, passando quindi all’ala sinistra, un’ala sinistra con un destro comunque potente, ripeto, una rarità, per poi finire come centravanti.
Tornando al Subbuteo, per essere chiari, sin da subito io ho cominciato a personalizzare le mie squadre di Subbuteo. Questo almeno ricordo. Quindi prendevo dei barattolini di smalto da modellismo in un negozio lungo corso Mazzini, Annibaldi, dove oggi si trova un bar. Poi con degli stuzzicadenti dipingevo non solo le squadre con le maglie giuste, quasi tutte le squadre standard avevano le maglie vecchie, io ci scrivevo anche il nome del calciatore sulla base, a volte anche sulla schiena, oltre che lo sponsor sul petto, poi mettevo i dettagli personali, baffi, barbe, capelli di colori diversi dal nero, quello standard per i giocatori di Subbuteo. Peters era biondo tendente all’arancio, nella vita, e anche nella mia squadra di Subbuteo, Massimo Briaschi aveva i baffi neri, e via discorrendo.
Siccome sin da subito ho iniziato a dimostrare un certo talento, anche questo ricordo, ho iniziato anche a pimpare i pupazzetti delle mie squadre. Staccavo la base bianca dove erano infilati i piedi del pupazzetto, da quella a forma di ciotola che costituiva la base. Usavo un coltello appuntito per fare leva, e dopo un attimo riuscivo nell’impresa. Una volta staccato il pupazzetto dalla base, mettevo intorno al piccolo pezzo di plastica cilindrica sul quale era poi incastrato il pupazzetto una rondella, a volte due, così da creare un peso più importane, poi riempivo il vuoto con del mastice. Fatto questo ci incollavo nuovamente sopra la base col pupazzetto. Ottenevo un pupazzetto più pesante, che una volta passato su un panno di camoscio sul quale avevo passato del Legnovivo, un detergente per i Parquet, era in grado di fare in linea retta anche tutto il campo con un singolo colpo dell’indice, il Subbuteo, ricordiamolo, è il calcio in punta di dito. In realtà, siamo concreti, questo non avrei mai potuto farlo nel 1978, perché ero troppo piccolo e anche ingenuo. E comunque Jan Peters è arrivato al Genoa nel 1982, dopo i Mondiali vinti dall’Italia in Spagna, quelli che ipoteticamente in effetti mi avranno entusiasmato e spinto a giocare con continuità a Subbuteo. Gioco che ho sì conosciuto nel 1978, quei ricordi li ho nitidi in testa, ma che inizialmente non ho praticato. Cosa sia successo in quei quattro anni, tanti ne passano tra un mondale di calcio e il successivo, non mi è dato saperlo. E comunque, anche aver mollato la Juventus per il Genoa dopo che la Juventus di Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli e soprattutto Paolo Rossi aveva vinto contro ogni pronostico i Mondiali di Spagna è tanta roba, a livello di bastiancontrarismo.
Quello che però capisco a fatica è il fatto che in effetti questo cambia un sacco di ricordi, in retrospettiva. Perché io ricordo, e l’ho anche spesso scritto, che non potendo giocare a calcio perché studiavo all’Istituto Pergolesi di Ancona, prima violoncello e poi pianoforte, dopo aver suonato per un anno in prima elementare clarinetto nella Banda di Ancona, il mio maestro di violoncello, Moscardelli, abitava sfiga vuole al numero 2 di via Vittorio Veneto, noi all’1, per cui se mai avessi provato a contravvenire ai suoi ordini di non giocare a calcio come tutti gli altri bambini, col rischio di rovinarmi le articolazioni, se ne sarebbe accorto guardandomi da dietro le serrande sfitte del suo studio, studio che ricordo ancora oggi per la puzza di pece che vi albergava, pece che veniva usata dal maestro per passarci su le crini di cavallo dell’archetto del violoncello stesso, ecco, dicevo, non potendo io giocare a calcio, mi ero buttato a capofitto sul Subbuteo, sublimando in qualche modo il tutto. Anni dopo, durante le medie, a precisa domanda “preferisci la musica o il calcio”, avrei optato per il secondo, mollando lo studio del pianoforte e dedicandomi finalmente a giocare. Bene, solo che io di fatto ho iniziato a giocare a Subbuteo alle medie, se Jan Peters me la dice giusta, quindi quando già giocavo anche a calcio, il che comporta una sorta di paradosso temporale, o quantomeno un po’ di confusione mnemonica. Come comporta un po’ di confusione il fatto che io ricordi di aver giocato a Subbuteo in questi tipi di contesto, prima di essere abbastanza grande per sconfinare dal quartiere. A casa dei miei amici, i fratelli Bartola, che abitavano sotto casa mia, letteralmente, a casa di Gianmarco, un mio amico figlio di amici anche dei miei genitori, e ricordo che ogni volta che perdeva, sempre contro di me, visto che ero davvero forte, piangeva come un disperato, e poi a casa di Stefano, quello Stefano Renzi di cui ho parlato tempo fa qui https://361magazine.com/vita-morte-e-mike-peters-degli-alarm/, riguardo Mike Peters, il cognome Peters è ricorrente nella mia vita, lui che era stato un campione regionale di Subbuteo e che mi aveva insegnato anche delle regole che altrimenti non conoscevo, come il BACK, e che da un certo momento in poi ho cominciato a mia volta a battere, diventando di fatto il più forte tra tutti quelli che conoscevo bene. Poi, ricordo, ma evidentemente ricordo male, ho cominciato a giocarci da mio cugino Dubì, anche di lui vi ho già parlato, e da Luca, che era il mio compagno di banco delle medie, appunto, tifoso della Samp. Solo che tutto questo, credo, sia accaduto nel giro di pochi mesi, perché stiamo sempre parlando del breve e fuggevole lasso delle medie, tre anni scarsi, e se tanto mi da tanto, neanche tutte le medie, ma solo la seconda e la terza, visto che stiamo parlando del 1982. Un casino, al punto che non sono così sicuro di essere davvero arrivato secondo ai campionati regionali giocatisi a Urbino, non azzardo di dire un anno, portato lì dal papà di Gianmarco. Cioè, ricordo di essere arrivato in finale perché chi doveva giocarsi con me la semifinale si era ritirato, e ricordo che ero lì come capitano di una squadra di giocatori, Gianmarco uno di loro, intitolata a Andrea Agostinelli, allora capitano dell’Atalanta di Glenn Stromberg, Andrea Agostinelli che aveva la particolarità di essere il solo giocatore di Ancona che giocasse in serie A, addirittura un mio vicino di casa, perché abitava dietro casa mia. E anche qui c’è un casino, perché io mi sono trasferito in piazza Malatesta, dove appunto abitava anche la famiglia di Ago Agostinelli, quando ho finito le medie, quindi qualcosa continua a non portare nei miei ricordi. E neanche con quel che sostiene Google, cioè che Agostinelli abbia vestito la maglia dell’Atalanta tra il 1982 e il 1985, senza mai portare la fascia di capitano. Un casino, davvero. Per altro da Google, anzi, da Wikipedia, scopro che Agostinelli nel 1987 ha pure vestito per una stagione la maglia del Genoa, ma di questo davvero non ho nessuna memoria, nonostante abbia giocato diciotto partite in rossoblù.
So per certo, perché me lo ha detto lui e di lui mi fido, di aver partecipato a un torneo a Palombina, quartiere periferico di Ancona al confine con Falconara Marittima, nel quale c’era anche Umberto Maria Giardini, che io avrei conosciuto tanti anni dopo col nome di Moltheni, il cantautore anche lui marchigiano. E so che tanti anni dopo, proprio quando ho conosciuto Moltheni o giù di lì, passeggiando per il mio quartiere qui a Milano, ai tempi abitavo vicino via Teodosio, sono stato attratto da un manifesto dello zio Sam che invitava i passanti a entrare in un bar dove si sarebbe tenuta una dimostrazione del gioco del Subbuteo. Era durante una festa di quartiere, la strada chiusa e piena di bancarelle e giochi gonfiabili. Io e mia moglie avevamo la nostra prima figlia piccola piccola, lì sul passeggino, e all’ennesima volta che passandoci di fronte resto incantato a leggere il manifesto mia moglie mi invita a entrare. Non giocavo a Subbuteo da almeno venti anni, anche se dopo aver avuto la sventura di aver lasciato le mie squadre, tutte dipinte a mano da me, in Ancona, divenute giocattolo da distruggere per il figlio di mia sorella Caterina, il piccolo Davide, avevo deciso di portare i superstiti su a Milano, sono ancora qui con me, da qualche parte, con porte, palline e panno verde. In realtà so perfettamente dove sono, in un comò che teniamo nello studio, e nel quale ci sono un sacco di cose mie. Ho anche provato a far appassionare al Subbuteo i miei figli, Tommaso e Francesco, non per patriarcato, ma perché le ragazze, a parte un breve momento in cui Chiara, gemella di Francesco, si è fatta regalare dei guanti da portiere perché voleva giocare a calcio, non hanno mai seguito troppo questo sport, però né Francesco né Tommaso hanno mai dimostrato un minimo di interesse per un gioco che forse è davvero una faccenda da boomer.
Comunque entro nel bar e mi metto a guardare dei signori più grandi di me che giocano. Dimostro curiosità, e uno mi invita a giocare, chiedendomi se l’ho mai fatto. Confesso di averci giocato, tanti anni prima. Lui mi dice di non esitare, e alla fine della partita si trova a aver perso per tre a zero contro di me. A quel punto arriva il capitano della squadra, che credo sia il Milan, e mi sfida, e anche lui perde, solo due a zero. Come con la bicicletta, il tempo di ricordarsi come fare e ho mandato tutti a casa. Da piccolo, a questo punto non saprei dire quanto, passavo giornate intere a provare gli schemi, a battere punizioni, a colorare squadre nuove, a truccare i pupazzetti. Qui, con una squadra avuta in prestito, senza pesi e Legnovivo, ho comunque vinto, ottenendo l’invito a andare con loro a Londra, per prendere parte a qualcosa che suona come la Coppa dei Campioni del Subbuteo. Invito che ho declinato, tornando a passeggio con mia moglie e mia figlia.
Non so se i miei ricordi sono in effetti confusi come sembrano, o meglio, so che lo sono ma non sono stato in grado di risalire a quando in effetti ho cominciato a giocare a Subbuteo, e se in effetti è conciso col mio passaggio dalla Juventus al Genoa. So però che tifare Genoa è stata una scuola di vita, un fregarsene delle aspettative, crederci comunque, abituandosi anche all’idea di poter perdere. E so che con me, il Genoa, ha vinto molto di più di quanto non abbia fatto in realtà, almeno da che ha me tra i suoi tifosi, anche a questo in fondo serve la fantasia. E comunque tifare per una squadra che ha visto indossare la propria maglia da parte di calciatori come Tomas Skuhravy e Pato Aguilera, Branco e El Principe Diego Milito, Goran Pandev e Ciro Immobile, Zrysztof Piatek e Roberto Pruzzo, oltre che Marco Nappi, Leonardo Pavoletti, Rodrigo Palacio, Marco Rossi, Marco Borriello, Luigi Marulla, Mattia Destro, Alberto Gilardino, Giovanni Simeone, Iago Falque, Marco Di Vaio, Gianlunca Scamacca, Antonio Sanabria, Christian Kouamé, Juraj Kucka, Oscar Tacchi, Vincenzo Montella, Raffaele Palladino, Diego Laxalt, Alessandro Matri, Hernan Crespo, o più recentemente Mateo Retegui e Albert Gudmundsson, e al momento Morten Frendrup e Andrea Pinamonti, parlo di gente votata a metterla dentro, parlo di gente votata a metterla dentro, spesso emerite banderuole pronte a cambiare casacca per quattro spicci, ma comunque spettacolari da guardare mentre segnano, e che ha avuto allenatori come Osvaldo Bagnoli, Franco Scoglio o Gian Piero Gasperini, per me, è già un godimento. E a proposito di Immobile, ne ho già parlato in non ricordo che libro, quando anni fa ho accompagnato Alice Paba durante tutta la sua partecipazione a The Voice of Italy, sostenendola coi miei articoli e invitando poi ufficialmente Carlo Conti a invitarla al Festival di Sanremo, vincitrice del solo talent di casa RAI, e quando poi lei ci è andata, in coppia con Nesli, per altro eliminata, anche a detta di Nesli stesso, proprio per una reazione della Sala Stampa al mio sostegno, lì a prendere neanche un voto da parte della critica, mi sono ritrovato a seguire passo passo anche il suo disco Se fossi un angelo. In quel disco c’era una ballata rock, vagamente grungiana come sound, e con un testo piuttosto esistenzialista che si intitolava Immobile. Bene, quel brano l’ho scritto io insieme a quel Davide che tanti anni fa ha distrutto buona parte delle mie squadre di Subbuteo, figlio di mia sorella Caterina, al secolo Davide Orlando. Era una canzone che avevamo scritto per lui, io a scrivere il testo, e che poi avevamo dato a Brando, produttore del disco, e da lui a Alice. Ecco, quella canzone, o meglio, quel testo esistenzialista, che parlava dell’incapacità di uscire dall’impasse cui la vita ci pone sempre di fronte, era in realtà un omaggio a Ciro Immobile, ai tempi in cui Davide mi propose di mettere un testo sulla sua musica in forza al Vecchio Grifone. Ricordo ancora che ero seduto sul divano di casa, una domenica pomeriggio, mentre in tv c’era il Genoa che giocava il derby della lanterna, poi vinto tre a uno, e lui aveva appena segnato, come avrei mai potuto non rendergli omaggio? Me l’avesse chiesta anni prima avrei dovuto trovare modo di farlo con El Principe Milito, e sarebbe stata più tosta, con Immobile mi è andata anche bene.
Quando Alice ha sentito la canzone, quando Brando ha deciso di metterla nell’album e quando poi il disco è uscito per Universal, nessuno sapeva della vera natura della canzone, e finché non ne ho scritto questo è rimasto un segreto tra me e il mio divano, neanche Davide ne era a conoscenza, così impara a distruggermi le squadre di Subbuteo.
Su Milito ho invece scritto un libro, dopo il triplete con l’Inter, un libro nel quale parlo quasi solo del suo essere stato a due riprese il bomber del Genoa. Genoa, ripeto, che ha vinto più con me che nella realtà dei fatti, da che lo tifo, discorso valido anche per il West Ham, che almeno la vittoria in Europa Conference League, nel 2023, me l’ha regalata, andando a vincere contro la Fiorentina. Proprio in quella competizione, durante la semifinale contro la squadra olandese dell’AZ, un solo tifoso inglese, tale Chris Knoll, ha difeso da solo la tribuna dove si trovavano le mogli dei giocatori dall’assalto di un gruppo piuttosto numeroso di ultras avversari. La scena di lui che solo sulla porta prende a pugni in faccia gli avversari, respingendoli e prendendo colpi come niente fosse, è entrata nella leggenda, e sicuramente nel mio immaginario personale.
Chi ha fatto per un certo periodo parte del mio immaginario, poi come a volte capita ne è uscito senza una motivazione specifica, è Irvine Welsh, autore scozzese di un certo successo a partire da Trainspotting. Quell’Edimburgo tossica e punkeggiante, quelle vite deragliate, sghembe, senza speranza ma non per questo disperate, quella lingua di strada, chimica, tutto mi sembrava interessante. Anche avermi reso familiare una Edimburgo altrimenti classica, densa di fantasmi e re. Un suo romanzo, uscito quando già era un best seller, Una testa mozzata, aveva per protagonista uno di quei personaggi tutti strambi tipici dei suoi libri, Jason King, ex promessa dell’ippica, il tipo è alto poco più di un metro e mezzo, al momento della storia raccontata campione locale di Subbuteo. A memoria è il solo romanzo che io ricordi che parli di Subbuteo, per altro anche nella copertina dell’edizione economica italiana, uscita per TEA, c’è un pupazzetto senza testa, ovviamente, con la maglia della nazionale inglese, mentre nell’edizione brossurata, edita da Guanda, il pupazzetto era appena visibile, nel solito disegno di Sgarabottolo. La lettura di quel libro, parlo di quando ancora non era neanche andata al suo primo Sanremo, quello che l’avrebbe vista presentare Come foglie, anno del Signore 2009, era stato un fattore comune con Malika Ayane, ai tempi giovane promessa in qualche modo bruciatasi strada facendo proprio come certi personaggi di Welsh, Malika Ayane che non a caso per spiegare come si pronunciasse il suo strano cognome diceva “Ayane, senza e, come Zidane”.
Quell’anno, inviato per le pagine marchigiane del Messaggero, che erano interessate al diario di uno scrittore che avesse i natali da quelle parti, io, avrei seguito Malika a Sanremo, quello vinto per la sezione Giovani da Arisa, con Sincerità, scrivendone quotidianamente sulle pagine del giornale e raccogliendo poi il tutto in un libricino dal titolo Cantami o diva. Un’esperienza umanamente piuttosto mesta, di cui preferisco non parlare. Meglio semmai soffermarmi su una canzone che al Subbuteo è dedicata, Un elegante gioco da salotto degli Statuto, parte dell’album dedicato al calcio È già domenica, del 2010. Una canzone intrisa di nostalgia, e visto il tema non potrebbe che essere così, come intrisa di nostalgia è la Subbuteo, decisamente più evocativa come titolo, di Lorenzo Santangelo, dove si parla di passato, di gioventù, di partitelle di pallone e il calcio in punta di dito se la deve vedere con una partita a FIFA, Grignani nello stereo. Parecchi anni fa, credo venticinque, c’era un programma molto cool di MTV, Brand New, condotto e ideato da Massimo Coppola, che poi si sarebbe macchiato dell’aver mandato a male l’operazione ISBN e con la direzione di Rolling Stone Italia. Ecco, in quel programma notturno, che era figo e passava musica figa, che altrimenti in tv non ci sarebbe finita, Coppola, ricordo, giocava ogni tanto a Subbuteo, o il Subbuteo era comunque presente in scena. Leggo che oggi Coppola sta per portare Brand New a teatro, il tutto mentre per altro a teatro ci è arrivato anche l’Andrea Pezzi di Kitchen, lui per parlare di AI, Pezzi, uno che di MTV era la faccia diurna tanto quanto Coppola quella notturna. La fallimentare ISBN di Coppola, per altro, ha anche pubblicato il libro dedicato al Subbuteo di Daniel Tatansky, ora edito da Il Melangolo, viene da chiedersi se almeno a lui siano stati pagati i diritti d’autore o sia stato pagato il traduttore del libro.
Tempo fa avevo proposto a un editore di fare una serie di interviste a cantanti, immaginavo della mia generazione, mentre giocavamo a Subbuteo, quando la gente è distratta perché sta facendo altro tende a parlare senza troppi filtri, e comunque gli avrei fatto un culo così, Moltheni escluso, se tanto mi da tanto sarebbe risultata una tremenda operazione nostalgia, non esattamente quello che avevo in mente. Meglio lasciare che il Subbuteo faccia parte della memoria, anche della mia che ultimamente perde i colpi, essere nostalgico di qualcosa che non rammenti è operazione sterile, tanto vale lavorare di fantasia, e io di quello sono cintura nera. E da quella stessa terra dalla quale arrivo io, le Marche, la provincia, arrivano anche due tizi che con il passato e un modo di fare vagamente da hooligan, o quantomeno da outsider, hanno molto in comune. Parlo dei Little Pieces of Marmelade, band di Filottrano, stessa cittadina dalla quale arrivano anche i fratelli Severini, leggi alla voce Gang. Un duo, quindi, che però suona potente come una band, forse come due o tre band messe insieme, e che pratica un rock massimalista che guarda all’oggi, indubbiamente, ovviamente a un oggi nel quale sia previsto che ci siano degli umani dietro degli strumenti a pestare come fabbri, o a volte anche a giocare di cesello, fatto abbastanza raro, lasciando che i ricordi prendano una forma tutta nuova, ovviamente, che la fantasia salga di nuovo al potere, per dar vita a qualcosa di entusiasmante e di inedito, di nuovissimo e al tempo stesso antico, come assistere a un concerto prog dentro il Tardis di Doctor Who, o andare a Woodstock conciati come se si stesse andando al Primavera Sound o, peggio, alla settimana radical chic del Buring Man Festival. Musica che oggi come oggi non credo abbia non solo e non tanto eguali, ma neanche parenti troppo stretti, se non forse proprio quei Gang e anche qui Filottrano City Rockers, tutti così capaci di masticare e metabolizzare generi diversi per cavarne fuori qualcosa di proprio. In fondo, non andrebbe mai fatto quello che sto per fare, lo so ma vado avanti lo stesso, in fondo, dicevo, tutto quello che avete letto fin qui, il Subbuteo, i mondiali del 1978, Jan Peters, Andrea Agostinelli, Moltheni, Irvine Welsh, Malika Ayane, era solo un tentativo, immagino fallito, di simulazione proprio del loro approccio alla musica, se non addirittura del loro sound. Li ricorderete, immagino, i Little Pieces of Marmelade, per essere stati a X Factor nel 2020, edizione poi vinta da Casadilego. O magari per aver preso parte al tour solista di Manuel Agnelli, incidentalmente anche loro giudice proprio nel talent di casa Sky. DD e Frankie, questi i loro nomi, di Frankie vi avevo parlato per aver prodotto lo splendido disco di Davide Amati, qui https://361magazine.com/davide-amati-il-casatiello-mutonia-e-la-dopamina-un-viaggio-delirante/, hanno già tirato fuori due lavori, l’omonimo Little Pieces of Marmelade nel 2020, e l’epico Ologenesi nel 2023, e ora tornano con il deflagrante Mexican Sugar Dance, anticipato già dall’hooliganissmo Family Therapy. Se arrivati fin qui non avete capito bene di cosa mai si possa trattare, che dire?, non vi resta che andarvi a ascoltare Mexican Sugar Dance che è la prima parte di un doppio album appena uscita, col solito mix di tutto, mixato benissimo, per il resto dovrete aspettare dicembre, ma sarà un bellissimo aspettare.