
Quando muore uno famoso, ci ha spiegato perfettamente Zerocalcare a suo tempo, si scatenano in molti, sui social, dando vita a dei comportamenti discutibili, pubblicare foto con, citare propri aneddoti a riguardo, scrivere frasi ridicole come “insegna agli angeli”. Da che lo ha scritto, non saprei neanche dire ormai quanti anni fa, tra i comportamenti discutibili, credo, c’è anche quello di citare quel suo “pezzo”, per perculare chi da vita a quei comportamenti. Eccomi, appunto. Anche se io, che aneddoti personali o presunti tali, li uso anche quando non muore uno famoso, oggi non voglio star qui a parlare a partire dalla morte di uno famoso, o almeno, non di uno famoso per come si intende la fama oggi, e non famoso oggi.
Ho infatti letto ieri la notizia della morte di Mike Peters, leader della band gallese The Alarm, solo Alarm per noi ragazzetti degli anni Ottanta, e la cosa mi è spiaciuta. Sapevo che stava male, perché la malattia che lo ha portato alla morte a sessantasei anni lo affliggeva dal 1995, e onestamente avevo perso le sue orme artistiche da un sacco di tempo, ma come spesso capita a chi invecchia, parlo di me, adesso, ovviamente, ho più volte pensato a cosa sarebbe potuta essere la sua carriera e quella della sua band, nata sul principio degli anni Ottanta, in piena epoca post-punk e new-wave, se non ci fosse stata lungo la sua strada la contemporanea ascesa degli U2, per certi versi loro compagni di strada, per altri loro competitor. Ricordo che quando li sentii per la prima volta, ai tempi che furono, per mano di Stefano Renzi, uno dei miei migliori amici di Ancona all’epoca, sempre pronto a suggerirmi buoni ascolti mentre stavamo in casa sua a giocare a Subbuteo, lui mi avrebbe fatto conoscere anche i Dream Syndicate o i R.E.M., per dire, me li presentò assieme agli stessi U2 e agli Waterboys di Mike Scott, da poco tornati di scena col bellissimo Life, Death and Dennis Hopper. Dei tre, confesso, quelli che mi colpirono di più, forse perché ai tempi i miei gusti erano ancora da educare, e quindi erano un po’ più grossolani, furono proprio gli Alarm di Mike Peters, lì coi suoi giubbetti di jeans e i suoi capelli sparati in aria, tenuti su con la lacca. Il fatto che il nostro si chiamasse di cognome Peter, come quello Ian che proprio grazie al Subbuteo era divenuto uno dei miei idoli, io a tifare Genoa per pur spirito da outsider, tutti a voler giocare con la Juventus, ai tempi squadra dominante, e la Samp, per la nota maglia da ciclisti, lui talento minore dell’Olanda di Cruyff, è un dettaglio ulteriore, che nulla aggiunge a questo racconto. La storia ci ha detto come quella competizione, di mezzo c’erano anche i Simple Minds, già mainstream e quindi conosciuti da me in solitaria, grazie a radio e tv, è andata a finire. E da ieri, se mai abbia ancora un senso parlare di musica in questi termini, almeno Mike Peters si è sfilato dalla questione, smettendo suppongo di soffrire.
Non volendo però fare un coccodrillo, che risulterebbe vagamente ipocrita, non avendo mai citato i The Alarm in circa trent’anni di carriera, credo di poter affermare con buoni margini di certezza, e ho citato anche i Del Amitri e i Guadalcanal Diary, per dire, pur occupandomi in prevalenza di pop italiano ormai da anni, ho deciso di provare a spiegare con parole mie come penso che a volte la vita, anche quella degli artisti, si muova su binari che ci sembrano intellegibili per il semplice fatto che intellegibili sono. Ovviamente parole scritte mentre ascolto nostalgicamente quelle vecchie canzoni rock e vagamente enfatiche che ai tempi mi piacevano così tanto.
Iniziamo.
Ricordo perfettamente la data, il 4 settembre 1987, sono passati giusto quei trentotto anni e mezzo. Me la ricordo perché quello stesso giorno Madonna teneva il famoso concerto alla Stadio delle Alpi di Torino, trasmesso in diretta televisiva, quello di “Siete caldi? Anch’io”, pronunciato, è storia, con l’accento appoggiato sulla a di “anch’io”, invece che sulla i. In realtà, figuriamoci, non mi sarei affatto ricordato la data, dopo tutti questi anni, se non fosse che Google mi ha aiutato proprio digitandoci “concerto Madonna delle alpi siete caldi anch’io”, sì, sono ancora uno di quelli che usano Google perché non si fidano del tutto di ChatGPT, sarà che chiedendole, per me ChatGPT è donna, qualche info su di me le ha cannate tutte, o sarà che sono cresciuto con le canzoni di Luca Carboni e anche io, come l’uomo di Sarà un uomo, canzone del 1985 dedicata a suo figlio Samuele, che però nascerà tipi quindici anni dopo, preferisco le orchestre e non mi fido del deejay.
Quindi era il 4 settembre del 1987, in serata con degli amici siamo andati nella casa di campagna di uno della compagnia, Gabriele, per seguire il concerto in tv, lo davano su Rai1, dice sempre Google. Non che a noi interessasse di Madonna, io l’avrei scoperta dopo, quando avrei cominciato a studiare per diventare critico musicale, per tutti noi Madonna era una cantante di gran successo piuttosto disinibita, ma nessuno ne era particolarmente fan, specie di quella Madonna lì, Papa Don’t Preach, La Isla Bonita, Open Your Heart, ci sembravano, mi sembravano, tutte canzonette pop, e anche nel pop, sempre ai tempi, c’era roba decisamente meglio, penso a Prince, a Stevie Wonder, altri artisti che stavo imparando a conoscere. Ma non è di Madonna che voglio parlare, anche se forse un po’ sì. Perché finito il concerto, e cazzeggiato ancora un po’, come si fa quando si è giovani, di media avevamo tutti diciott’anni, qualcuno, tipo Dubì, mio cugino ai tempi da me inseparabile al punto che qualcuno di perculava chiamandoci i Dubì Brothers, con chiaro riferimento ai Doobie Brothers, quelli di Long Train Running, questo nonostante tra i due, per stessa ammissione dello stesso Dubì, fossi io il leader, ma non c’era un gruppo che richiamasse il mio cognome, se uno voleva fare qualche gioco di parole che coinvolgesse il mio cognome doveva tirare in ballo il quasi omonimo olio, recentemente tornato in auge, vedo, qualcuno, dicevo, tipo mio cugino Dubì, mio cugino che in realtà era un mio nipote di non so che grado, io ero cugino di secondo o terzo grado di sua madre, ma essendo coetanei farmi chiamare zio mi sembrava eccessivo, qualcuno, dicevo, di nuovo, tipo mio cugino Dubì, di anni ne aveva ancora diciassette, ne avrebbe compiuti diciotto di lì a un paio di mesi buoni. Cazzeggiamo e, cazzeggiando, ci viene l’idea di fare uno scherzo. Eravamo giovani, ci piaceva fare scherzi, specie a me. Mi piace ancora oggi, che di anni ne ho quasi cinquantasei, figuriamoci a diciotto. In realtà, più che uno scherzo, volevamo fare qualcosa che suonasse come una punizione, quindi per certi versi quella che decidiamo di fare è una spedizione punitiva, solo che non violenta, almeno sulla carta.
Era successo questo, il mese prima, ma neanche un mese, un paio di settimane prima eravamo stati tutti al Meeting di Rimini, quello organizzato da Comunione e Liberazione. Frequentavamo tutti CL, in realtà per motivi non esattamente simili. Io c’ero entrato per primo, perché ai tempi, povera anima, studiavo molto, frequentavo il Liceo Classico, e i miei volevano che avessi una valvola di sfogo, ma che fosse una valvola di sfogo nell’alveo del cattolicesimo, i miei sono molto dentro la chiesa, anche ora che sono molto anziani, mio padre è stato il primo diacono delle Marche, negli anni Ottanta. In realtà a spingerli a suggerirmi di entrare in CL, o a frequentare CL, perché non è che ci fosse esattamente un ingresso ufficiale, tipo il giuramento degli scout, era stata Luciana, una delle migliori amiche della mia famiglia, con suo marito Mimmo. Luciana è una forza della natura, anche oggi, e ai tempi animava, anche con mio padre, il teatrino della parrocchia di San Francesco alle Scale, in Ancona. Lì capitava a volte a suonare un tipo simpatico, la faccia da bambino, di nome Francesco, Francesco Amico. Lui era un bravissimo chitarrista classico, quello era il suo mestiere, e faceva parte di CL. Uso il passato perché purtroppo Francesco, che ho negli anni continuato a frequentare ovviamente con assai meno frequenza ma pari affetto, non è più tra noi. Tornando a quei fatti, per una sorta di osmosi, quindi, il suo essere simpatico ha spinto Luciana a suggerire ai miei genitori di andare a qualche incontro di CL, se tanto di da tanto, si sarà detta, ci sarà altra gente simpatica, ignorando che questo avrebbe per sempre cambiato alcune dinamiche che si stavano profilando per la mia vita. Ero infatti uno di quelli che frequentava il Liceo Classico dei Cappuccini, in Ancona, il liceo diocesano, perché, non sarei così sicuro per mia precisa volontà, sembrava che potessi avere una qualche vocazione al sacerdozio. Avevo fatto un anno di ragioneria, uno dei cinque promossi a giugno in una classe di circa trenta studenti, ma a tutti i professori, e anche a me, era chiaro che di fare ragioneria non mi fregava nulla. Nello stesso istituto, per altro, c’era anche quella che poi è diventata mia moglie, Marina, e anche Silvia, l’amica che di lì a poco ci avrebbe fatto conoscere, ma il destino aveva in mente un altro disegno per noi. Capisco che non sarò un ragioniere, forse, mi dico o mi dicono, potrei diventare un prete, mi iscrivo al Liceo Classico dei Cappuccini, il medesimo frequentato dai seminaristi di Osimo, lì dove si trovava ai tempi il Seminario della diocesi di Ancona. In realtà, ancor prima di iniziare, che quella non fosse esattamente la mia strada mi era parso abbastanza evidente. I miei mi avevano mandato a fare una vacanza con i seminaristi, ma non quelli di Osimo, quelli di Vicenza, credo, dove c’era un sacerdote amico di famiglia, don Gigi, e lì uno dei ragazzi mi aveva fatto suonare, facendo ricorso alle reminiscenze degli anni passati a suonare il violoncello, perché non ho solo lasciato ragioneria pur da promosso, ricominciando da capo il classico, attenzione, ho anche mollato gli studi di musica classica dopo aver suonato un anno clarinetto alla Banda di Ancona, un paio di anni violoncello, e altri tre anni pianoforte, mi piace provare ma la continuità non è esattamente il mio forte. Comunque questo ragazzo mi lascia provare la chitarra elettrica, che loro suonavano in chiesa, vai poi a capire perché, e io resto folgorato. Tornato, prima che la scuola iniziasse, chiedo e ottengo di averne una anche io, facendo ricorso al fatto che in chiesa, a Tonezza, lì era stata la vacanza coi seminaristi veneti, in chiesa si suonava la chitarra elettrica, e complice una delle tante svendite fallimentari della allora Eko, dalle parti di Recanati, in casa mia era entrata una perfetta imitazione della Fender Stratocaster, almeno esteticamente perfetta imitazione. Inizio il liceo, studiando come un pazzo. Per due anni non esco praticamente di casa, se non per trovarmi con qualche amico a giocare a Subbuteo, il resto del poco tempo libero lo passavo a giocare a calcio con qualche amico, o a strimpellare la chitarra elettrica, in casa. Ma di tempo libero ne avevo poco. Per questo i miei mi spingono a andare a scuola di comunità, che è come a CL si chiamavano gli incontri degli studenti, GS, che stava invece per Gioventù Studentesca. Segnatevi le tappe, chitarra elettrica grazie ai seminaristi di don Gigi, scuola di comunità grazie a Luciana, istigata, diciamo così, da Francesco Amico. Sarà proprio lui, Francesco Amico, a spingermi a salire su un palco e cantare, accompagnandomi con la mia chitarra elettrica, in un carnevale nel quale ero mascherato come uno dei Kiss, nello specifico Paul Stanley, quello con la stella su un occhio, una palestra a Palombina Vecchia, proprio dove anni prima avevo preso parte a un importante torneo nazionale di Subbuteo cui aveva partecipato anche Umberto Maria Giardini prima di diventare Moltheni, come location. Per me è una sorta di ingresso in società, nel senso che ancor più che il cambio di quartiere, nel mentre avevamo cambiato casa, e il doppio cambio di scuola, dalle medie a ragioneria e poi di nuovo al Classico, era stato lì a GS che avevo cominciato a conoscere nuova gente, prevalentemente ragazze. Che poi era il motivo per cui alcuni dei miei amici storici, compreso il Dubì di cui sopra, si erano a loro volta affacciati a quel contesto, perché c’erano le ragazze. Grazie a una comune amica di GS avevo infatti conosciuto Marina, che un paio di anni dopo sarebbe diventata la mia ragazza, non so se messa così suona troppo patriarcale, e oggi è mia moglie e madre dei nostri quattro figli, e molte delle coppie di nostri amici, parlo di quelli di quando eravamo giovani, lì si sono conosciuti. Quindi, in sostanza, essere entrato, o meglio, passato da GS ha sancito il mio incontro con quella che da trentasette anni è la donna con la quale divido la mia vita, e mi ha fatto entrare nel mondo della musica, che è poi il mio mestiere, vedi tu certi snodi del destino come ti segnano. A dirla tutta, adesso parlo di musica, proprio in quel periodo il fatto che la musica sarebbe entrata di diritto nel mio vissuto mi si era palesato di fronte in maniera solida, concreta. A maggio, infatti, del medesimo anno, per la precisione il 30 maggio, due giorni prima del mio diciottesimo compleanno, ero andato con Luca, mio compoagno di classe alle medie e amico molto stretto ai tempi, anche lui presente la sera dei fatti del 4 settembre, e Paolo, altro amico anconetano conosciuto a GS, allo stadio Braglia di Modena per il secondo dei due concerti emiliani del The Joshua Tree Tour degli U2. Eravamo partiti da Ancona in treno, avevamo fatto tappa a Bologna, dove Paolo, che nel mentre era andato all’università, aveva casa, e poi ci eravamo spostati presto a Modena, per assistere a uno dei primi mega raduni tenutisi in Italia, il primo della mia vita. Andarci era stato, a leggerlo con la lente di quei tempi, qualcosa di messianico, miracoloso. I miei non erano propensi a mandarmi, perché era lontanissimo da Ancona, parliamo degli anni Ottanta, attenzione, ero ancora minorenne, seppur per pochissime ore, perché il concerto costava, ricordo, circa sessantamila lire, un prezzo piuttosto importante, e perché, questo mi era chiaro già allora, il mondo del rock non era esattamente quello che i miei pensavano dovesse essere anche il mio mondo. Io allora avevo lavorato di fino, con l’ingenuità della gioventù. Avevo usato il libro che raccoglieva i testi degli U2 tradotti da Davide Sapienza, che anni dopo sarebbe diventato un mio carissimo amico, marito per altro di quella Cristina Donà a sua volta carissima amica, e avevo fatto leggere i tanti riferimenti a Dio presenti nelle loro canzoni. Avevo in pratica quasi spacciato gli U2 per una versione irlandese dei Gen Rosso, la band dei focolarini che andava parecchio di moda in chiesa. La risposta era comunque stata tiepida, per la faccenda dei soldi. Mio fratello Marco, otto anni più grande di me, che ai tempi lavorava per Tontarelli, quelli che facevano e fanno le mollette di plastica, a Camerano, mi aveva allungato ricordo ventimila lire, che servivano per il treno, altri tempi, ma mancava il più. E come nella scena dei Blues Brothers nel quale Jake e Elwood entrano nella chiesa il cui reverendo è James Brown e vedono la luce, io avevo visto la luce uscendo da San Cosma, che era la nostra parrocchia allora. Proprio scese le scale della chiesa, nella piazzetta sottostante, avevo infatti trovato cinquantamila lire, lì in terra. Un miracolo. Per scrupolo, bei tempi quelli, avevo passato un intero pomeriggio lì, per vedere se chi li aveva persi fosse tornato per cercarli, ma niente. Era un segno del destino, dovevo andare a Modena. E siccome la sera prima, il 29 maggio, Bono aveva fatto salire sul palco un ragazzo a suonare la chitarra in non ricordo che brano, non ho idea come la notizia ci fosse arrivata in quell’epoca pre-internet, eravamo andati allo stadio preso, stazionando tutto il pomeriggio a pochi metri dal palco, volevo essere io a salirci in serata. Ci eravamo goduti i tre concerti di apertura, i Lone Justice di Maria McKey, oggetto di molestie per tutta la sua gig, i Big Audio Dynamite di Mick Jones, quello dei Clash, e The Pretenders di Chrissie Hynde, che aveva risposto da par suo alle molestie, infilandosi letteralmente e letterariamente il microfono tra le gambe e invitando il pubblico a abbeverarcisi. Poi, quando era cominciato lo show degli U2 mi sono trovato a venti e passa metri dal palco, letteralmente sollevato da terra dalla folla danzante. Niente invito a salire per me, mi sono detto, almeno finché Bono non ha chiamato sul palco una ragazza, con cui ha ballato un lento, testa a testa. Comunque quella sera ho capito che il rock sarebbe stata la mia vita, o almeno la musica, e gli U2 hanno probabilmente scalzato gli Alarm nella mia personale classifica di preferenze.
Tornando ai fatti, il 4 settembre 1987, comunque sia, avevo ormai compiuto diciotto anni, Marina non era ancora la mia ragazza, e io ero andato a casa in campagna di Gabriele con alcuni amici, compreso Dubì, per vedere su Rai1 il concerto di Madonna, poi abbiamo deciso di fare uno scherzo. Il motivo, dicevo, risaliva a quanto accaduto un paio di settimane prima al Meeting, e prima ancora l’anno precedente, sempre in agosto e sempre al Meeting. Io e altri amici avevamo messo su una squadra di calcio a cinque, non lo chiamo calcetto per rispetto del calcetto, perché noi giocavamo palesemente a calcio, solo in un campo più piccolo e in cinque, senza però avere idea di come si giocasse a calcetto. Per intendersi, facevamo cross, marcavamo a uomo, insomma, avevamo ideato una versione in miniatura del calcio a undici. Eravamo anche parecchio forti, e a volte ci ritrovavamo a partecipare a tornei anche la domenica mattina, arrivandoci direttamente dal sabato sera, senza essere passati dal letto. Ci chiamavamo Gruppo Etilico, e non credo servano altre didascalie. Di questo era stato informato don Alberto, che era il responsabile di CL di Ancona, e per questo aveva stabilito che noi non avremmo dormito tutti assieme a Rimini, durante il Meeting. Dimenticavo, noi del Gruppo Etilico avevamo deciso che durante il Meeting avremmo messo su un torneo con le squadre degli altri volontari che arrivavano in zona per dar vita al tutto, noi per il secondo anno di fila avremmo lavorato in cucina, gratuitamente. Don Alberto era contrario e per questo aveva stabilito che ognuno di noi cinque dormisse in camera con almeno un paio dei nostri compagni di cammino più devoti, diciamo così. Io ero stato messo con Corrado, solo in seguito divenuto uno dei miei più cari amici, oggi ricercatore di economia presso l’Università di Sidney, e Domenico, un mio vecchio compagno di asilo e elementari che da quando, di lì a poco, lascerò CL non mi rivolgerà più la parola. Potevano anche dividerci, certo, ma non certo fermarci, il vino tenuto a ghiacciare nello sciacquone del cesso ne era in fondo prova provata. Infatti organizzeremo lo stesso il torneo, passando il poco tempo libero che avevamo a disposizione a giocare a calcio, invece che a presenziare a incontri pubblici, fatto che non verrà visto di buon occhio dai sacerdoti che ci avevano in squadra, manco avessimo bestemmiato in chiesa. Tra questi c’era Don Lorenzo, di poco più grande di noi, da poco diventato prete. A lui era stato dato l’incarico di controllarci, fatto di per sé non semplicissimo. Nei fatti non ci vedrà praticamente mai, a parte quando transitava dalla grande cucina della fiera di Rimini dove si svolgeva il Meeting. Unico incontro pubblico a cui avevamo partecipato il megaconcerto che tutti gli anni si teneva verso il finale del Meeting, quell’anno animato da un Luca Carboni di lì a breve fuori col suo omonimo album, per intendersi quello di Farfallina. Esiste un reperto video della Rai, il concerto era trasmesso in diretta su Rai1, dove mi si vede, unico nella folla, urlare come un pazzo in prima fila, nonostante anche io, come tutti i presenti, non conoscessi ancora quella canzone presentata in anteprima. Io ero suo fan sin dall’album d’esordio, normale che fossi lì a urlare come un pazzo. Era successo anche l’anno prima, senza che però mi si fosse visto in tv, quando a cantare c’erano stati, tra gli altri, Zucchero, Mango e Enrico Ruggeri, Zucchero a infiammare il pubblico di CL cantando “Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall’Azione Cattolica”, Mango a cantare Oro e Lei Verrà con una voce da favola e un improbabile zainetto a forma di orsacchiotto sulle spalle, Rouge a cantare La Canzone della Verità, brano che farà dire a CL che in fondo anche lui la pensa come don Giussani, Carboni, Zucchero, Mango e Ruggeri, capite bene che razza di concerti fossero questi offerti dal Meeting. Incidentalmente Enrico Ruggeri, Zucchero e Luca Carboni li ho conosciuti, Enrico è uno dei miei più cari amici nel settore, gli altri due rientrano comunque tra quelli con cui vado più d’accordo, strano il mio destino, avrebbe cantato di lì a qualche anno Giorgia, a sua volta mia cara amica.
Tornando però a quell’anno, il 1987, al nostro ritorno io e gli altri del Gruppo Etilico, divisi ma non per questo spezzati nei nostri intenti, subiremo ritorsioni bonarie, minacce di far presente ai nostri genitori di come ci eravamo comportati, vaghi gesti di bullismo. Non fosse che io nel mentre ero entrato nel direttivo di GS, e ero anche stato eletto come rappresentante presso il Provveditorato agli studi di Ancona per gli studenti delle scuole private, credo che la faccenda avrebbe presa una piaga peggiore. Ma a noi, di fatto, non piaceva essere vessati, quindi in noi si era profilata l’idea di vendicarci, sempre bonariamente. Era successo anche l’anno precedente, il 1986, il mio primo Meeting. In quel caso il Gruppo Etilico non esisteva, e anche noi partecipanti al Meeting come volontari eravamo molti meno, perché ancora non erano entrati tutti i miei amici di infanzia. In quel caso io e Dubì, sempre lui, dormivamo in camera con Don Lorenzo, novello prete. Non una cosa esaltante, passare la prima estate a Rimini in camera col prete, ma tant’era. Solo che la penultima sera del Meeting ci si era organizzati per passare la nottata tutti in una camera, quella di un gruppo di ragazze. Nessun intento lussurioso, per essere chiari, eravamo creep, avrebbe cantato un ispirato Thom Yorke anni dopo, descrivendoci alla perfezione, ma almeno l’idea era di fare un po’ di baldoria. Avremmo voluto mettere a conoscenza dei fatti don Lorenzo, ma immagino avrebbe opposto resistenza, quindi non lo informammo, limitandoci a non tornare in camera. La cosa non verrà presa molto bene dal nostro compagno di stanza, che minaccerà di convocare i nostri genitori per farci dare, dirà, una bella lezione. Noi, per tutta risposta, decideremo di attaccare al lavandino del bagno un tubo di gomma, dalle mie parti si chiama sciò, in altre zone calza o canna, e appoggiarlo sul materasso del letto nel quale stava dormendo in quei giorni, col risultato di gonfiarlo d’acqua. Lui, don Lorenzo, per non darcela vinta, farà finta di nulla, limitandosi a appoggiarci un telo da mare, ma una volta tornati in Ancona farà in effetti la spia. Il passaggio successivo, se possibile, sarà ancora peggio, perché a quel punto io e Dubì, ma ero sempre io a muovere le mosse, decideremo di sgonfiare le quattro ruote della sua auto, mentre lui teneva una scuola di comunità per noi di GS. Anche in questo caso farà finta di niente, andandosene sui quattro cerchioni, salvo poi dover cambiare il treno di ruote, tagliate dall’averci guidato sopra.
A un anno di distanza, evidentemente, ancora non ci basta, perché lo scherzo che decidiamo di fare è sempre a lui, don Lorenzo. In quei tempi era
viceparroco a San Michele Arcangelo del Pinocchio, quartiere periferico di Ancona, incidentalmente vicino alla casa di campagna del nostro amico Gabriele. Il parroco era un sacerdote anziano piuttosto noto in città per i suoi modi autoritari e non eccessivamente empatici. Si chiamava don Almerino, da sempre parroco in quella chiesa, ma in città molti lo chiamavano credo poco bonariamente don Almirante. Noi tra questi. L’idea era semplice, anche perché non necessitavamo di troppe sfumature, essendo ormai notte tarda, saremmo andati nell’ala a fianco alla chiesa nella quale sapevamo dormisse don Lorenzo per colpire le serrande della sua stanza, a piano terra, facendo urla e grida al fine di spaventarlo. Niente di che. Parcheggiamo vespe e auto nel piazzale antistante la chiesa, e scendiamo per la scalinata che si trova alla sinistra dell’edificio, guardandolo. Pochi scalini, affiancati da tre o quattro grandi gradoni. Dubì, per motivi che mi sfuggono, decide di passare dai gradoni, correndo. Non si accorge, però che lì sui gradoni sono stati messi dei cadi atti a tenere su i panni stesi, assenti in quel momento. Il risultato è un volo rovinoso, a faccia in avanti, corredato da grida, quelle sì di dolore, e credo anche qualche bestemmia. Il tutto proprio mentre io e gli altri arriviamo di fronte alla finestra di don Lorenzo, le serrande ovviamente tirate giù. Solo che le urla di Dubì hanno rovinato la sorpresa, perché da dietro vediamo accendersi una luce, e mentre io e gli altri iniziamo a colpire con violenza le serrande tirate giù sentiamo provenire da dietro quella inefficace difesa la voce stentata di don Almirante che dice, impaurito, “chi cercate”. Capito di aver sbagliato stanza non possiamo che andarcene di corsa, consci di non aver portato a casa lo scherzo fissato.
Il giorno dopo, a tavola, mio padre, che era già diacono e lavorava, gratis, per la curia di Ancona, ci racconta che nella notte dei ladri hanno provato a fare irruzione nella parrocchia di San Michele Arcangelo, senza riuscirci, e che in seguito a quel tentativo don Almerino, lui lo chiamava così, ha avuto un malore. Non ricordo se è stato portato all’Ospedale, ma sono certo che sia comunque sopravvissuto. Ovviamente non ho raccontato che quel tentativo di rapina era in realtà uno scherzo che avrebbe avuto don Lorenzo come vittima, e immagino mio padre, oggi quasi ottantanovenne, lo scoprirà solo adesso. Anche don Lorenzo non lo ha mai saputo, e lui è un caro amico che vedo assai di rado, ma, per dire, ha celebrato insieme a altri sacerdoti e mio padre, diacono, le nostre nozze, quindi direi che questa è una storia che fa assolutamente parte del passato. Ma parlando di destino e di snodi del destino, Enrico in seguito avrebbe condotto un programma chiamato Il Bivio, nei giorni scorsi guardando Orange is the New Black e tutte le varie storie di sfighe e brutture che, nella mente degli sceneggiatori, hanno portato buona parte delle protagoniste, le buone come le cattive, a diventare carcerate e spesso carcerate chiaramente messe lì come personaggi negativi della serie, mi sono chiesto cosa mai sarebbe potuto capitare, a me, Dubì e gli altri, se quella sera don Almirante fosse morto di infarto. Magari noi ce la saremmo pure cavata, parlo di giustizia, perché dubito che un tribunale ci avrebbe mai potuto incolpare, sempre che si avessero prima scoperti, per aver spaventato a morte qualcuno, ma la nostra coscienza immagino di no. E non sto parlando del giudizio universale o roba del genere, attenzione, parlo della vita di lì in avanti, sapendo di aver ucciso un uomo, seppur soprannominato Almirante, nell’atto di compiere un solo apparentemente innocente scherzo. Saremmo sicuramente diventati altro da quel che siamo oggi, non sta a me dire se migliori, dubito, o peggiori. Probabilmente ci frequenteremmo ancora, come legati per sempre da quel fatto, e magari questa cosa, venuta alla luce, parlo per me, non mi avrebbe fatto fidanzare con Marina, di lì a pochi mesi, e oggi non saremmo insieme, dopo trentasette anni e passa, con quattro figli che nel mentre stanno di là facendosi i fatti propri. Io potrei non essere uno scrittore e critico musicale, e non avrei mai conosciuto Enrico Ruggeri, Zucchero e Luca Carboni, il primo concerto visto con Marina da fidanzati, una decina di giorni dopo esserci messi insieme, sarà proprio Carboni, al Teatro Metropolitan di Ancona, dove oggi si trova H&M, il primo concerto all’aperto Enrico Ruggeri, alle Cave di Sirolo, suo primo tour senza occhialoni, Zucchero sarebbe arrivato di lì a poco, a Porto Recanati, sempre per parlare di snodi e concomitanze. Forse Francesco Amico, che mi aveva spinto a salire su un palco, non mi avrebbe incentivato a continuare a farlo, io non avrei poi cominciato a scrivere canzoni, e poi ancora non avrei lasciato le canzoni per passare a scrivere altro, e oggi vivrei ancora in Ancona, magari guidando un autobus o facendo altro, dico questo con la logica delle sliding doors, non certo esprimendo giudizi a riguardo. La vita, non lo scopro certo io adesso, è fatta di snodi e di possibilità, mancarne uno o scegliere diversamente porta evidentemente a altre dinamiche, che forse danno vita a realtà alternative, parallele, roba di X Files o puntate in essere di Doctor Who.
Ignoro, e lo ignoro perché col tempo, come dicevo, Mike Peters è uscito dai miei radar, e credo dai radar di molta altra gente, quali siano gli snodi che hanno fatto che sì che quella che era una delle band di maggior successo, almeno in UK, degli anni Ottanta sia poi divenuta una realtà marginale, e del perché, a dispetto di molti, The Alarm non sia finita dentro quella immensa rivalutazione del passato che risponde al nome di Retromania, maledetto Simon Reynolds, ma so per certo che c’è stato un momento nel quale sarebbero potuti diventare loro la band rock più famosa del pianeta, lì a fare la resident band al The Sphere di Las Vegas, Mike Peters a parlare coi grandi della terra nel suo incomprensibile accento gallese, sono però state aperte altre porte, e per star qui a parlarne per la prima volta è dovuto morire a sessantasei anni. Come direbbe Zerocalcare, la terra ti sia lieve.