Le parole del marito

A Corriere della Sera, Stefano Massoli ha parlato dopo la morte di Laura Santi, giornalista affetta da sclerosimultipla che si è auto-somministrata un farmaco letale «Le ho detto: “Vai, amore. Sei libera”».
Laura ha risposto con un filo di voce: «Ciao amore, ciao vita». Poi ha cominciato l’autoinfusione.

Stefano, suo marito da 25 anni, è uscito dalla stanza in quel momento preciso. «Mi sono messo in disparte. Non volevo condizionarla emotivamente. Prima che uscissi, mi ha chiesto: “Vuoi che rimanga ancora un po’?”. Le ho risposto “No”… non perché non volessi, ma per dirle: sentiti libera. E lei ha capito. E si è sentita libera di andare.»

Quando è rientrato, era tutto finito. Il flussimetro segnava zero. Laura non c’era più. «Sono scoppiato a piangere, a dirotto. Un pianto vero, liberatorio. Non mi era mai successo: avevo sempre pianto di notte, in silenzio, senza farmi vedere. Ma lì… lì non mi sono trattenuto.»

Laura Santi aveva 50 anni. Dal 2000 conviveva con la sclerosi multipla che l’ha progressivamente imprigionata in un corpo che non rispondeva più, mentre la sua mente restava lucida.

Accanto a lei, ogni giorno, c’era Stefano. «Lei diceva: “Non è mio marito, è il mio tutto”. Ma valeva anche per me. Laura non era solo mia moglie, era il mio tutto. Solo che io ci metto meno romanticismo e più verità: per aiutarla, ho dovuto aiutare anche me stesso. Non potevo diventare un secondo malato.»

Per mesi hanno lottato per ottenere in Italia il diritto al suicidio medicalmente assistito. Prima che arrivasse il sì ufficiale, avevano già prenotato — e poi disdetto — tre volte il viaggio in Svizzera.
«Ogni volta che sembrava tutto fermo, Laura diceva: “Prenotiamo”. Ma poi spuntava uno spiraglio, una possibilità in Italia, e decidevamo di aspettare ancora.»

L’ultima prenotazione era per il 30 giugno. Ma finalmente è arrivato il via libera dell’Azienda sanitaria. Così, il 21 luglio, Laura ha potuto scegliere il proprio tempo, il proprio spazio, il proprio addio.
«Non ha voluto salutare nessuno, né amici né parenti. Aveva paura che qualcuno cercasse di farle cambiare idea. Non voleva essere fermata.»

È forse la parola più inaspettata. Ma anche quella più giusta. «Sì, sul suo volto c’era felicità. Lo so che può sembrare un’eresia, ma pensi a una donna brillante, con una mente che viaggiava a 2000, costretta ogni giorno a sopportare dolori, infezioni, cateteri, immobilità totale. Morire per lei era libertà. Era il sogno più grande.»

Laura era agnostica, ma aperta. Nei suoi ultimi tempi aveva costruito un rapporto profondo con l’arcivescovo di Perugia, Ivan Maffeis:
«Una persona dal cuore d’oro, che ha saputo accompagnarci senza giudicare. È diventato anche un amico.»

Stefano ha scelto di non lasciare che questa storia finisca con l’ultimo respiro di Laura.«Ho grande orgoglio per ciò che abbiamo fatto insieme. Ricordo ancora quando, la prima volta, ho sentito pronunciare da lei le parole “suicidio assistito”. È stato come un pugno nello stomaco. Ma ho capito. E ora voglio continuare a lottare per questo diritto. In suo nome, e in suo onore.»