Tutto torna, anche gli Spinal Tap (e non solo loro)

Oggi vorrei parlare di reunion. Questo 2025, a occhio e croce, sarà l’anno della reunion degli Oasis, tanta è l’attesa per il ritorno sullo stesso palco dei fratelli Gallagher da Manchester, tante le speranze che quel ritorno sia foriero magari di ennesimi scazzi e risse sempre su quel palco, la voglia di sangue è caratteristica dei nostri tempi. Ma ormai da anni non passa stagione che non veda qualche band che si era giurata odio eterno rimettersi assieme, quasi sempre, se non proprio sempre e basta, spinta dal Dio denaro. Spesso, molto spesso, quasi sempre, le reunion hanno un grande successo, giocando sulla nostalgia di chi c’era e in qualche modo vorrebbe tornare indietro col tempo, e anche su chi non c’era e spera di assaporare qualcosa che pensava di aver perduto per sempre. A volte, raramente, succede il miracolo e quel che si trova davanti agli occhi e agli orecchi è all’altezza del passato, dire che in alcuni casi è anche meglio temo sia decisamente una esagerazione.

Nei fatti quello delle reunion è un mercato decisamente florido, anche perché oggi vige la regola della hit e del karaoke, quindi meglio le uova di ieri della gallina di oggi, e in fatto di reunion pensate solo all’Italia quel che succederà la prossima estate con il tour degli Afterhours, che in realtà non si era mai sciolto ma era entrato in sonno, come i terroristi che poi attendo una chiamata per risvegliarsi e colpire, in giro con Ballate per piccole iene in una versione che contempla il rientro in line-up di vecchi compagni di strada, o con i CCCP, in concerto, dicono, mentitori, per le loro ultime esibizioni, con tanto di finalone previsto al Circo Massimo di Roma, poi più cautamente spostato alla Cavea del Parco della Musica.

Discorso a parte meriterebbero le reunion con se stessi, i tanti ripensamenti rispetto a ritiri o certe parti del repertorio che ormai sono all’ordine del giorno. Io stesso ne ho fatta più di una di queste reunion con me stesso, nel tempo, quando nel 2014 ho deciso di tornare a scrivere di musica fuori dal mondo dei libri, tornando a mettere le mani sul formato più breve degli articoli, li chiamo per una volta così per farmi capire, anche se i miei tecnicamente non sono articoli, per forma, formato e stile, erano circa dieci anni che avevo tirato in remi in barca, giusto facendo qualcosa saltuariamente, ma mai programmaticamente, e poi un paio di anni dopo, quando ho ripreso a pubblicare libri con altrettanta programmaticità, io che ho sempre pubblicato titoli con continuità ho saltato il 2015 per scelta, intenzionato a non farne più, stanco di quel mondo che tante soddisfazioni mi aveva dato ma che mi sembrava, a ragione, si stesse deteriorando. Dichiarare un ritiro, ovvio che quando la reunion è con se stessi a quello si fa riferimento, e poi tornare sui propri passi è un grande classico, il solo Ivano Fossati, a memoria, a non aver tentennato sulla propria scelta, perché l’album in coppia con Mina era chiaramente qualcosa di straordinario. Ultimo in ordine di tempo, a occhio, Neffa, che dopo aver a più riprese proclamato il suo addio al mondo del rap è in procinto di tornare con l’album Canerandagio Parte 1, e buon per noi, si spera, che abbia cambiato idea. Del resto c’è quel famoso detto che solo gli stupidi non cambiano idea, detto supportato dal fatto che starsene per un po’ in pausa e poi tornare crei sempre aspettative, giochi sulla nostalgia e tutte le cose cui ho fatto cenno sopra, non voglio arrivare a dire che ci sia dietro un calendario prestabilito, ma magari una qualche strategia perché no. Arte e coerenza non devono necessariamente andare di pari passo, figuriamoci quando ci sono di mezzo soldi e mercato.

La faccenda potrebbe complicarsi, immagino, o forse diventare decisamente più semplice, quando una reunion, o un ritorno, chiamiamolo così, riguarda quelle realtà nelle quali l’identità degli artisti è in qualche modo ammantata di mistero. Pensate a una band come i The Residents, per dire, nei quali confronti non si può parlare di reunion per il semplice fatto che non c’è mai stato un ritiro, semmai qualche saltuaria pausa, chi mai potrebbe dire con certezza se qualcuno ha defezionato, qualcuno lo ha sostituito? Certo, possono i diretti interessati, che infatti in qualche modo lo hanno lasciato intendere, ma il fatto di non apparire mai con la propria faccia, la maschera a forma di bulbo oculare con su il cappello a tuba è noto anche a chi non li segue musicalmente rende il tutto decisamente sfumato, misterioso, avvolto da un manto di confusione. Ovviamente la faccenda del bulbo oculare e il cappello a tuba sarebbe geniale a prescindere, anche se si sapesse nome, cognome e anagrafe di chi ci si nasconde sotto, ma quella è altra faccenda, già solo il fatto che il nome della band dipenda dal fatto che i nastri mandati in Warner nel 1971 non avessero un mittente, complice nell’invio quel pazzo di Captain Beefheart, e che quindi fosse tornato indietro con la dicitura “to the residents”, rispedire al mittente, mi sembra indicativo del loro essere puri geni situazionisti. La faccenda dell’essere misteriosi, ho buttato lì la cosa, ora mica posso ritirare la mano, è un valore aggiunto, è chiaro. Senza star qui a tirare in ballo The Young Pope di Paolo Sorrentino, citare Sorrentino è sempre cosa buona e giusta, ma stare in un cono d’ombra, sia ombra vera come il Jude Law della serie tv, o in un cono d’ombra metaforico, da JD Salinger, Banksy, Daft Punk o Mina, cito a memoria, lì più di ombra si parla proprio di invisibilità, è evidente che il non esserci, su questo si interrogava anche Nanni Moretti nel passaggio più famoso di Ecce Bombo, forse il passaggio più citato di tutta la sua cinematografia, è oggetto di attenzione assai più dell’essere sotto i riflettori, roba quasi impensabile oggi, nell’era dell’apparire giorno per giorno sui social, degli avatar, delle foto e dei reel un tot al minuto. Per anni ho pensato che è quello che avrei dovuto o voluto fare anche io su me stesso, i primi anni nei quali ancora cullavo l’idea di essere uno scrittore e basta, senza bisogno di far altro che starmene lì a scrivere, facevo girare solo una mia foto sfocata, proprio alla Salinger, nel mio caso con una bandana in testa a raccogliere i capelli, la citazione era ovviamente di David Foster Wallace, nel suo una foto da lontano, due buste della spesa, un vecchio trench, un cappello in testa, e anche oggi, nonostante la pervasività delle attività sui social, le centinaia di videointervista, di videocast, la mia foto che gira è sempre la stessa, gli occhialoni rosa e i due codini ai lati, roba di quasi dieci anni fa. Scomparire dopo essere apparso mi risulta impossibile, il diritto all’oblio è faccenda sulla quale si continua legittimamente a discutere per faccende assai più seria di questa, ma nel mio caso sarebbe impossibile, e me ne spiaccio. Il fatto che io sia apparso, diciamo così, nel senso che sia diventato molto visibile proprio nel momento in cui più di sempre sarei dovuto rimanere nell’ombra è un fatto col quale faccio i conti quotidianamente, ma le cose sono in effetti andate così. Era proprio durante quella pausa tra la pubblicazione di quello che pensavo sarebbe stato il mio ultimo libro, il sessantettesimo della mia produzione, e il successivo, oggi sono in procinto di pubblicare il novantottesimo, sì, sono piuttosto prolifico in fatto di libri, pausa nella quale avevo deciso di mettere le mani sulla discografia in maniera concreta, quando ho cominciato a collaborare col sito del Fatto Quotidiano, chiamato da Peter Gomez per costruire le pagine di spettacolo in vista di una imminente e mai realizzata quotazione in borsa del giornale in questione, e di lì sono stato chiamato a prendere parte in veste di critico musicale al DopoFestival di Nicola Savino e la Gialappa’s band, il ritorno del DopoFestival dopo anni di pausa, divenendo di colpo non più solo una firma ma una firma con una faccia e una voce. Una faccia, una voce, dei capelli lunghi raccolti in una coda sopra la testa, come Busta Rhyme, e strane felpe, come quella del West Ham, la squadra che ha tra i propri tifosi i famosi hooligan, un modo piuttosto dirompente di apparire per uno che voleva rimanere nell’ombra, converrete. Fatto, questo, che ha ovviamente impattato proprio con quello che nel mentre stavo provando a fare in discografia, il lancio di una fittizia band tutta al femminile. Una operazione che io leggevo, anzi, scrivevo e leggevo come dadaista, situazionista, parte di una performance artistica che contemplava il supporto di tanti altri artisti, complici più o meno volontari in questo mio performare. Mi ero ispirato, ovviamente, e in maniera anche piuttosto dichiarata, a This is Spinal Tap, mockumentary diretto da Rob Rainer esattamente quarant’anni fa oggi, storia della band heavy metal Spinal Tap, con tanto di apparizioni di personaggi noti dello show business musicale quali David Bowie. Un film che racconta la storia del trio metal, con tanto di concerti negli stadi, solo che la band in questione non è mai esistita. O almeno, non era esistita fino a quel momento, interpretata sul grande schermo da tre attori, Michale McKean, Christopher Guest e Harry Shearer, nella finzione i tre membri della band in questione. Un finto documentario in tutto e per tutto plausibile, verosimile, ma comunque finto. Ma di quella finzione tipica della letteratura, della narrativa, al punto che di lì in poi i tre hanno davvero dato vita alla band, incidendo dischi, facendo concerti e via discorrendo, a breve è prevista l’uscita di un nuovo film, immagino per il quarantennale del primo. A riguardo, prima di andare avanti, visto che si era partito dalla reunion degli Oasis, va raccontato di quando Noel, nel 2005, sputtanò suo fratello Liam, raccontando di come, dopo aver visto il mockumentary di Rob Rainer, il fratello minore dei Gallagher fosse diventato un fan della band, senza però capire che di band fittizia si trattava, al punto da averli voluti conoscere in occasione di un loro concerto alla Carnagie Hall di New York cui la band di Manchester era presente durante una data off del loro tour. Bene ma non benissimo, si dice in questi casi.

A me era ben chiaro che di finto documentario si trattava, questo significa Mockumentary, mock+documentary, per questo, nell’idea di raccontare la storia di una band fittizia, un trio femminile, c’era quel germe lì, This is Spinal Tap. Ovviamente, con me funziona sempre così, prima è nata l’idea, la trama, poi il resto. Mi era stato chiesto di raccontare a puntate una biografia di un artista per un sito che si occupava di musica italiana, ai tempi il mio core business era quello delle biografie dei cantanti, ne pubblicavo con un po’ tutti gli editori, vendendo anche parecchio, così avevo deciso di raccontare la storia di una band che però non esisteva. Lo avevo fatto dal punto di vista del loro manager, uno che assomigliava maledettamente a me. Tutte le mie biografie, anche quelle dei cantanti famosi, a volte anche quelle firmate da me coi cantanti famosi, partono da un punto di vista piuttosto singolare, forte. Questo manager a me somigliante viveva chiuso in una casa in via Tadino 52, a Milano, zona Corso Buenos Aires, e di lì non sembrava intenzionato a uscire, la storia della band, al passato, non si sa bene se già vissuta o ancora in progress. L’ispirazione, anche lì non mi ero inventato niente di particolare, Great Street Jones di Don De Lillo, dove a vivere recluso era invece l’ex rockstar Bucky Wunderlick. Pubblico la prima puntata, poi la seconda, poi la terza, mettendoci dentro aneddoti vissuti da me in prima persona, mescolando finzione a realtà, rendendo alcune comparse riconoscibili ai lettori, proprio per generare ambiguità. Arriva la prima telefonata, di un editore musicale, il quale mi chiede qualcosa di questa fantomatica band femminile. Dove trovarla, dove poter ascoltare qualcosa. Rispondo imbarazzato, senza specificare che è tutto frutto di finzione. Arriva una seconda telefonata, di un discografico, poi è la volta di un manager, che seduti al tavolo di un bar mi chiede perché mai io, a conoscenza di un gruppo così cool, nella finzione ne parlavo come della band più rilevante del panorama italiano, non avessi pensato a lui come manager, perché non gliele avessi proposte. Capisco che è forse il caso che io metta su la band, tanto per divertirmi un po’. Inizio a cercare collaboratori, ma ho tutto molto chiaro in mente, forse anche troppo. Quindi prima cerco qualcuno che possa accompagnarmi per quel che riguarda la musica, poi qualcuno che segua il tutto dal punto di vista del racconto in video, e anche chi abbia voglia di starmi a fianco per la parte scritta, perché è evidente che questo non sarà appunto solo un progetto discografico, ma anche documentaristico e pure editoriale. Strada facendo qualcuno si perde per strada, come credo sia normale in progetti comunque partiti dal basso, e mai tentati prima, quindi senza un metro di paragone, un parametro. Quello che però realmente manca, so che la cosa sembrerà bizzarra, sono le ragazze, la band. Facciamo audizioni in scuole di musica a Milano e provincia, intercettando anche qualche nome che poi si farà largo sul mercato o in tv, Marte Marasco, per dirne una, Vi, anche una tizia che non andrò a citare, che poi presenterà programmi in Rai. Nel mentre ho ripreso a scrivere per il Fatto Quotidiano, appunto, quindi il mio nome è tornato sulla scena, facendosi notare neanche poco. Sono quello che stronca i giganti, senza problemi, tanto non ha niente da perdere perché ha una carriera da biografo e scrittore a latere. Sono anche quello che risponde ai commenti, blastando gli haters, quello che finisce nel mirino dei fanclub degli artisti che stronca, quello che polemizza con gli artisti sui social, a mio modo divento una piccola star. Per me è una cosa di passaggio, è il mockumentary quello che mi interessa, al momento. Decido di costruire il tutto intorno a una mia vecchia conoscenza, una cantautrice talentuosissima. Le altre due vocalist sono altrettanto brave, ma con assai meno background. Una salta poco prima di arrivare in studio, sostituita all’ultimo da una new entry, ma il progetto è talmente fittizio che anche loro stesse faticano a capirlo, sembra, perché quando si tratta di giocare hanno spesso un problema di messa a fuoco del tutto. Iniziamo a registrare in uno studio mobile, in Svizzera, sopra Lugano. Una soluzione interessante, ma che non funziona per incompatibilità tra produttore e fonico, io sono il produttore. Troviamo una soluzione alternativa, per altro piuttosto di rilievo, andiamo a incidere tutto negli studi di Niccolò Fragile, a Milano. Lì vengono ingaggiati signori turnisti, Diego Corradin alla batteria, Monica Magnani ai cori, Paolo Petrini e Nicola Oliva alle chitarre, Luca Scansani al basso, lo stesso Fragile ai piani e le tastiere, e lì incidono a turno le tre ragazze, oltre che buona parte degli ospiti. Io sono l’autore di tutti i testi, oltre che di parte delle musiche. Altre le firma proprio Niccolò Fragile, un paio una cantautrice triestina che molto apprezzo, Chiara Vidonis. Niccolò arrangia, io produco. Gli ospiti sono tutti miei contatti, suppergiù, e vengono inseriti nei brani come in seguito ci abitueremo a vedere in tutti i dischi urban, trap o rap. Quando si dice di essere troppo avanti. C’è Enrico Ruggeri, che rappa, sì avete letto bene, dentro Quando si parte si parte. C’è Federico Zampaglione dei Tiromancino, con una voce insolitamente profonda, nel pezzo Non ti sento, dove è presente anche Romina Falconi. C’è Sara Mazo degli Scisma in Una per una. Poi c’è Andrea Mirò, che con me ha firmato Quello che gli occhi, dove è presente con un feat, e presente anche in Io so cos’è bruciare. C’è Manupuma, in Poco più in la. Matteo Gabbanelli dei Kutso nella ballad Irraggiungibile. Garbo, in un mini-feat contenuto in Non chiedermi perché, e infine Claudia Megrè, divenuta popolare proprio ai tempi per un jingle pubblicitario, in La terra sotto i piedi. Insomma, un sacco di carne al fuoco. Vado da Alessandro Massara, CEO della Universal Italia, e gli propongo il disco. Lo stesso giorno in cui vado lì, tanto per non far pensare che sia io la moneta di scambio per la pubblicazione di questo disco, stronco violentemente l’ultimo disco di Emma, cavallo di punta della medesima etichetta discografica. Racconto cosa ho in mente, e Massara decide di pubblicare il disco d’esordio della band, di cui, però, comunico non si sapranno ancora nomi e facce delle protagoniste. La copertina, infatti, è un triangolo fatto con dei peperoncini rossi, su fondo bianco. Nel back ci sono tre dettagli delle ragazze, uno a testa, ma nessuno prevede il viso. C’è l’ombelico per MariaChiara, il sedere per Scyana, una tetta per Allegra. MariaChiara lascia la band prima che il disco venga pubblicato, proprio perché quel che ho in mente non le è troppo chiaro. Per lanciare il progetto, perché di progetto si trattava, ho chiesto a una serie di artisti e addetti ai lavori del settore musicale, di mandarmi un video nel quale raccontavano del loro rapporto della band, di come avesse influenzato le loro carriere, un aneddoto, quel che volevano. Tutto finto, era un mockumentary, su questo ero stato chiaro. Hanno aderito in tanti, alcuni per amicizia, altri che neanche conoscevo ancora di persona. Quindi ecco Caparezza, Rancore, Max Pezzali, Mara Maionchi, suor Cristina, Cristina D’Avena, Enrico Ruggeri e tanti altri star lì a endorsare una band finta, frutto della mia fantasia, per lanciare un disco che però era vero, fatto di canzoni che avevo scritto, alcune delle quali addirittura negli anni Ottanta, e su cui avevano duettato artisti che stimavo. Ho proposto a Gomez di pubblicare quei video sul sito del Fatto Quotidiano, uno alla volta, come in un count down. Una operazione di guerrilla marketing piuttosto centrata, direi, con qualche milione di visualizzazioni a riprova che l’idea girava bene. Del resto inizialmente avevamo deciso, parlo dei primi tempi in cui avevo pensato di dar vita alla band, almeno un paio di anni prima, di fare un altro tipo di guerrilla marketing. Siccome erano imminenti non ricordo che elezioni, probabilmente le europee, avevo pensato di appiccicare su tutti i manifesti elettorali le tette delle ragazze. O meglio, avevo pensato di far appiccicare un banner con su le tette delle ragazze sopra i doppipetti dei candidati, e farli appiccicare direttamente dalle ragazze, il tutto sotto l’occhio attento delle telecamere delle Iene, che sembravano interessate al nostro progetto. Il singolo di lancio sarebbe stata una canzone pensata ad hoc, con chiaro riferimento alle elezioni. Poi avevamo cambiato anche in maniera violenta la line-up del trio, e tutto era saltato.

L’uscita del disco, fine gennaio 2026, arriva a pochi giorni dal momento in cui la mia firma, nel mentre diventata piuttosto popolare grazie alle mie critiche potenti ma anche al mio rispondere a tono a hater, fanclub e artisti, viene associata a una faccia, lì dentro le televisioni, al punto da pormi di fronte a un bivio, come quello nei programmi di Enrico Ruggeri: o puntare sul mio progetto musicale, la performance, la finta band femminile, o rimboccarmi le maniche e investire sulla mia firma, legata alla mia faccia, tornare davvero a fare il critico musicale a tempo pieno, lasciando momentaneamente da parte le velleità artistiche. Il fatto che il trio di vocalist perdesse pezzi, da tre erano diventate due, e che comunque ero da solo a portare l’acqua a quel mulino lì a facilitarmi nella scelta, quasi obbligata. Oggi leggo che si parla della reunion delle Bikinirama, questo il nome della band in questione, in occasione del decennale dell’uscita del loro fin qui unico e omonimo album. Dieci anni nei quali il mercato ha continuato a essere a prevalenza maschile, nei quali l’Italia è continuata a essere una nazione in mano agli uomini, nonostante a Palazzo Chigi ci sia un presidente del consiglio donna, sua la scelta di usare un maschile per essere definita. Un ritorno inatteso, vista la veloce fiammata che è coincisa con la loro carriera, che da quel che si evince dalle poche, sparute leaks sarà una sorta di versione bikiniramesca di quel Plagiarism dei giganteschi Sparks dove i fratelli Russle e Ron Mael, raccolta dopata, riveduta e corretta di quel che è stato, con ulteriori collaborazioni. Curioso a questo punto di capire se anche loro, chiunque loro siano, come i fratelli Mael sulla copertina di quel favoloso album a firma Sparks, decideranno di apparire sotto steroidi nella copertina. Certo, ci sarebbe un problema di censura, almeno per le condivisioni poi sul fronte social, seppur la recente esperienza sempre su quel crinale da parte della Doechii di Anxiety, passata proprio sotto le sembianze di un bodybuilder maschio sulle pagine di Paper Magazine, abbia dimostrato come la fantasia può aggirare qualsiasi ostacolo, e comunque la copertina decisamente più diretta di There Will Be No Intermission di Amanda Palmer (curioso che la parola Intermission, intervallo in inglese, compaia all’interno di un pezzo che ha visto citati in precedenza i The Residents, che hanno pubblicato un EP dal titolo Intermission, outtake del gigantesco e fallimentare progetto The Mole Trilogy, la trilogia della talpa, poi divenuta il Mole Shoe), Amanda Palmer nome di questi tempi forse poco praticabile vista l’ambiguità del suo ruolo nelle vicende che vedono il suo ex marito Neil Gaiman accusato di violenze e molestie, ma decisamente in prima linea per l’abbattimento di stereotipi e bigottismi. Lì la cantautrice di Boston appariva su un cippo, come una versione al femminile dell’Arcangelo Michele, per dirla con le parole di Marina Lante delle Rovere con indosso la sola pelliccia che non si vergognava di indossare. Non resta altro da fare che aspettare pazientemente, a settembre nei cinema arriverà il sequel degli Spinal Tap, proprio recentemente, al Coachella, Rivers Cuomo degli Weezer ha dichiarato che si metterà al lavoro su un film, già circolano voci abbastanza certe che si tratti di un mockumentary sulla sua band con tanto di ruolo previsto per Keanu Reeves, della serie quando i pianeti si allineano si allineano, e se tanto mi da tanto a gennaio 2026 il Plagiarism delle Bikinirama, non manca poi così tanto.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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