Su 3021 di Angela Baraldi (e sul perché ho lasciato MowMag)

Vi prego fermatemi”. Immaginatevi questa scritta fatta col sangue, sulla parete di una scena del crimine. Oppure sullo specchio di un bagno, un cadavere da qualche parte nei pressi. Il fatto è che, a passare di palo in frasca, ci ho preso gusto, e in fondo l’idea di proseguire lì dove mi ero fermato giusto qualche ora fa non mi dispiace affatto. Anzi. Sono partito, più o meno, partendo dal rapporto tra pop e morte, il tutto prendendo il la da una visita imprevista a Talponia, a Ivrea (qui https://361magazine.com/il-pop-puo-cantare-di-tutto-dalla-vita-alla-morte-cosmo-e-antonella-ruggiero-ne-sono-la-prova/), per poi proseguire parlando di divani e di canzoni (qui https://361magazine.com/canzoni-da-divano-divagazioni-intorno-alla-musica-di-simona-severini/), foto onnipresenti di Simona Severini su un divano a fare da bussola mentre mi muovo da fermo sul mio, di divano. E siccome quelle foto erano tutte sì su un divano, ma a piedi scalzi, l’educazione questo impone quando si sta stravaccati su un divano, ecco allora che di piedi e della cantantautrice scalza ho parlato (qui  https://361magazine.com/patrizia-laquidara-la-cantautrice-scalza/). In mezzo un tot di altri pezzi, sempre sul long form, ma un po’ meno slabbrati, credo, almeno questa è la mia percezione. Solo che se si parla di cantautrici e di piedi, temo, non posso non citare una collega di Patrizia Laquidara, di lei si parlava lì. E no, non sto parlando dell’antica Sandie Shaw, la prima che ha calcato le assi dell’Ariston e non solo dell’Ariston, senza scarpe addosso. E neanche di Joss Stone, che oggi come oggi, è colei che prima salta in mente a livello internazionale se si parla di cantautrici scalze. Joss Stone che ha collaborato con un gruppo mica male di star, anzi due gruppi mica male di star. Nel 2011, infatti, ha affiancato nientemeno che dei giganti come Mick Jagger, dire dei Rolling Stones credo sia offensivo nei vostri confronti, e Dave Stewart, medesimo discorso rispetto agli Eurythmics, oltre che Damien Marley, ovviamente figlio di Bob, e A.R. Rahman, autore di oltre una trentina di colonne sonore per il cinema. Nome del gruppo, vagamente sviante, SuperHeavy. Nel 2017, invece, è a Nitin Sawhney che si affianca, nome pesantissimo della world music in odor di elettronica, e con loro Jonathan Shorten, Jonathan Joseph e Étienne M’Bappé. Certo nomi meno pesanti di quelli dei SuperHeavy, ma comunque di grande qualità, nome del progetto Project Mama Earth. Citando Joss Stone, per altro, non si può, credo, non citare anche Michael Franti, altro artista che a un certo punto ha smesso di usare le scarpe, nel suo caso anche fuori dal palco. Già fondatore dei seminali Beatnigs, con il producer Rono Tse, poi a dar vita sempre insieme ai Disposable Heroes of HipHopRisy, cui molto devono gli U2 del periodo Achtung Baby/Zooropa, loro un album di spoken word nientemeno che con William Burroughs, poi ha dato vita ai Spearhead, band da noi tristemente nota per delle collaborazioni passate con Jovanotti, ma in realtà meritevolissima di attenzione per meriti propri. Io con Michael Franti ho un aneddoto particolare, anche lì lui a piedi scalzi, relativo a ventiquattro anni fa, quando lui era in Italia per promuovere l’album Stay Human, nel corso degli anni seguito da altri due volumi con il medesimo titolo, in mezzo a decine di altri lavori. Nell’ambito della promozione era previsto anche un concerto all’Auditorium di Radio Popolare, già in zona MacMahon. Io e mia moglie andiamo, perché prima avevo l’intervista per Tutto Musica, con cui collaboravo ai tempi, poi rimaniamo per lo show case, seduti in prima fila. Un concerto in diretta radio, travolgente, Michael è una vera forza della natura, il suo new-soul sempre trascinante. A un certo punto invita tutti a alzarsi, e così facciamo, tranne mia moglie, in cinta di sei mesi. Lui non si accorge di questo dettaglio, in realtà abbastanza vistoso, e la rimbrotta dal microfono, come a dire “ma tu perché non ti alzi”. Al che lei indica la pancia, e lui, nel bel mezzo del concerto lascia il palco, viene a chiederle scusa e si ferma a chiacchierare con lei, chiedendole come sta, se sa di che sesso sarà il nascituro, in realtà scopriremo di lì a breve nascitura, quella Lucia che scrive anche da queste parti, e per quando è previsto il lieto evento, il tutto mentre la band continua a suonare. Poi si volta e torna sul palco a cantare e farci ballare. Ma non è di Sandie Shaw o di Joss Stone, tantomeno di Michael Franti, che non posso non parlare quando l’argomento è cantautorato femminile e piedi. E star ora qui a citare, che so?, Anna Oxa, che recentemente ama calcare le scene scalza, o Marina Rei, che ai tempi a sua volta l’ha fatto dal palco di Sanremo, per non dire di Shakira, dico Shakira, o Cesaria Evora, sarebbe sì un rimpolpare il gruppo di chi ha cantato o canta senza scarpe, ma evidentemente non andando nella direzione che intendo intraprendere. E dire che anche su Shakira avrei un bell’aneddoto, che confesso mi è già capitato di raccontare altrove. Era sempre il 2001, e scrivevo quindi per Tutto Musica, quando mi propongono di intervistare questa cantante colombiana che sta provando a conquistare l’Europa, oltre che gli Stati Uniti. Per farlo ha optato per cantare in inglese, il titolo dell’album che presenta è Laundry Service, il titolo del singolo di lancio Whatever Whenever, e ha anche optato per farsi bionda, quella della blondization mi racconterà durante l’intervista è per lei un passaggio fondamentale, pensa te che idee dell’occidente che si ha al sud del mondo. Vado a questa round table, che è poi il nome che la discografia ha per farsi figa quando propone interviste fatte da quattro o cinque persone, round table starebbe per tavola rotonda, e ci vado facendo un po’ il cazzone, già ai tempi mi piaceva molto scherzare col mio ruolo di scrittore prestato alla critica musicale: mi presento vestito completamente di nero, pantaloni di pelle e camicia d’ordinanza, i capelli lunghi neri allora e sciolti, una valigia vuota con me. Se avete visto El Mariachi e il successivo Desperado di Robert Rodriguez avrete capito cosa stavo citando, e il citarlo andando a intervistare una cantante colombiana vi dirà quanto io fossi fesso e anche un certo latente aderire a certi stereotipi biechi da parte mia. Nei fatti durante l’intervista, ero l’unico uomo presente, forse proprio per la faccenda della blondization le altre colleghe presenti erano tutte di femminili, Shakira ci ha incantato, e essendo io il solo uomo presente ha ovviamente usato me per far leva su tutte, imbambolandomi senza possibilità di opporre resistenza. Finita l’intervista ero un suo fan sfegatato, e mi avesse chiesto di portarla in capo al mondo l’avrei fatto. Il passaggio nel quale mi chiede se mi va di farle da insegnante di italiano, suppongo, il momento in cui il mio cuore ha ceduto per sempre. Peccato che di lì a breve, credo un paio di settimane, sia arrivata in Italia una cantautrice messicana, Paulina Rubio, a sua volta intenzionata a conquistare il mercato europeo, va detto senza il medesimo riscontro poi di Shakira, e anche lei, durante l’intervista, mi abbia detto esattamente la stessa cosa, a riprova che certi biechi stereotipi non sono poi così malriposti, e che anche noi italiani dobbiamo essere parte di biechi stereotipi agli occhi delle cantautrici centro e sudamericane.

Ma io oggi non voglio parlare neanche di Paulina Rubio, sto gigioneggiando anche perché, in realtà, mi ero riproposto di usare questo pezzo per fare un piccolo chiarimento sul perché, dopo quattro anni, io abbia deciso di mollare il magazine per cui ho scritto fino alla settimana di Sanremo, andando col medesimo magazine a coprire le interviste fatte per conto del Villaggio del Festival in quel di Villa Ormond, MowMag. Questo un mese e poco più dopo il mio addio e di conseguenza il mio inizio qui, su 361Magazine.

Il motivo per cui, dopo più di un mese, ho deciso di fare chiarezza, è perché non l’ho fatto ai tempi, e in queste settimane in tanti mi hanno chiesto il motivo di una rottura avvenuta per altro dopo un Festival particolarmente fruttuoso. Molti lettori, molti conoscenti, e praticamente tutti gli addetti ai lavori, compresi alcuni colleghi critici musicali che sono stati contattati per andarmi a sostituire, stando a quel che vedo senza poi accettare la proposta ricevuta, forse anche per le motivazioni che in quel caso ho dato in privato, la soluzione adottata di andare a intervistare chi evidentemente non si può avere la trovo curiosa, ma quantomeno non incide sul budget.

Il fatto è che già da un po’ non mi trovavo a mio agio in quel contesto. Non ho mai ben capito l’idea di linea editoriale che si basava sul non avere una linea editoriale, quindi nel dire A e il contrario di A, ma non sono un editore né un direttore di testata, ci sta che io possa non capire ciò. Ho però spesso provato disagio per alcuni articoli che leggevo intorno ai miei pezzi, si parlasse della guerra che Israele sta portando contro la Palestina, o quella tra Russia e Ucraina, a volte anche per pezzi più leggeri che concernevano più da vicino il mio campo, la musica. Mi sono quindi trovato a volte a dover difendere con artisti e uffici stampa l’operato di colleghi che neanche conoscevo, ma che addirittura non condividevo, e ho cominciato a trovare la cosa fastidiosa. Quando ho poi visto una piega davvero poco vicina al mio modo di sentire, dar seguito alle tante dichiarazioni di Fabrizio Corona, al punto da costruirci intorno un evento proprio durante il Festival che ha distratto per altro le forze da quel che stavo facendo lì con mia figlia, in teoria parte di una squadra di dodici persone che però era appunto tutta intorno a lui, quando ho visto che si continuavano a pubblicare pezzi su mutande assenti da parte di cantanti che poi io e mia figlia ci saremmo trovati a intervistare di lì a qualche ora, arrivando poi al paradosso di ritrovarmi, tornato a Milano, a vedere che si dava spazio con un podcast a quel Leonardo Caffo che ai tempi di Più libri Più liberi si era contribuito a far sbattere fuori dalla manifestazione diretta da Chiara Valerio, per un processo in corso per maltrattamenti alla moglie, nel mentre è anche arrivata una condanna a quattro anni e mezzo in primo grado, dicendo che è una questione di diritto di parola e di diritto al lavoro, beh, lì mi è parso che si stava davvero andando troppo lontano da quel che è il mio modo di intendere questo mestiere.

Capisco la voglia di attirare attenzione, l’hype e quindi il click è qualcosa che gli editori cercano, ci mancherebbe, ma farlo per farlo, onestamente, mi è parso un palesare mancanza d’altro. Va bene essere letti, ma diventare una sorta di alt-right, a volte neanche troppo alt, non era quello che ci eravamo detti, e mi sono tirato fuori. Del resto anche le polemiche fini a se stesse, il dover fare “domande alla Mow” nelle interviste, questo mi è stato chiesto inizialmente, come se fare domande in apparenza scomode fosse una loro recente invenzione cui dar seguito, il tutto a discapito di contenuti magari meno in hype, ma appunto contenuti e non contenitori, sostanza e non forma. Perché, va detto, e ora capirete perché ne stia parlando in questo specifico pezzo, nel mentre più e più volte mi è capitato di sentirmi dire che questa o quella proposta non andava bene, perché non era abbastanza calda in fatto di hype e di click, adducendo a tratti un dover contingentare le uscite per una faccenda di budget, ma se poi vedi che i budget saltano fuori per dar voce a chi solo nei click ha una ragion d’essere, tanto più con una mancanza di coerenza clamorosa, lì a Più libri Più liberi il diritto di parola e di lavoro non c’era, ora invece evidentemente sì, beh, per me è arrivato il momento di andarmene, anticipato giusto di qualche ora da mia figlia Lucia, che ha rassegnato le sue metaforiche dimissioni, chi è free lance come noi non è assunto quindi non deve dimettersi da alcunché.

Non voglio che il mio nome sia associato a quello di Corona, o a quello di Caffo, e anche a alcune delle firme della testata per la quale ho scritto, con immutato affetto per un progetto nel quale ho comunque creduto e che ho decisamente contribuito a far crescere, quando ci sono arrivato quattro anni fa ero decisamente più “grosso” io del magazine, come nome, almeno nel campo musicale e dello spettacolo, e credo non solo, e che spero prima o poi imbocchi la retta via.

Sono stato punk prima di voi, ragazzi, parafrasando il mio amico Rouge, ma lo sono stato davvero, non perché mi sono messo una maglietta stinta con la varechina e un anello al naso. Sono stato e sono punk, la frase andrebbe chiusa qui.

Tornando però al discorso in essere, per cui mi sembra coerente l’aver raccontato finalmente perché me ne sono andato per trovare casa qui, presso l’editore con cui già da un anno in massima libertà ho lavorato a Musicleaks, quasi duecento puntate registrate, uno dei pezzi che ai tempi non hanno voluto era un mio discorso intorno a 3021 di Angela Baraldi. Curioso che a dirmi di no fosse il collega incaricato di vestire i panni da caporedattore, che poi è andato a scriverne altrove, questa un’altra cosa di quella testata che ho sempre faticato a capire, ma nei fatti mi si diceva che non era notizia abbastanza interessante, in hype. Ovviamente non sono affatto d’accordo, altrimenti non l’avrei proposta, e altrimenti non sarei qui ora a parlarne, con qualche settimana di delay, approfittando del fatto che Angela Baraldi, cantautrice, attrice di teatro e cinema, oltre che di televisione, sia passata ormai trentadue anni fa dal più volte citato Ariston di Sanremo, durante il Festival, con una canzone dal titolo A piedi nudi. Angela aveva già esordito nel 1990, prodotta e scoperta da Lucio Dalla, che qui in 3021 è presente, evocato a più riprese, e tre anni dopo eccola in gara con una ballata chitarristica poi presente nel suo secondo album Mi vuoi bene o no?. Canzone subito eliminata, Sanremo è Sanremo, come diceva il noto jingle scritto da Pippo Caruso, impunemente sostituito da Carlo Conti con quella robaccia di Tutta l’Italia di Gabry Ponte, ma vincitrice del Premio della Critica per la sezione Nuove Proposte. Da lì parte una carriera sempre a altissimi livelli, pur in una parsimonia di uscite da far quasi venire i nervi, lei nel mentre passata anche alla recitazione con un successo notevole incontrato con Quo vadis baby, prima il film di Gabriele Salvatores, poi la serie per Sky diretta da Guido Chiesa, noir tratti dai libri di Grazia Varesani. Dopo averla apprezzata anche a fianco di Massimo Zamboni in una rilettura dei materiali dei CCCP e dei C.S.I., poi nella versione post-C.S.I. del gruppo, l’ho ammirata l’estate scorsa in apertura del tour di Francesco De Gregori, fatto per me anomalo. Sono anni, infatti, che sono piuttosto critico nei confronti dell’operato del Principe, a mio avviso ostinatamente incaparbito a lasciare di sé un brutto ricordo andando non solo a rovinare i gioielli tirati fuori nel passato, ma a tratti aggiungendovi brani e album nuovi assolutamente irrilevanti, per cui andare a vederlo dal vivo non rientrava esattamente nei miei programmi. Però l’opportunità di vedere anche Angela Baraldi, così parca nelle uscite, mi è parsa troppo ghiotta, tanto più che era in concerto a Porto Recanati mentre io ero nella vicinissima Ancona. Scelta assolutamente azzeccata, perché Angela ci ha regalato qualche estratto proprio dal suo nuovo lavoro, che non sapevo sarebbe uscito di lì a qualche tempo, andando poi a duettare col nostro in Anidride Solforosa di Lucio Dalla, come già i due avevano fatto in passato. Va anche detto che pure il concerto di De Gregori valeva il prezzo del biglietto, che per altro non ho pagato, perché il nostro è stato generosissimo nell’andare a pescare chicche nel suo repertorio, perché ha anche molto parlato e soprattutto non ha cambiato le versioni dei suoi classici, come bobdylaniamente è solito fare da sempre, lasciandoci godere della sua arte. Dico solo che alla fine del concerto, quando su Buonanotte fiorellino ha invitato chi volesse a alzarsi e danzare, mi sono trovato sotto il palco con mia moglie, avesse solo saputo che tra gli altri c’ero anche io, che così tante volte l’ho stroncato. Tornando a Angela Baraldi e a quel gioiello vero di 3021, scritto con Federico Fantuz e tirato fuori a ridosso di Sanremo, fottendosene delle strategie, è composto di otto nuove canzoni, tutte notevoli, profonde, dotate ognuna di vita propria, d’autrice. Pochi, otto pezzi, forse, non fossero così carichi di bellezza e significato, il suo piglio rock qui molto spesso rallentato, messo al servizio di brani più lenti, profondi, a tratti malinconici. Impossibile star qui a dire quali sono le canzoni migliori, perché sono tutti migliori, e per migliori si intende meglio della stragrande maggioranza della musica che gira intorno, pensiamo al passaggio in avanti spinto di 3021, un rapporto stretto tra i testi e la cosmogonia, tra i Cosmonauti che danno il titolo al secondo brano passando per le stelle citate in Corvi o la conclusiva Saturno,

Un lavoro arrivato con lentezza, quella che Angela si è concessa per dare un seguito al precedente lavoro, otto anni sono davvero tanti, e scavato in profondità, senza tenere conto delle istanze dell’oggi, gli algoritmi, le paraculate varie che son passate dallo stato di moda a quello di necessità (per gli altri, evidentemente). Un album suonato e cantato, che detto così può sembrare una cosa scontata, ma che scontata non è. Una bocca d’ossigeno, avremmo detto in passato, ma che oggi appare più come una tracheotomia fatta con una penna bic da uno dei protagonisti di Grey’s Anatomy, mentre stiamo boccheggiando a terra in una supermercato in apnea. Durante la presentazione del disco, quella che non ho potuto raccontare laddove scrivevo ai tempi, Angela ha in qualche modo detto di aver finalmente tirato fuori canzoni nuove al fine di fare poi un ipotetico tour, ringraziando Francesco De Gregori per averla spronata a scrivere, prima, e per aver deciso di pubblicarla con la sua etichetta Caravan, poi. Tocca davvero ringraziarlo, De Gregori, perché un mondo dove Angela Baraldi non può pubblicare canzoni sarebbe davvero peggio di quanto non sia. E tocca ringraziarlo anche perché in effetti l’uscita del disco in questione ha permesso a Angela di tornare in tour, stasera, per chi fosse su Milano, la trovate all’Arci Bellezza, per altro con Giulia Mei (ne parlavo giusto qui https://361magazine.com/giulia-mei-della-musica-ne-capisce-eccome-non-fidatevi-dei-titoli/) in apertura. Assolutamente da non perdere.

Il nuovo singolo è Cosmonauti, fuori da venerdì scorso, qui trovate anche la versione video, https://youtu.be/CI6uzqSivNQ, un video girato presso l’Interferometro Virgo di Cascina, davvero spettacolare. Nel video di lancio del singolo eponimo, 3021, invece, questo https://www.youtube.com/watch?v=gIeBGj9uXKc, Angela appare senza filtri, si intuisce nude (in realtà è inquadrata mentre ruota su se stessa a mezzo busto). Una scelta che è stata indicata come coraggiosa, anche se trovo che il mostrarsi come si è sia un gesto di grande bellezza, lei lo aveva fatto da giovanissimissima nel video degli Stadio Chiedi chi erano i Beatles, con un Gaetano Curreri vagamente mimetizzato col Tom Petty di The Great Wide Open, e poi nella copertina di Viva, dove appariva nuda di schiena, o in quella di Paradiso, dove invece se ne stava con le braccia a stringere le gambe piegate. Bellezza dov’è, si chiede nella bellissima terza traccia del suo nuovo lavoro, sicuramente nel suo modo di attraversare il mondo a piedi nudi, senza bisogno di indicazioni, verso la campagna in cerca di visioni. E noi con lei.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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