Davanti a casa mia, poco prima che partissi per spostarmi nelle Marche, hanno smantellando una enorme gru. Erano due anni precisi che quella gru stava lì, dove un tempo sorgeva un garage con annessa autofficina, un posto naif che aveva al suo ingresso una enorme uccelliera piena di pappagallini, visibile anche dalla strada, e dove oggi sorge un palazzo di sette piani, perfetta immagine di quel che nel mentre è diventata Milano. Un palazzo anche piuttosto ambizioso, che nonostante io non abiti in quella porzione di Milano fa l’occhiolino a City Life o alla zona di Porta Nuova, i Boschi verticali, quella roba lì, niente Boeri da queste parti, né sotto forma di archistar né di cioccolatini al liquore.

Ora il palazzo è praticamente finito, credo che al rientro dalle vacanze d’agosto sarà non dico abitato, ma in procinto di esserlo, a meno che non finisca anche quello dentro qualche inchiesta, Dio non voglia, e giustamente hanno smontato la gru davanti alla quale nel mentre il palazzo è spuntato.

Per poter fare questo, per poter smontare una gru, è stato necessario non solo mettere il divieto di sosta per un centinaio di metri intorno all’area dove il palazzo è sorto, quindi anche davanti al portone del mio palazzo, ma pure bloccare l’accesso alla strada. Come in un film poliziesco, per intenderci, passo da uno stantio passato prossimo a un più coinvolgente presente, come se il tutto accadesse in presa diretta, ora c’è una macchina dei vigili messa di traverso, che impedisce l’accesso alla strada, questo mentre fino a poco fa c’era un camion della rimozione forzata che stava portando via una utilitaria rossa lasciata incautamente proprio davanti a dove ora si trova il portone del nuovo palazzo. Da dopo il Covid questa faccenda dei lavori nel campo dell’edilizia è diventata un problema, per quel che riguarda i parcheggi, non bastasse già il fatto che il sindaco Beppe Sala, che al momento per questioni legate all’urbanistica è sotto inchiesta, ha praticamente deciso che nessuno possa più parcheggiare in strada, manco fossimo a Lugano, togliendo posti auto in strada per far spazio a tavoli da ping pong, gazebo di bar e locali o altre amenità.

Tu magari vai via da Milano per qualche giorno, e non ci vai in auto. Che fai? La lasci parcheggiata sotto casa, contando magari che qualche vicino ci butti l’occhio. Poi però qualcuno inizia una ristrutturazione, par di capire che ultimamente ristrutturare a Milano sia stato facilissimo, arriva un trasloco, smontano una gru in un cantiere che sta lì da due anni, e ecco che la macchina che hai lasciato parcheggiata come si deve diventa in divieto di sosta. Torni a casa dal viaggio e non la trovi, pensi subito te l’abbiano rubata ma neanche qualche secondo e realizzi che quella gru non c’è più, o che nel mentre dove avevi parcheggiato è spuntata una impalcatura, così invece di chiamare la polizia chiami i vigili urbani, sperando che il deposito dove portano le auto rimosse non sia poi così lontano da casa (sì, ovunque tu sia il deposito sarà sempre lontanissimo, e dovrai anche pagare cifre esose per averla indietro).

A parte quindi la rimozione dell’auto rossa, e la strada bloccata dai vigili, quel che lo smontamento di una gru implica, è un gran casino, a livello sonora, e un grande spettacolo a livello visivo. Perché al momento, visto che di lavoro scrivo mi posso permettere di spostare al momento il mio ufficio dallo studio al balcone che sulla strada in questione affaccia, in realtà mi trovo in un baretto all’ombra del Monte Conero, ma fate finta di non saperlo e io ritiro su subito la quarta parete, e quindi al momento sto vedendo un ragazzo che sta camminando sulla parte mobile della gru, il lungo braccio sul quale scorre il carrello dal quale parte la catena per sollevare e spostare pesi.

Sta lassù, ben sopra i sette piani del nuovo palazzo, e anche degli otto piani del mio, camminando su quei sottili tubi di metallo, sempre passando un gancio al blocco successivo, come un alpinista che sta scalando una montagna, per nulla provando quelle vertigini che, confesso, pur non soffrendone io, al solo guardarlo provo. Forse perché in un passato passato, diciamo fino intorno ai trent’anni, di vertigini ho sofferto, faticavo anche solo a affacciarmi a una finestra, oggi vivo a un settimo piano e sto lavorando su un tavolinetto di legno preso all’Ikea a non so quanti metri da terra. Il tutto senza sentire su di me alcun pericolo, a parte quello, realissimo, di pungermi con una delle decine di cactus o piante grasse con cui mia moglie Marina ha arredato tutti i balconi di casa, casa mia è circondata da balconi e oggi da balconi pieni di piante.

Vedere quel giovane che si muove agilmente sospeso nel vuoto, con il suo gancio per tenersi saldo alla struttura che sta contribuendo a smontare, per smontare una gru è stato necessario portare sulla via un’altra gru, mobile, che in serata sarà rimossa, e vederlo con quell’elmetto giallo in testa, mi ha quasi fatto tenerezza. Un elmetto giallo di quelli che si usano come strumento di sicurezza sul lavoro, direi assolutamente inutile nel caso il ragazzo si trovasse malauguratamente a cadere nel vuoto da lassù.

Solo adesso, mentre la gru è ormai quasi tutta smontata, continuate a seguirmi in questa finzione, praticamente il braccio mobile ora giace a terra, in strada, e di ragazzi a muoversi in verticale sul resto della struttura ce ne sono due, che poi dico ragazzi ma potrebbero anche essere adulti, vallo a sapere, solo adesso, dicevo, capisco di come il nuovo palazzo sorte di fronte al mio, dove un tempo si trovava il garage con l’uccelliera al suo ingresso, un posto che a breve verrà arredato con alberi, che offre ai suoi condomini spazi di coworking, palestra e non ricordo cos’altro, deve essere particolarmente piccolo, perché la gru, che sorge rispetto alla strada e quindi alla mia postazione, alle spalle del palazzo, è in realtà molto vicina a noi.

Non ho idea cosa sorgerà dove ora si trova la gru, magari un cortile, magari un giardino, ma sicuramente non una parte del palazzo, che è ormai terminato, e stando a quel che vedo la struttura dovrebbe essere assai poco profonda, oltre che molto stretta. Del resto viviamo a Milano, qui chiamano case spazi che altrove chiamerebbero sgabuzzini, non ci vedo niente di così anomalo.

Ultima notazione, prima di passare oltre e disvelare il perché io abbia deciso oggi di cominciare con le mie peregrinazioni mentali a partire da una gru che hanno smontato a pochi metri da casa mia, io ora sono nelle Marche da qualche giorno, come forse vi sarà capitato di leggere in qualche altro pezzo pubblicato, ultima notazione, dicevo, stiamo ancora parlando dello smontaggio della gru di fronte a casa mia, la mia auto è stata parcheggiata da me a una ventina di metri dal palazzo in questione, con giusto un auto tra la mia e il divieto di sosta temporaneo. Scelta non azzeccatissima, a posteriori, perché tutte quelle parti pesantissime della gru che la seconda gru sta poggiando in strada o in uno dei due camioni che si trovano parcheggiati di fronte al portone del mio e del nuovo palazzo, prima di atterrare laddove devono atterrare dondolano vertiginosamente, è il caso di dirlo, proprio sopra la mia macchina, la tentazione di scendere e spostarla è spenta solo dal caldo eccessivo.

Comunque proprio in questo momento, questo momento che vi sto raccontando, non quello in cui sto scrivendo e neppure quello in cui state leggendo, potere della scrittura, il braccio della gru sta dondolando proprio sopra la mia testa, con solo il balcone dell’appartamento di sopra a farmi da elmetto di protezione, la parte gialla a forma di elle sulla quale era prima attaccato il braccio meccanico della gru, un blocco di metallo con due balaustre sui lati che peserà immagino qualche tonnellata e che potrebbe uccidermi come niente fosse, sul perché io non vada in altra pare della casa, suppongo, un bravo specialista potrebbe fare una analisi approfondita che porterebbe a una qualche terapia, anche perché nel mentre il piccolo cactus che sta sul tavolo dove è anche il mio computer, dentro un vasetto rosso a forma di fragola, il medesimo vasetto dove mia moglie teneva fino a pochi giorni fa il legnetto del palosanto cui dava fuoco dopo cena, per profumare la cucina dagli odori, mi sta martoriando la mano destra, mentre altre piante mi rovinano le caviglie, alla faccia che fare lo scrittore è un lavoro agevole, il mio flexare en passant il fatto che in realtà sono seduto a un baretto all’ombra del Monte Conero è giusto una piccola rivalsa, ma poca cosa, altroché. Anche perché, realizzo solo ora, a causa di questo ambaradan oggi non arriverà il pacco che aspettavo da Amazon, figuriamoci se il fattorino si fa i quattro metri che dividono il mio portone dalla via che fa angolo col mio palazzo, cornuto e mazziato, io, solo cornuto il fattorino.

A questo punto qualcuno, sempre quel qualcuno lì, col ditino alzato e la voce petulante, starà per fare il suo andando a chiedere a voce alta perché io stia qui a parlarvi di una gigantesca gru smontata a pochi metri dal mio balcone.

Ho abituato nel tempo chi è mio lettore abituale a questa modalità di narrazione, partire da un punto A per arrivare al punto B senza stare a seguire noiosamente la linea retta, la scorciatoia o magari la via più giusta, quanto piuttosto un tortuoso giro panoramico, dove racconto anche soste volute, soste forzate, deviazioni improvvise, vicoli ciechi, tutto parte del racconto, non lì casualmente, non è un vero giro in auto, questo, ma comunque nella simulazione di un andare alla deriva figlio della lezione degli psicogeografi di Guy Debord e dei situzionisti, ma un lettore casuale, arrivato qui per uno dei tanti motivi per cui quotidianamente ci si ritrova a leggere questo o quello, si starà sicuramente posto delle domande, a meno che non sia rimasto irretito psichedelicamente dal mio vagabondare. Ecco, a questo punto, fatta la terribile domanda, non potrei far altro che rispondere, ma quel “potrei” tradisce quel che sto per fare, cioè scartare ancora una volta di lato, andando quindi a parlarvi di gru, ma da un altro punto di vista. Nello specifico di quello che ha regalato a David Leavitt, autore americano di un certo successo, il titolo del suo primo romanzo, appunto “La lingua perduta delle gru”, giunto dopo il fortunato esordio con la raccolta di racconti “Ballo di famiglia”. Il romanzo parla del coming out del protagonista, Leavitt come il suo personaggio è gay, e di come questo coming out spinga suo padre a sua volta a fare i conti con una omosessualità repressa, la sua. Il tema centrale del romanzo è quindi in parte l’incomunicabilità, tra personaggi, indubbiamente, ma anche con se stessi. Il titolo fa riferimento a una scena nella quale un bambino molto piccolo viene abbandonato in un cantiere edile e qui sviluppa un suo linguaggio segreto col quale riesce a comunicare con le gru, un linguaggio fatto di movimenti e di rumori. Essendo l’autore del format Bestiario Pop, che si è sviluppato prima sotto forma di articoli, poi di un librone di quasi mille pagine, infine di un podcast fatto con mia figlia e quindi di uno spettacolo teatrale, sempre con mia figlia e con Valentina Parisse, potrei a questo punto sterzare in maniera decisa e a andare a parlare di gru intesi come di uccelli di quella specie, le zampe altissime, il collo e il becco allungato, magari imbastendo un qualche parallelo con i fenicotteri rosa, qui a Milano presenti nei giardini della nota Villa Invernizi, in quello che viene chiamato il Quadrilatero del Silenzio, capite bene come si stia parlando di un centro città dove certi cantieri non li farebbero sorgere per non rompere le palle ai condomini, i fenicotteri che qualche estate fa avevano infestato le nostre spiagge sottoforma di materassini gonfiabili, passare da un ragazzo che cammina a decine e decine di metri dal suolo, un elmetto giallo a proteggerlo da un pericolo decisamente più grande di lui a una spiaggia dove qualcuno sta prendendo il sole sul bagnasciuga su un materassino a forma di fenicottero rosa, converrete con me, è qualcosa di molto simile a un triplo salto mortale.

Tutto questo ovviamente non per parlare di gru, ormai credo di averlo chiarito, e neanche di Leavitt, grande autore novecentesco che, temo, poco ha detto nel nuovo millennio, quanto piuttosto per passare a parlare di musica, il mio core business, e di musica che ha preso vita a circa quattrocentotrenta chilometri da dove quella gru è stata smontata, per la precisione al Porto Antico di Ancona, che poi sarebbe una porzione del porto posta a pochi passi dall’Arco di Traiano, di qui l’antico, ma anche alla Fincantieri, fatto che rende appunto quell’antico un po’ meno antico. È qui, al Porto Antico di Ancona che infatti sono andato a sentire e vedere, il vedere in questo caso ha comunque un suo peso specifico, il concerto di Serena Brancale, e ci sono andato con tutta la mia famiglia, almeno la porzione di mia famiglia che è con me da queste parti, mia moglie, tre dei miei quattro figli e pure un nipote al seguito. Del resto Serena è indubbiamente un’artista che mette d’accordo tutti noi, per motivi diversi, chi attratto dalla nuova svolta urban vagamente world chi dal suo passato new soul e jazz, l’occhio a volere comunque la sua parte. Ecco, credo che il linguaggio musicale e non, quel mix tra barese, italiano, inglese, napoletano e slang credo anche un po’ inventato che Serena Brancale ha posto dentro le sue canzoni, creando un mix musicale vincente, sia la prova provata che la musica, anche quella che ambisce a farsi tormentone estivo, pop, può abbattere quelle palizzate di incomunicabilità cui la società contemporanea ci sta sempre più abituando, andando a creare un terreno di scambio di emozioni e di comunicazione basico e quindi efficacissimo. Metteteci pure che il ritmo, che nell’ultima produzione della cantautrice pugliese ha assunto un ruolo indubbiamente centrale, pur lasciando all’armonia una posizione predominante, è modo essenziale per comunicare, anche tra nazionalità differenti, figuriamoci tra regioni. Il concerto è stato inevitabilmente trascinante, con Serena a dominare la scena con tutta la sua travolgente presenza, canora, sonora e visiva, raramente mi è capitato di vedere una artista occupare con tanta personalità la scena, catalizzando letteralmente l’attenzione di tutti. Oltretutto un’artista che ha dato prova, ce ne fosse bisogno, di saper tenere la scena anche da sola, come quando a un certo punto, complice la loop station, ha creato una bossa nova dedicata a tal Riccardo, tipo seduto in prima fila simpaticamente reo di essere poco reattivo a quei suoni. Del resto la band che la accompagna, il polistrumentista Marco Bottoni, alternatosi al piano, basso, chitarra acustica e tastiere, Dropkick talentuosissimo alla finger drum, Nausicaa e Corinne ai cori, e che cori, la violinista di cui, mea culpa, ho dimenticato il nome, il corpo di ballo, gli opening Giomi, Klem, davvero una forza della natura che mi picco di aver ospitato a Casa Monina nel Sanremo 2023, l’ospitata di Fiat131, tutti sono dei top player, come del resto una top player assoluta come Serena Brancale merita di avere a fianco. Un concerto strepitoso, capace di emozionare, scatenare passioni e istinti, divertire, lei ha tempi comici da stand-up comedian, la sua bravura nel canto e nell’intrattenimento davvero uniche oggi in Italia. Sfido se no io un popolo di suo freddino come quello anconetano a ballare e canticchiare, per quanto possibile, brani come La zia, U Baccalà o Chine ‘e merda, in slang della Bari Vecchia. La lingua perduta delle gru, immagino, per una come lei è assai comprensibile e affatto perduta, ma non ditelo a Leavitt, che ormai è un anziano scrittore novecentesco e che con quel libro ci si sarà sicuramente comprato casa.