
Come immagino si evincerà dal modo in cui scrivo ho studiato Storia Moderna presso l’Università Alma Mater di Bologna. Lo so, il rigore scientifico tipico di chi ha appreso passato giorni e giorni a consultare documenti, incrociando dati, è la mia cifra distintiva, non vi sarà sfuggito. Del resto ho studiato Storia Moderna presso l’Università Alma Mater di Bologna perché me lo ha suggerito il mio professore di Storia al liceo, don Celso Battaglini, era un prete, il quale dirigeva un piccolo giornale diocesano, e io volevo fare il giornalista, come non fidarmi di lui? Ora sono qui, e dopo quasi trent’anni che faccio questo mestiere non sono neanche pubblicista, perché mi è sempre parso che, per dirla parafrasando Groucho Marx, entrare in un albo che accogliesse uno come me tra i suoi iscritti non mi interessava, ma resta che quegli studi ho fatto. Tra gli esami che ho dato, ventuno, c’è stato Statistica, dato presso la facoltà di Matematica, sempre dalle parti di via Zamboni, a Bologna. Un esame che ho particolarmente amato, pur non avendo io frequentato neanche un minuto di lezione, portando a casa un bel 30. Lo dico non per flexare, direi che nella vita quel 30 in Statistica non l’ho messo esattamente a frutto, come tutto quel che concerne la matematica, pur essendo la musica materia che con la matematica ha molte cose in comune (il ritmo è basato sui numeri, l’armonia è basata sui numeri, la musica tutta è basata sui numeri). Comunque in statistica sono piuttosto ferrato, ma anche chi non è ferrato, e magari non ha preso come me 30 all’esame, o magari non ha proprio mai studiato statistica, saprà che per far statistica servono numeri importanti, tali da poter permettere un raffronto tra essi. Per intendersi, i sondaggi che lanciate su WhatsApp per decidere in che giorno fare la pizzata di classe a fine anno non rientrano nel novero degli studi statistici, li chiamano sondaggi per darvi l’ebbrezza di essere, che so?, Pagnoncelli o Mannheimer, ma le cose stanno diversamente. Ecco, giorni fa mia moglie ha lanciato un sondaggio in una chat, e ci siamo trovati a fare una pizzata con amici che non vedevamo da lungo tempo, ahinoi, luogo del nostro ritrovarci e poi decidere di fare una pizzata il funerale di una comune amica. Una serata molto piacevole, a chiacchierare del più o del meno, come succede tra adulti, tra storie di figli che non se ne vanno o se ne vanno di casa, di incontri al Caf per sapere quanti anni mancano per la pensione, di cose che capitano dentro casa, fotografie di vita quotidiana. A un certo punto salta fuori una questione che mi sta particolarmente a cuore: come si mettono le cose dentro la lavastoviglie. Se mai vi dovesse capitare di vedere una lavastoviglie fatta da me, dubito succederà, vi apparirebbe davanti agli occhi una sorta di architettura degna della Bauhaus. Ordine e precisione, ma anche quel tocco di artisticità che mai guasta, ho studiato Storia Moderna ma evidentemente sono finito a fare altro nella vita. Dispongo le cose, e mi scuso per usare una parola così vaga come cose, sempre nella medesima maniera, così da occupare il minor spazio possibile e farci entrare un maggior numero di cose possibili. Le tazzine di fianco alle tazze, per dire, così che insieme occupino lo spazio che altrimenti sarebbe lasciato vuoto perché le tazze ne occupano troppo per lasciare che di fianco ci entrino, che so?, i bicchieri. I piatti piani impilati con i piatti piani, il cestello delle posate a dividerli dai piatti fondi. Insomma, una cosa scientifica, quella sì, degna di una laurea ad honorem in architettura, forse addirittura in matematica, la tesi in geometria. Ecco, la parola geometria. Succede che mentre si comincia a parlare di lavastoviglie tutte le donne, che come a voler dare un seguito all’idea che il patriarcato in fondo non sia così male, lamentano di quando gli uomini provano a piegare i panni usciti dalla lavatrice, noi siamo in sei in casa, usiamo l’asciugatrice per parte dell’anno, perché da noi le lavatrici vanno a nastro, di colpo lamentano che i mariti le rimbrottino per il loro modo di fare la lavastoviglie. Tutte le donne presenti alla pizzata, esclusa mia moglie, che del resto non si è lamentata neanche della faccenda dei panni perché, a dirla tutta, sono piuttosto preciso anche in quello. Lo so, a vedermi, la barba incolta, i capelli lunghi e spesso spettinati, mai in camicia e giacca, uno potrebbe essere portato a pensare io sia disordinato, e stando a mia moglie lo sono pure, ma in realtà ho un ordine, non solo mentale, ferreo. So sempre dove si trova qualsiasi cosa mi riguardi, anche un determinato libro nella mia libreria, che di libri ne contiene circa quattromila. Sono forse disordinato in faccende che mi interessano poco, ma non nel disporre piatti e affini nella lavastoviglie. Quella è una faccenda di geometria, argomento nel quale, stando alla micro statistica della pizzata fatta l’altra sera tra amici, le donne sono assai poco ferrate. Sul perché le donne siano poco ferrate sul come disporre correttamente i piatti nella lavastoviglie, loro che vivono nella convinzione di sapere esattamente come vanno piegati i panni, io anche in questo sono avvantaggiato, a me di andare in giro coi vestiti stropicciati non interessa, porto solo t-shirt e di inverno felpe, se mai mi si dovesse dire “i vestiti stirateli da solo” potrei rinunciare direttamente, e comunque da un po’ di tempo sono io quello che stira in casa, nonostante non abbia necessità di stirare le mie cose, ripeto, più che altro per dividersi i compiti e fare qualcosa che comunque mi aiuta a rilassarmi, una attività che non prevede l’uso del lobo razionale del cervello è utile, se passi tutto il giorno a scrivere o parlare.
Dico questo, ho detto questo, perché mi sembra evidente che ci siano argomenti nei quali i punti di vista hanno un loro peso specifico importante, tipo “il modo giusto come fare una lavastoviglie” o “l’indie”. Riguardo quest’ultimo, non fatemi andare avanti fingendo che è di lavastoviglie che io vi stia parlando da svariati minuti, c’è chi lo ha amato alla follia, per poi disconoscerlo nel momento in cui si è palesato per quel che sembrava voler essere sin dall’inizio, una versione giusto un filo meno definita del pop, c’è chi lo ha odiato per i medesimi motivi, ritenendolo una versione sciatta del cantautorato che flirtava col pop, appunto, chi, parlo per me, ha apprezzato alcuni artisti, penso al Niccolò Contessa de I Cani, che in qualche modo è considerato uno dei due genitori del genere, e odiato altri, la lista dei nomi qui sarebbe troppo lunga.
Oggi ho assistito alla conferenza stampa di Dente, che insieme a Niccolò Contessa è imputato storicamente a essere l’altro genitore dell’indie, qui per presentare il suo nuovo lavoro Santa Tenerezza, fuori per la INRI di Torino. Ovviamente a un certo punto gli ho chiesto ragione di questo suo essere “padre dell’indie”, chiedendogli se si era pentito, questo dopo avergli chiesto qualcosa a riguardo a questo suo uscire con un lavoro che mette in mostra le fragilità maschili poco dopo un Sanremo che ha visto nella cinquina finalista cinque uomini che parlavano di fragilità maschile, declinata in varie maniere. Domande lecite, cui ha risposto nel caso della fragilità che lui si è sempre esposto su questo fronte, e che pensa che chi non è fragile non approcci proprio l’idea di scrivere canzoni, nel caso della paternità dell’indie di sentirsi da una parte anziano, per questo suo essere padre, figuriamoci fosse stato il nonno, ma d’altra parte è anche piacevole sentire artisti più giovani che gli riconoscono una qualche influenza, evidentemente non la pensiamo alla stessa maniera. Santa Tenerezza, il suo nuovo assai bell’album, dice, gli è uscito di getto, in poco tempo, e per questo l’ha definito un album sudato, ma non nel senso che gli è costato sudore, quanto piuttosto che lo ha espulso naturalmente e poi si è sentito meglio. Sì, perché l’ha scritto tutto in un breve lasso di tempo nel quale si sentiva particolarmente male, la storia causa di questo malessere quella contenuta nel brano Corso Buenos Aires, per i più curiosi. Molto simpatico, seppur partito lento come un diesel, il nostro ha detto cose a mio avviso di rilievo, come che il budget fa l’uomo artista, nel senso che troppo spesso ci si ritrova a dover arginare idee anche geniali, si suppone, col fatto che le idee geniali a volte costano più di quanto ci si possa permettere, di qui la spiegazione dei video a basso budget e anche di certe orchestrazioni contingentate. Ha quindi raccontato di aver sognato di registrare il disco sull’isola di Idra, in Grecia, dopo esserci stato e aver visitato lo studio. E di aver poi reclinato sullo studio di via Mecenate di Federico Nardelli, già al suo fianco in passato, dopo aver letto il tabellario dei prezzi dello studio di Idra, i sogni si infrangono al mattino su un foglio excell.
Ha detto di aver usato l’AI per generare la copertina, che mostra una donna dentro una nuvola, come in un testo dell’album, ma di non averla mai usata per scrivere, cosa che prima o poi vorrebbe fare. Rifuggire dalle opportunità è sbagliato, ha aggiunto, anche se la paura che tutto ciò possa poi piacergli lo spaventa, come con le droghe. Citando un altro brano, il brutto di dover parlare di album ancora da uscire è che i titoli non li abbiamo ancora metabolizzati, tratta un tema vicino a un libro letto da poco, Le voci del mondo, lui che legge tanto e spesso consiglia i libri sui social ma poi non si ispira mai ai libri per scrivere. Una storia d’amore di un ragazzo che per amare di più la sua ragazza finisce per smettere di dormire, fino a morirne. Una idea che quindi non lo ha ispirato, ma che ha ispirato lui e anche l’autore del libro, Robert Schneider. Ovviamente, non poteva che essere così, si è parlato di Lucio Corsi, il caso del momento, chiedendosi a voce alta “dove eravate ieri”, nel senso, dove eravate ieri che Lucio Corsi c’era ma non se ne parlava, domanda retorica evidentemente non rivolta a me, ma pur legittima. Anche qui, ha ammesso candidamente di aver prima schivato il Festival per paura, poi di non essere stato preso per qualche volta, e infine di non averci provato nell’anno in cui tutti parlano di ritorno del cantautorato. A volte tocca esserci nel momento giusto, vai poi a sapere se ce ne sarà un altro. Ha raccontato della genesi del brano scritto con Emma Nolde, La città ci manda a letto. Brano partita proprio dal suo pronunciare la frase poi divenuta titolo dopo che una serata si era conclusa a suo dire troppo presto alla Santeria Toscana, tutti sbattuti fuori a una certa ora della notte. Frase che Emma Nolde, presente, aveva indicato come meritoria di una canzone, e che da quel momento è divenuta oggetto di un rimpallarsi tra i due, fino alla canzone finita, che chiude il disco. Canzone, quindi, che in qualche modo si scosta dal resto, urgente, sudato. Con Hey, quinto brano e nuovo singolo, indicata dall’autore come la canzone più
bella, perché, dice sempre l’autore, la quinta canzone deve essere sempre la più bella in scaletta, parola di “cintura nera di scalette”. Una cosa antica, ha spiegato, frutto di una scoperta casuale avvenuta da giovane, in compagnia della fidanzatina dell’epoca, che con un disco di Edie Brickell in mano si accorse di questa faccenda, poi in effetti confermata da tanti altri successori (per la cronaca, What I Am, canzone per la quale Edie Brickell, ai tempi in compagnia dei New Bohemians, ha avuto successo in tutto il mondo ai tempi del suo esordio, anno del signore 1988, era la traccia numero uno dell’album Shooting Rubberbands at te Stars, per dire). Certezza che è infatti poi crollata quando il lesto Nico Donvito si è premurato di indicare una per una le canzoni numero cinque delle trasklist dei suoi album, quasi mai le più belle di quei lavori.
Il momento clou, attenzione, per una volta non dedicato a una qualche gag dei Pool Guys (ne ho parlato lungamente qui, proprio a proposito di Lucio Corsi ), i tre erano assenti, almeno fino al finale quando è arrivato il solo Luca Dondoni, mimando con la bocca uno smarrito “ero convinto fosse a mezzogiorno”, mentre in realtà il tutto è iniziato alle undici, il momento clou, dicevo, è stato quando un collega di cui ignoro il nome, ma con una voce baritonale e un gergo degno del Lunanzio che si rifà alla commedia dell’arte e Goldoni ha fatto una lunghissima domanda, diciamo pure una supercazzola, con tanto di impropria citazione di Rainer Maria Rilke, e tutti sanno che c’è una moratoria per cui non si possono citare Rilke o Hermann Hesse senza che ciò comporti poi pene corporali, domanda che è finita sul concetto di, cito tra virgolette, “inebetente allegrezza”, avete letto bene, allegrezza, non allegria, chiedendo in sostanza all’artista, cioè a Dente, se conveniva a meno con lui che tutto oggi volge al brutto, a un abbassamento di aspettative e quindi di rese che poi porta, appunto, proprio lì, al domicilio della inebetente allegrezza, domanda retorica e supercazzolosa cui Dente ha giustamente risposto: “Sì”, strappando un applauso caloroso a tutti noi lì presenti. Tutti noi lì presenti che ora abbiamo quel monologo pretenzioso come suoneria del cellulare, non stupitevi se non vi risponderò al telefono, sarò intento a riascoltarlo con le lacrime agli aocchi.
Insomma, a mezzanotte esce Santa Tenerezza, nuovo lavoro di Dente, padre non pentito dell’indie, un album che è puro cantautorato, curato nei dettagli, quindi poco casalingo e poco indie, e che andrebbe assolutamente ascoltato anche se non si è a Idra.
Mentre scrivo queste parole destinate al finale, sì, quando si scrive un pezzo si può anche lavorare d’anticipo sulla vita e portarsi avanti, scrivendo i finali prima che i fatti avvengano, quindi mentre scrivo queste parole destinate al finale di questo pezzo è mattina presto, almeno per gli standard del 99% di chi lavora nel mio settore, che è poi la musica. Sono le otto di mattina, per intendersi, e io sono qui a scrivere da oltre mezzora. Sotto casa mia, abito al settimo piano di una zona semiresidenziale, sento lo scorrere del traffico, l’abbaiare dei cani che stanno nell’apposita area del parchetto che viene ospitato nella piazza proprio davanti al mio balcone, i rumori provenienti dal cantiere perenne che sta proprio davanti al mio portone. A un certo punto arriva musica a altissimo volume, come se qualcuno fosse entrato di soppiatto a casa mia e avesse acceso lo stereo, lì a un metro da me. La canzone è We Will Rock You dei Queen, quindi escluderei che è dal mio stereo che sta partendo, credo di non aver ascoltato i Queen negli ultimi mesi. Mi affaccio, convinto di trovare in strada una macchina tamarra dalla quale esce musica altissima, anche se in genere quando si assistono a queste scene la musica è un reggaeton, o una canzone de Il Pagante tipo “ostriche e champagne, settimana bianca”. Mi sono sbagliato, perché a far partire We Will Rock You è un gruppo di persone che si è radunata proprio a fianco dell’area cani qui sotto, tutti in bicicletta. Sono quegli esaltati che poi portano i figli a scuola, a occhio forse anche all’asilo, costituendo una fila indiana con tanto di bandiere e, appunto, musica altissima. Ai tempi dei miei figli grandi, oggi ventitré e diciannove anni, c’era una manifestazione volta a educare i più giovani a usare mezzi pubblici o, possibilmente a andare a piedi a scuola che si chiamava Pedibus, questi vanno invece in bicicletta, all’ora di punta, a Milano. Rientro, infastidito e mi rimetto al computer, sbattendomi metaforicamente la mano sulla fronte e borbottando come un vecchio. Roba che a vederli, mi dico, e lo dice uno che usa la macchina ormai solo per andare a fare lo spesone una volta alla settimana, siamo in sei e a piedi non mi sarebbe possibile, altrimenti va sempre e ovunque a piedi, anche lontano, con un limite di otto chilometri oltre il quale prendo i mezzi pubblici, roba che a vederli mi verrebbe voglia di andare sotto e prendere la macchina e farmi un carosello su due ruote tipo Oler Togni, perché trovo che sia piuttosto invadente arrivarmi in casa coi Queen alle otto di mattina, forse anche più di quanto non sia il rumore del traffico o del cantiere perenne qui di fronte. Sto pensando questo, guardando la poltrona della mia camera da letto dove tengo la borsa con dentro le chiavi dell’auto, in tentennamento tra la pigrizia del vestirmi per uscire, il senso del dovere di star qui a finire questo pezzo e l’urto di nervi di questa invasione di campo, quando sento che la musica è finita, quindi torno di fuori, sul balcone, per controllare se se ne sono in effetti andati. Invece sono ancora lì, tutti in fila, pronti per partire, penso, silenziosamente. Mi sbaglio di nuovo, perché quando il primo, con una bandiera fissata sul manubrio della bici, inizia a pedalare, seguito dagli altri, e chissà se poi il tipo andrà in ufficio con quella bandiera o dove se la ficcherà, mi chiedo, dalle gigantesche casse che devono stare sulla bici di qualcun altro, è primavera e gli alberi della piazza sottostante stanno tornando a farsi verdi, quindi non riesco a vedere bene tutto, parte un’altra canzone, che però mi svolta la giornata. Sotto lo sguardo vigile di una pattuglia della polizia municipale, infatti, lì evidentemente per fermare il traffico per permettere alla fila di bici di sfrecciare verso scuola, parte La tua canzone di Coez, uno che dell’indie è stato e forse è uno dei nomi più interessanti, mica per caso prodotto da quel Niccolò Contessa di cui sopra, distante anni luce dall’immaginario di Dente, certo, ma comunque capace di prenderne ai tempi il testimone e farlo detonare sul mercato come fosse stato un candelotto di dinamite. “Amare me è facile,” dice Coez, “come odiare la polizia”, il tempo di scoppiare in una risata, da solo sul balcone, e la fila indiana si allontana. Non tutto l’indie viene per nuocere, mi ripeto, ora posso andare a mettere ordinatamente le tazze della colazione dentro la lavastoviglie.