Lo scrittore si è spento a 78 anni
All’età di settantotto anni è morto Stefano Benni. È stato uno degli autori più amati della nostra letteratura, almeno da una parte dei lettori, quelli che si identificano e vengono quindi identificati con la tipologia di libri per i quali è divenuta popolare la Feltrinelli. I suoi Bar Sport, La compagnia dei Celestini, Terra!, Baol sono a loro modo dei classici, e non solo quelli.
Ecco, in genere quando muore un personaggio famoso da qualche tempo a questa parte, per non passare da sprovveduto, tocca citare Zerocalcare e il suo pezzo su cosa succede quando muore un personaggio famoso. Quindi inscenare un ritratto che sia sì coinvolgente, ma che al tempo stesso esca da quei canoni beceri e usurati che si sono a lunghi spesi in questi frangenti, provare a essere anche ironici, volendo, fatto che risulterà più facile nel caso il personaggio famoso appena morto non ci stia particolarmente a cuore, evitare in tutti i casi quei giri di parole stucchevoli ormai buoni solo per i meme, gli “insegna agli angeli” e roba del genere.
Zerocalcare, vado a memoria, invitava anche, con la sua ironia pungente, a evitare di spostare l’attenzione su di sé, andando a usare il personaggio famoso morto più per mettersi in evidenza, magari per essere stati vicini al personaggio morto, per avere comunque qualcosa che sia più di un “so chi era”, fatto che però, temo, non troverà luogo nelle parole che seguono.
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Perché io ho conosciuto Stefano Benni. Di più, in qualche modo gli sono debitore per la mia carriera, anche se non per i motivi che uno si potrebbe aspettare, sempre che uno sia tenuto a aspettarsi qualcosa rispetto al rapporto tra Stefano Benni e la mia carriera, e sempre che parlare della “mia carriera” abbia un qualche senso qui come altrove.
Io Stefano Benni l’ho conosciuto così. Ero in coda alle poste, erano i primi mesi del 1999, forse gli ultimi del 1998, vai a ricordartelo. Ero in coda alle poste perché volevo mandare una raccomandata alla mia agente letteraria, di cui non farò il nome per l’irrilevanza dell’informazione, irrilevanza relativa a questo aneddoto e più in generale rispetto alla storia dell’umanità. Avevo firmato con lei un anno prima, e in quell’anno non era successo nulla, o meglio, non era successo nulla che giustificasse il fatto di avere una agente letteraria.
Avevo già esordito qualche mese prima con una raccolta di racconti, e ancora, povero cuccilo, credevo che nella vita avrei potuto campare facendo lo scrittore, ma nel mentre c’era una certa stasi e per campare avevo preso a collaborare con la Mondadori come lettore e traduttore, non esattamente quello che mi immaginavo di fare nella vita.
La mia carriera di scrittore, a dirla tutta, stava vivendo uno strano periodo, perché avevo scritto due romanzi, completamente diversi da loro, e perché avevo ripreso a scrivere racconti per riviste letterarie, che ovviamente non contemplavano neanche lontanamente l’ipotesi che qualcuno mi pagasse per scrivere.
Sì, dirà qualcuno, ma Benni?
Ci arrivo.
Pochi mesi prima dei fatti, nel maggio 1997, ero stato selezionato tra i quindici autori italiani di maggiore interesse dal comitato scientifico di Ricercare, laboratorio di scrittura nel cui comitato c’erano Nanni Balestrini, Renato Barilli, Angelo Guglielmi, Massimo Canalini, Silvia Ballestra e credo Giulio Mozzi. L’anno prima tra quei quindici c’erano praticamente tutti i cosiddetti Cannibali, da Ammaniti a Scarpa passando per Aldo Nove, quell’anno gente come Enrico Brizzi o Simona Vinci.
Questo aveva portato la PeQuod, casa editrice costola della Transeuropa di Canalini, quella che aveva pubblicato gli Under 25 di Tondelli, Silvia Ballestra e poi Jack Frusciante è uscito dal gruppo, a pubblicare la mia prima raccolta di racconti, proprio con prefazione di Balestrini. Però questo fatto di avere Balestrini come mentore sembrava aver sortito tutto quel che poteva far sortire, perché avevo deciso di spingere ulteriormente sul lato pop e postmoderno della faccenda, e questa cosa a Nanni non sembrava molto piacere.
E dire che uno dei due romanzi era scritto, come i miei primi racconti, proprio col suo tipico stile poetico, senza punti e in rima, mentre l’altro era praticamente un omaggio al suo Una mattina ci siamo svegliati, scritto però in maniera più tradizionale e con anche una chiave vagamente noir.
Di fatto ero fermo. Unico racconto che mi poteva forse dare qualche soddisfazione uno che continuava sul solco balestriniano, ma che aveva un tema decisamente troppo estremo per poter piacere a uno dei fondatori del Gruppo 63. Il racconto si intitolava “Hiruko l’amante virtuale” e era finito dentro una antologia di racconti erotici di fantascienza dal titolo Nuovo sesso, curata dal giornalista Paolo Bianchi e edita da ES
. Del racconto aveva parlato, concentrandosi proprio sul mio racconto, Carmen Covito, autrice del best seller “La bruttina stagionata”, ma aveva sbagliato il mio cognome, per cui io ero diventato Michele Morrina, che sfiga. Alla presentazione di quel racconto, avvenuta in via Marco Formentini, a Brera, non quel Marco Formentini che è stato il sindaco leghista di Milano, ovviamente, erano successe delle cose che in qualche modo entrano in questa storia. Avevo passato la serata a chiacchierare con Valerio Evangelisti, autore militante bolognese che aveva in quel momento incontrato un grande successo per la sua saga sull’inquisitore Eimerich, e durante questa chiacchiera, fatta su dei divanetti da bar, avevo conosciuto un tipo divertente, la cui faccia non mi era nuova, cui avevo raccontato che l’indomani avevo un colloquio in Mondadori per propormi come lettore con tale Stefano Magagnoli, direttore della narrativa straniera del gruppo di Segrate, compresi i libri Urania, che avevano appunto lanciato Evangelisti.
Il tipo buffo, la cui faccia non mi era nuova, mi aveva suggerito di bluffare al colloquio di lavoro, spacciandomi per uno che sapeva benissimo l’inglese, in caso facendomi anche aiutare da qualche amico a fare poi la scheda editoriale di prova. Avevamo riso della cosa. A Evangelisti avevo raccontato di questo mio strano romanzo che avevo nel computer, la storia di un transessuale obeso che decide di fare l’operazione per diminuire la portata del proprio stomaco, così da dimagrire, al fine di poter poi fare l’operazione per diventare donna. Il tipo, Paride Trotti, omaggio neanche troppo velato al Paris Trout che per Pete Dexter aveva il cuore nero, si sarebbe poi ritrovato a incarnare il primo supereroe trans, perché durante l’operazione il cerchietto di metallo con cui il chirurgo avrebbe dovuto restringere lo stomaco era stato sottoposto alle onde elettromagnetiche provenienti dal cellulare dello stesso chirurgo, inavvertitamente caduto nel suo ventre, a contorno del tutto il fatto che lui ancora obeso e di metallo, si ritrovava anche un poderoso pisello, frutto di una forma violenta di priapismo. Il romanzo in questione, evidentemente frutto del mio essere a lungo stato un lettore di Stefano Benni, scritto con lo stile di Nanni Balestrini, giaceva stranamente dentro il mio PC, nel disinteresse generale.
La mattina seguente ero andato a Segrate, nel palazzo Mondadori, e avevo scoperto che lo Stefano Magagnoli che mi doveva fare il colloquio per prendermi come lettore e poi in caso traduttore per Urania era il tipo buffo che la sera prima mi aveva suggerito di bluffare, il suo viso mi era noto perché era solito fare le telepromozione a Quelli che il calcio, allora condotto da Fabio Fazio. Comincia così la mia carriera di lettore e subito traduttore per Mondadori.
Ma Stefano Benni?
Eccoci.
Sono in coda alle poste, per rescindere il contratto con la mia agente, che in un anno non è stata in grado di piazzare da nessuna parte il mio romanzo nannibalestriniano sul supereroe trans obeso di metallo con priapismo, né il noir che omaggia Una mattina ci siamo svegliati di Balestrini. Mi squilla il telefono, un gigantesco e indistruttibile Nokia che ai tempi condividevo con la mia fidanzata, Marina, che proprio in quel 1999 diventerà mia moglie e poi la madre dei nostri quattro figli. Dall’altra parte del telefono, ai tempi chiamare a un cellulare costava un occhio della testa e di telefonate ne arrivavano davvero pochissime, gli sms neanche c’erano, ancora, c’è una voce con chiaro accento emiliano che mi dice: “Parlo con Michele Monina? Sono Stefano Benni”. Ve l’avevo detto che ci saremmo arrivati. Io resto chiaramente stupito, quasi perplesso. Rispondo ovviamente di sì. Benni continua, “Valerio, Valerio Evangelisti, mi ha girato il tuo romanzo sul trans obeso, mi è piaciuto, voglio pubblicarlo nella mia collana Ossigeno, che sta per nascere in Feltrinelli”.
Un piccolo passo indietro. Dopo quella strana serata in via Marco Formentini, a Brera, la presentazione di Sesso alieno, mi ero deciso a spedire via mail il mio romanzo sul supereroe trans e obeso di metallo a Valerio Evangelisti. Non saprei dire perché, dal momento che Valerio era un tipo serissimo, quasi oscuro, e che quel che scriveva era giocoforza serissimo, quasi cupo. Glielo avevo mandato e lui, giustamente, non mi aveva fatto sapere niente. Avevo quindi pensato gli facesse cagare, e ci stava. Nanni Balestrini, a cui l’avevo a mia volta mandato, era stato diplomatico, aveva detto qualcosa come “carino”, e immagino andasse letto esattamente come ai tempi della mia adolescenza funzionava nei confronti delle ragazze cui si diceva “carina”, un modo gentile per non dire che non era bella. Evidentemente, però, pur facendolo cagare, Valerio aveva pensato che a Benni, suo amico e sui cui gusti doveva avere dei seri dubbi, potesse piacere, così lo aveva girato a lui, che aveva apprezzato.
Alt, mi sono sbagliato, quando è arrivata questa telefonata non stavo più lavorando come lettore e traduttore per Urania, ruolo col quale entrato da qualche mese in Mondadori. Visto che lavoravo bene Magagnoli mi aveva messo a collaborare con Edoardo Brugnatelli alla nascita della collana Strade Blu, che avrebbe dovuto pubblicare quei libri che non sarebbero mai potuti uscire nella collana tradizionale di letteratura straniera. Roba tipo Chuck Palahniuk, quello di Fight Club, tipo William Vollmann, tipo David Foster Wallace, che però poi Strade Blu non pubblicherà mai. Era la letteratura che amavo leggere, in inglese, quindi cominciare a fare il consulente per Strade Blu era per me una pacchia. Resta che come scrittore la mia carriera era praticamente ferma.
Sono quindi in coda alle poste per disdire il mio contratto con la mia fino a quel momento agente letteraria, quando mi chiama Benni che mi propone di far uscire il mio romanzo per la collana Ossigeno, che andrà a dirigere in Feltrinelli. Bofonchio qualcosa che voleva essere un sì grande come una casa, e rimaniamo d’accordo che di lì a breve mi avrebbe mandato alla mail che gli aveva girato Valerio una bozza di contratto.
Mando la mia disdetta ancora più convinto, cavoli un contratto me lo aveva trovato uno con cui avevo passato un paio d’ore una sera e non la mia agente, e l’indomani vado in Mondadori camminando a un metro da terra per la contentezza. Dico a tutti che uscirò come narratore per Feltrinelli, raccontando della telefonata di Stefano Benni, e in quel tutti c’erano sicuramente Edoardo Brugnatelli, Antonio Riccardi, ai tempi direttore degli Oscar Mondadori, immagino Massimo Turchetta, che non ricordo che ruolo apicale avesse, e Stefano Magagnoli. Invece di ricevere però pacche sulle spalle, attenzione, vedo i loro volti incupirsi e diventare quasi ostili.
La faccio breve, ma mi dicono che se voglio lavorare lì non è pensabile che io esca così, su due piedi, per Ossigeno, collana diretta da Stefano Benni in Feltrinelli. Mi chiedono anche, quasi risentiti, perché prima non abbia fatto leggere a loro il mio romanzo, cosa che in effetti non avevo fatto perché nessuno era mai parso interessarsi al mio essere anche uno scrittore. Chiudono, come in un coro greco, dicendo che ora toccherà a Ferruccio Parazzoli leggere il mio romanzo, e se a lui piacerà allora sarà la Mondadori a pubblicarmi, non la odiata Feltrinelli.
Ferruccio Parazzoli era un anziano signore che conoscevo di vista, per averlo incontrato tutti i giorni lì per i corridoio della Mondadori. In realtà lo conoscevo di nome anche prima, perché i miei genitori avevano un suo libro, credo di preghiere, sul comodino, e perché un suo racconto su un miracolo avvenuto a Loreto, era dentro una antologia edita sempre da PeQuod. Parazzoli era in realtà coetaneo dei miei genitori, e quindi anche di Nanni Balestrini, ma sembrava più anziano, per due precisi motivi: era il solo cui tutti davano del lei lì a Segrate, lei che lui ricambiava ovviamente alla stessa maniera, oltre essere il solo a vestire sempre con un completo direi di sartoria. Su di lui si diceva che fosse stato amico di Kerouac, che avesse avuto l’idea di creare gli Oscar e che fosse uomo di chiesa, infatti dirigeva la collana Uomini e religioni, quella dalla quale sarebbe poi uscito il teologo Vito Mancuso.
Bene, mi sono detto, se lui, uomo di chiesa, deve decidere il mio futuro di narratore, perché ovviamente non avrei mai mollato un lavoro con stipendio per un romanzo, dovevo pur sempre pagare l’affitto, il mio destino era segnato.
Invece, sorpresa, a Parazzoli il mio romanzo piacque, anche parecchio, al punto che anni dopo mi troverò a scrivere a sei mani con lui, le altre due mani saranno di Giuseppe Genna, un romanzo cover de I Demoni di Dostoevsij. Risultato, “aironfric”, questo il titolo del romanzo sul trans obeso di metallo, uscirà il 23 giugno del 1999, poco più di due settimane prima del mio matrimonio, per Strade Blu, primo romanzo italiano a uscire per quella che poi diventerà una importante collana in casa Mondadori. Prima, ovviamente, ci sarà una seconda telefonata con Stefano Benni, per dirgli che no, purtroppo non sarei uscito per la collana Ossigeno da lui diretta in Feltrinelli, perché la Mondadori, per la quale lavoravo, mi aveva fatto una controfferta. Telefonata che si è conclusa con un piuttosto tranchant “Vaffanculo”, pronunciato da uno dei miei scrittori preferiti di sempre e rivolto a me.
Tempo dopo, non molto tempo dopo, Stefano Benni verrà nella mia città natale, Ancona, per tenere uno di quei fulminanti reading accompagnati da musicisti che lo elevavano ulteriormente a ruolo di popstar, non solo scrittore ma ben altro. Per ragioni che non ricordo ero in città, per cui decido di andare a sentirlo, in quel Barfly che di lì a una decina di anni mi vedrà a mia volta salire sul palco, con Malika Ayane, per un reading concerto, questo la sera prima dell’arrivo dei carabinieri, lì a mettere i sigilli sulla porta, da allora il Barfly non ha più aperto. Altra storia. Comunque, vado al Barfly e lo vedo che mangia con immagino i membri della sua band. Prendo coraggio e mi presento, perché di aver chiuso i miei rapporti con uno dei miei scrittori preferiti con un vaffanculo non mi va. Considerando che anche Balestrini mi manderà, più elegantemente, a fanculo per aver firmato con Mondadori, sorta di tradimento politico che evidentemente non lo vedeva coinvolto quando lui, in contemporanea, firmava con Einaudi, medesima proprietà berlusconiana, direi che “aironfric” ha fatto più danni della spagnola, danni evidentemente non controbilanciati dal successo arrivato, perché le ottomila copie vendute, neanche poche, verranno da tutte, me compreso, lette come un bagno di sangue, fatto che mi spingerà a accettare la collaborazione che sempre in Mondadori mi verrà offerta da Luca Valtorta, caporedattore di Tutto Musica, facendo di me uno scrittore che lavora come critico musicale, il resto è storia di questi anni, buona ancora oggi. Col tempo sono diventato uno scrittore che lavora come critico musicale, senza più fare narrativa, e poi ho ripreso a fare narrativa, scrivendo di musica.
Torno però al Barfly, c’è Stefano Benni a tavola coi suoi amici e ci sono io che mi avvicino, prendendo coraggio. Mi sono ripetuto un discorso in mente, discorso che tira in ballo una sorta di versione aggiornata e appena più ironica del “tengo famiglia”, Stefano Benni pubblica per Feltrinelli, è un compagno, non potrà non capire.
Mi avvicino, attirando la sua e la loro attenzione. Stefano Benni mi guarda, aspettando che io dica qualcosa. Parlo: “Ciao, Stefano, sono Michele Monina, non so se ricordi…”
“Vaffanculo”.
Sì, si ricordava di me.
Oggi Stefano Benni è morto, all’età di settantotto anni e dopo lunga malattia, lasciandoci parecchi libri che meritano assolutamente di essere letti.
La terra ti sia lieve, Stefano, insegna agli angeli a mandare a fanculo gli altri senza esitazione.