
Riprendo la mia riflessione, fatemela generosamente chiamare così, di qualche ora fa. Questa: https://361magazine.com/ivano-fossati-e-come-le-canzoni-ci-aiutano-a-vivere-ma-non-a-non-morire/. Riprendo quindi a parlare di come la musica, almeno certa musica, sia stata e sia il modo in cui certi artisti provano a spiegarsi e quindi a spiegarci la vita, in tutte le sue sfumature. Lì parlavo di Ivano Fossati, ma il discorso è ovviamente estendibile a molti. Lo si potrebbe anche allargare alle altre forme d’arte, ma già mi sembra sufficientemente ampio lo spettro che andiamo a affrontare, in caso fate voi le vostre considerazioni, sono gratis. Un discorso talmente vero che spesso quelle canzoni, quelle parole, le facciamo tanto nostre, per necessità e sentimento, da estrapolarle a forza dal contesto in cui sono state concepite, arrivando a snaturarne il senso. In fondo gli artisti hanno anche il compito di aiutarci a dare un nome, una forma, un senso a quello che noi non siamo in grado di comprendere, ci sta che prendiamo fischi per fiaschi e quel senso glielo diamo sbagliando mira o contesto. Nessuno ne soffre, immagino, anzi, gli artisti in fondo sono lì proprio per quello.
E se spesso, molto spesso, le canzoni ci aiutano a districarci nel complicato mondo dei sentimenti, inutile star qui a sottolineare quante siano le canzoni che ruotano intorno alle storie amorose, spesso a quelle andate a male, esistono, viva Dio, tutta una serie di artisti che è al mondo ancora più complicato del senso della vita che si sono dedicati, oltre a quelli, oggi evidentemente fuori moda, che hanno provato e provano a fotografare la contemporaneità, leggi alla voce sociale, politica, impegno. Aggiungendo giusto una considerazione su come oggi anche la maggior parte dei cantautori, assurti a ruolo poetico negli anni Settanta proprio come narratori dei fatti storico-politici che dilaniavano il nostro Paese, non a caso ispiratisi in parte ai loro colleghi americani che avevano fatto altrettanto nel decennio precedente, hanno optato per una sorta di comodo silenzio, concentrandosi più su quel che capita in casa che in piazza, figuriamoci nel mondo, evitando anche di prendere posizioni fuori dalle canzoni, come per paura di perdere parte di quel consenso che con così tanta fatica ancora hanno. Ovvio che il tutto si traduce in un impoverimento dell’offerta, e non sto certo parlando di mercato, ma di stimoli intellettuali, perché la musica è e rimane il transfer più immediato e essere privati della possibilità di avere a nostra disposizione pensieri e parole, lasciatemi giocare con le citazioni, di chi ha la sensibilità di per dirci cose che magari non sappiamo, è un vero peccato. Anche per loro, non solo per noi. Ciò detto, è curioso come ci siano però artisti, spesso guardati anche con una certa spocchia appunto da chi nel tempo si è dedicato all’ascolto dei cantautori, il conflitto tutto posticcio tra intellighenzia e pop è scontro fratricida dal quale nessuno esce incolume, che invece decidono di farsi letteralmente carico di questo onere, provare a dire qualcosa che sia qualcosa di importante, lasciando per un po’ da parte la comodità e votandosi in maniera definiva alla “causa” dell’arte. Certo, e poi passo a parlare nello specifico di quel che in fondo vi sto già raccontando, farlo dopo una carriera lunga e piena di successi è forse più facile, perché da perdere c’è poco, quando l’affetto del pubblico è ormai consolidato, ma resta che pensare che l’arte sia andare in discesa attesta una visione miope, oltre che ottusa.
Tutto questo per dire che Roby Facchinetti, quel Roby Facchinetti lì, il cantante e pianista dei Pooh (lo so, nei Pooh sono tutti cantanti, ma appunto ho specificato che è anche il pianista) ha deciso di riprendere in mano un vecchio, vecchissimo progetto, e lo ha non solo tirato a lucido, ma ampliato fino quasi a farlo esplodere, tirandone fuori una versione aumentata che oggi sorprende non solo per portata, ma per effetto.
Parlo di Parsifal, album uscito nel 1973 a marchio Pooh, il primo dopo l’addio di Riccardo Fogli e quindi con l’arrivo di Red Canzian, cantante e bassista. Un album prog, quello, sorprendente non perché non fossimo (fossero, io ai tempi avevo quattro anni) autorizzati a pensare che i Pooh avrebbero potuto entrare di diritto in quella scena, scena che dall’Italia ha letteralmente conquistato il mondo, ma perché fin lì i Pooh erano prevalentemente quelli di Piccola Katy, Pensiero e Tanta voglia di lei, magnifiche canzoni pop, di enorme successo, ma appunto pop.
Ispirato all’opera di Wagner dedicata al cavaliere del Sacro Graal, Parsifal, ai tempi, ebbe un ottimo successo, non solo in patria, aprendo per un po’ una strada nel progressive ai nostri, poi però costretti a abbandonare questi territori a causa delle deludenti vendite dei lavori successivi. Quando nel 2016 i Pooh hanno deciso di fermarsi, lasciando che tutti potessero seguire le proprie idee personali, pensiamo all’Opera Pop di Red Canzian Casanova, davvero notevole, Roby decide di rimettere mano a quel progetto, in realtà affrontato su disco in maniera troppo spiccia viste le tante tematiche buttate sul piatto. Parlare di redenzione dell’umanità, questo il compito del cavaliere Parsifal, richiedeva infatti più spazio e maggiore ampiezza di respiro, solo che tre anni prima, nel 2013, era mancato quel Valerio Negrini non solo autore di buona parte dei testi dei Pooh, ma che a Parsifal aveva dato tutte le parole. Roby si rivolge quindi all’altro paroliere della band, e non un paroliere qualsiasi, ma quello Stefano D’Orazio che nei Pooh era stato anche cantante e batterista (a questo punto mi tocca menzionare anche Dodi Battaglia, cantante e chitarrista, così non abbiamo fatto torto a nessuno). Stefano ha firmato alcuni dei testi dei Pooh, è vero, normale che Roby si sia rivolto a lui per provare a rimettere mano a un progetto così ambizioso. Come è andata la storia è noto, durante il Covid Stefano muore, strappatoci proprio dalla pandemia, ma il suo contributo a Parsifal- L’uomo delle stelle è stato già dato. Roby si è quindi messo al lavoro, circondato da tanti validi collaboratori, immaginando un lavoro esplosivo, al quale ha dedicato tempo e sforzi arriverei a dire quasi sovrumani, per rimanere in tema, il tutto con le reunion dei Pooh nel mentre e tutto quel che chi ama seguire la più longeva band italiana ben conosce. Oggi Parsifal- L’uomo delle stelle è qui. Quarantaquattro canzoni, con le tante voci che accompagnano quella di Roby, ogni personaggio ha il proprio interprete, gli strumentali, le canzoni vere e proprie e una quantità di musica realmente suonata da pareggiare i conti con la tanta, troppa musica che invece procede in automatico sul mercato. Un lavoro imponente, che presto diventerà a sua volta un musical prog, il destino di un lavoro così impegnativo non poteva che essere questo, dove si affronta appunto il grande tema dei temi, il senso della vita, e per farlo mette in campo tutta la sapienza compositiva di Roby Facchinetti, quasi sessant’anni di onorata carriera alle spalle. Un atto quasi situazionista in questa epoca nella quale Daniel Ek, il sommo capo di Spotify, invita gli artisti a mollare il formato album per andare a tirare fuori una canzone al mese. Quarantaquattro canzoni per oltre due ore di musica, toh, Daniel, incarta e porta a casa. Un modo sano per farsi portare altrove, come l’arte sa e può fare, e per confrontarsi con una storia antica che ancora oggi ha tanto da dire e dare.