Le parole dello sciatore
Christof Innerhofer non riesce a darsi pace. Di notte vaga davanti all’appartamento che condivide a La Parva, in Cile, con i compagni della Nazionale di sci alpino Florian Schieder e Max Perathoner. A 40 anni, il campione del mondo di supergigante 2011 ha vissuto tante difficoltà nella sua lunga carriera, ma l’addio a Matteo Franzoso, 25 anni, morto dopo una caduta terribile in allenamento sulla pista dove gli azzurri preparano la stagione olimpica, lo ha scosso nel profondo come ha detto a La Stampa.
«Non riesco più a restare qui, in Cile. Trovo tutto assurdo. Torno in Italia. Spero di partire al più presto. Devo andare all’ambasciata per avere il passaporto. Qui mi hanno rubato tutto, portafogli, documenti, computer. Appena atterrati stavo caricando gli sci sul pullman e mi hanno preso lo zaino… Di certo ci aspettavano. Ma questo è irrilevante. Sono sconvolto per la morte di Matteo, un ragazzo simpatico, bravo, andava d’accordo con tutti. Ho bisogno di tornare in Italia. Per me a questo punto il lato sportivo non conta più, devo staccare. Dal mio punto di vista è un gesto di rispetto e amicizia nei confronti di Franzoso. Per tutti noi era Franz. Mi sembra giusto accompagnarlo nell’ultimo atto, quello del saluto al funerale. Non sappiamo ancora la data. Per me restare qui è una tortura. Mi torna sempre in mente la scena dell’incidente».
Innerhofer non era al cancelletto in quel momento, ma la tragedia gli è rimasta impressa.
«No. In allenamento sono partito due minuti prima di lui. Pensi due minuti… Poi ho ripreso la seggiovia e ad un certo punto ho visto i soccorritori. Ho realizzato che l’atleta in barella era Matteo. Ho sentito le urla di tutti quelli che hanno cercato di aiutare, erano in panico, agitati. E, purtroppo, grazie alla mia esperienza, ho capito subito. Conosco molto bene i tracciati della Coppa del mondo, tutti sanno che le mie ricognizioni sono precisissime… Ecco in quell’istante, sulla seggiovia, il quadro mi è apparso subito molto chiaro. Sapevo che Matteo non ce l’avrebbe fatta. Solo un miracolo poteva salvarlo. Perché era finito dietro la staccionata di legno. E se sbatti la testa lì… sei finito. Ero sotto choc. Non ho più sciato, non sono più tornato sulla neve. Fatico a dormire. Anche se era più giovane abbiamo diviso tanti giorni e momenti insieme. Apparteniamo allo stesso gruppo militare, le Fiamme Gialle. Mi chiedeva consigli. Fatico a parlarne al passato. Franzoso è una persona perbene. Per tutti noi è un grande lutto. Lo è per la nostra comunità, per la squadra».
Poi sulla sicurezza: «Poteva capitare a tutti un incidente così. Ne abbiamo discusso in squadra. Sui social gli azzurri gli hanno reso omaggio. Da Giovanni Franzoni, che divideva la stanza con lui, a Mattia Casse agli stranieri. Il club dei velocisti è sempre molto solidale, in gara cerchiamo di batterci l’uno con l’altro ma fuori siamo molto legati. La velocità è ciò che un discesista ama di più. È adrenalina pura, quasi una religione. Il motivo che ti spinge a dedicare tutte le tue energie e tutta la tua carriera a questa specialità. E poi i salti lunghi, le pieghe delle curve sono da sempre la mia passione. Un po’ come la MotoGp. Da quando gareggio ho sempre avuto rispetto per la discesa e per il supergigante. Nel nostro mestiere la regola numero uno è non fare mai le cose senza pensare».