Ho due figli adolescenti, in procinto di cominciare le scuole superiori, sono gemelli. Li osservo e resto affascinato da tutto quello che li riguarda. Ho altri due figli di qualche anno più grandi, Lucia scrive anche su queste colonne, quindi l’esperienza di vedere i figli entrare a pieno titolo nell’età dell’adolescenza l’ho già vissuta in un passato neanche troppo remoto, ma vi giuro che è come fosse la prima volta.
Chiaramente ci sono altri problemi più seri, ma quando si è adolescenti può risultare estremamente difficile capire quale posto si ha al mondo. In questo può essere d’aiuto riconoscersi in una qualche estetica, provando quindi a ritrovarsi con altri che riteniamo nostri simili a partire dalle apparenze, perché anche l’occhio vuole la sua parte, non dico appunto niente di stravolgente.
Quando ero un bambino, infatti, e poi un ragazzino, mi risultava piuttosto complicato capire chi fossi, condizione condivisa immagino a tutti i miei simili, o quasi, e anche basarmi sulle apparenze per trovare la solidale vicinanza di qualcuno non era poi così semplice.
Innanzitutto ero riccio di capelli, fatto che mi rendeva praticamente unico all’interno della mia classe, sia in quella delle elementari che delle medie, così venivano chiamate ai tempi le scuole primarie e secondarie di primo grado.
Vivevo anche in un quartiere socialmente superiore alla mia famiglia, fatto che non mi permetteva una omologazione agli standard vigenti, e condizione che mi avrebbe poi accompagnato anche alle scuole superiori, dove frequentare un liceo classico, per di più privato, mi avrebbe visto a fianco a buona parte di gente assai più agiata di me, una storia che ho già raccontato e che ritengo troppo lunga da ritirare fuori qui e ora.
Non potendo quindi essere uguale agli altri, questo mi è stato subito piuttosto chiaro, due erano le strade che mi si paravano davanti, diventare invisibile, come certi supereroi che leggevo nei giornalini, o mettere in evidenza le tante differenze che mi distinguevano dagli altri, facendo di quella che poteva essere una unicità un qualche tratto distintivo, non dico un punto di forza, ero pur sempre un bambino, prima, e un adolescente, poi, ma quasi. Oltre che giovane cucciolo in un quartiere socialmente più elevato del mio, però, ero anche un sopravvissuto, il mio gemello Francesco era morto durante il parto, l’idea di scomparire non mi è mai parsa praticabile, non fosse altro perché ho sempre percepito che avrei dovuto lavorare sempre e comunque per due, figuriamoci scomparire. Così, coi miei capelli ricchi neri, ho optato per distinguermi, ben consapevole sin da subito come essere altro dal resto fosse una questione spinosa e di difficile gestione.
Quando diventi cosciente che gli altri non potranno non notare quanto tu sia distante dal resto del coro, non fosse altro per una faccenda di mera sopravvivenza, non puoi far altro che alzare una qualche palizzata difensiva, a partire dal non tenere conto dei giudizi che gli altri, il coro appunto, faranno in modo di farti piovere addosso con una costanza e una ostinazione quasi ammirevole, non fossi appunto tu a pagarne in qualche modo le conseguenze. Quindi ok, di quel che pensano e dicono gli altri non ti interessi. O fingi di non interessarti. Vai avanti per la tua strada e ti fai i fatti tuoi, contando che prima o poi ti venga risposto con la medesima moneta, povero ingenuo. Poi lavori su te stesso, provando a partire appunto da quei tratti distintivi, e cercando di capire come evidenziarli senza incorrere nel ridicolo, o comunque senza lasciare troppo spazio a un dibattito che non ti permetterebbe comunque di uscirne bene, l’omologazione ha dalla sua i numeri, indubbiamente, e quella compattezza che l’essere solitari non permetterà mai a nessuno.
Questo per dire che quando mi capita, ne ho alcuni da parte, non saprei neanche dire perché, di rivedere certi miei quaderni di quando ero un giovane uomo in cerca di se stesso, spesso le pagine finali, il retro della copertina, in alcuni casi anche i bordi, quando erano quaderni coi bordi, appunto, sono corredati da miei disegni, sono sempre stato abbastanza portato per i disegni. Schizzi fatti a penna, sempre nera, ho un odio irrazionale per le penne blu, che mostrano un me stesso adulto con lunghi capelli ricci fin oltre le spalle, e spesso con indosso un cappotto nero, tipo quello che parecchi anni dopo avremmo visto al cinema indossato da Keanu Reevse nei panni di Neo, in Matrix, il film dei fratelli Watchowski, oggi sorelle Watchowski, una delle storie più incredibili di sempre, quella delle registe di Matrix, credo di poter affermare senza paura di smentite. Decine e decine di questi disegni. Il me stesso adulto, vestito come Neo e con quel casco di capelli lunghi e ricci, è magro, e su questo, confesso, avrei anche potuto lavorare un po’ meglio, ma per il resto credo di esserci andato piuttosto vicino, perché da che ho finito le scuole superiori i capelli non me li sono più tagliati corti, sempre che li abbia mai avuti veramente corti, lasciandoli a volte arrivare quasi sopra il sedere.
Dico questo perché, in una forma di ricerca solidale di un immaginario cui aderire, non potendo contare su una contiguità in tal senso con chi mi stava accanto, ho sempre faticato non poco. Mi spiego meglio, sapendo che gli altri, quelli che vivevano nel mio quartiere, che frequentavano le mie stesse scuole, erano altro da me, e non potendo vivere come la famosa isola di John Donne, ho cercato più distante chi mi potesse somigliare, guardando l’orizzonte come il famoso naufrago di un’isola, scusate se abuso di questo concetto, che conta sempre di trovare qualcuno che arrivi a salvarlo.
Nel mio caso il qualcuno in questione era in realtà parte di un’altra altritudine, permettetemi la licenza poetica, aveva cioè caratteristiche più vicine a me, almeno a livello di estetica e di attitudine, o alla proiezione di me che mi stavo costruendo, ma stava comunque assai distanti dal mio reale immaginario.
Una questione complicata, sul profilo meramente teorico, assai più semplice se la atterriamo, come direbbero durante un breaf qui a Milano. Perché in pratica, quando ho cominciato a cercare di capire chi mai potesse essere parte di un insieme cui sarei potuto appartenere pure io i primi riscontri che ho incontrato era nel gruppo di metallari che si riunivano nel vicino Bar Veneto, a pochi passi da dove abitavo ai tempi, parlo di Ancona. C’era anche Giacomo, che almeno fino alle elementari era stato tra i due o tre amici che avevo frequentato più a lungo, ma che poi con le medie si era un po’ allontanato da me, figuriamoci con l’inizio delle superiori. Quei ragazzini avevano tutti i capelli lunghi, come io avrei voluto avere, vestivano anche in maniera piuttosto eccentrica, e come dicevo prima, sapendo di non poter contare su quell’omologazione che ai tempi era data dall’avere tutti le medesime scarpe, i medesimi giubbotti, i medesimi pantaloni, una punta di eccentricità ci sarebbe pure stata, tutti costantemente in jeans, con quei giubbotti con su appiccicate quelle immagini mostruose, diaboliche mica per niente avevo deciso che a pallone sarei diventato mancino, cosa in effetti accaduta, proprio perché i mancini erano pochi. Solo che la musica che ascoltavano, i metallari, sapevo, prendevano il nome dall’heavy metal, che era un genere di rock iperveloce e anche piuttosto violento, rumoroso, distorto, non mi piaceva affatto. Non lo capivo, o meglio, non riuscivo a decodificarlo, come uno che volesse imparare una lingua lontana e sconosciuta da zero, col risultato che tutto mi sembrava una accozzaglia di suoni. Andava meglio coi dark, che erano un altro dei gruppi dove i ragazzi portavano anche i capelli lunghi, loro si trovavano al chiosco di Cionna, nella sempre vicina piazza Cavour, lì a due passi dove si trovavano anche in punk. La loro musica mi sembrava più digeribile, ma non avevo particolare attrazione verso il dipingermi la faccia di bianco, bistrarmi gli occhi di nero, e anche quell’estetica fatta di teschi e bare mi sembrava alquanto lontana da me. I punk non li consideravo proprio, loro si tagliavano i capelli da soli, era chiaro, nessuno portava i capelli lunghi, e davano anche l’impressione di avere un rapporto irrisolto con l’igiene intima. Indubbiamente, però, erano i metallari quelli che mi sembravano più vicini a un mio immaginario, e il fatto che tra loro ci fosse Giacomo mi era ovviamente di aiuto. Non potendo quindi contare su una vicinanza di gusto musicale, ho optato per scegliere in quel contesto qualcosa che non mi fosse proprio ostico, se non addirittura ostile. La prima canzone che credo di aver apprezzato in un ambito non dico ascrivibile al metal, ma almeno a un hard rock che al metal fosse affine, è stata Here I Go Again degli Whitesnake. Credo di aver visto il video in una delle prime puntate di Deejay Televion, che per noi ragazzini era un fondamentale luogo di conoscenza, e di essermi detto “toh, il cantante ha i capelli lunghi e ricci, proprio come me”, consapevole che il me di cui stavo parlando era quello disegnato nei miei capelli, non certo quello presente già sul pianeta Terra, e inconsapevole, non vedo come sarebbe potuto andare diversamente, che quando io poi i capelli li avrei portati lunghi non sarebbe più stato il metal o l’hard rock, non a caso c’era una costola di quel genere chiamato Hair Rock, proprio per sottolineare le capigliature dei membri delle varie band, penso ai Bon Jovi, ai Poison di Every Rose Has Its Thorn, agli Hanoi Rocks, agli LA Gun, da cui nasceranno poi i Guns ‘N Roses, agli Europe della megahit The Final Countdown, vero inno di quei tempi, capace di dominare classifiche altrimenti infarcite di canzoni di pop elettronico, agli stessi Whitesnake, inconsapevole, dicevo, che quando io poi i capelli li avrei portati lunghi, parliamo dei 90s, il grunge avrebbe reso il tutto non dico mainstream ma quasi, e c’erano comunque stati quei dieci anni degli 80s a rendere il tutto meno faticoso. La canzone, Here I Go Again, era una ballad molto pomposa e epica, sostenuta dalla voce acuta e potente del cantante, quel David Coverdale che poi avrei scoperto aver cantato anche nei Deep Purple, da tutti conosciuti più che altro per il riff di chitarra più famoso del mondo, e anche più suonabile anche da chi non sa suonare, Smoke on the Water. Una canzone contenuta in Saints and Sinners, del 1982, che però solo in una nuova versione del 1987 avrebbe fatto sfaceli, conquistanto la Billboard 100 oltre che le classifiche di mezzo mondo. Certo, lui, David Coverdale, era biondo e soprattutto portava quelle imbarazzanti spalline, così tipiche di quegli anni 80, un dandy prestato al metal, in pratica. Anni dopo sarebbe andata meglio con Steven Tyler degli Aerosmith, il loro album Get a Grip uno dei miei preferiti di tutti i tempi, ma David Coverdale e la sua Here I Go Again è indubbiamente stato l’imprinting. Quando anni dopo mi sarei trovato a cantare la deeppurpleiana Burn nella sala prove del mio fraterno amico Massi Di Prenda in compagnia di quel soggetto di Ayala, metalmeccanico con la faccia da nativo americano che tutti pensavano venisse chiamato così proprio per il suo aspetto, mentre nei fatti si chiamava e chiama proprio Gianfranco Ayala, lui molto più grande di noi a suonare la chitarra come nessun altro in Ancona, ai tempi, ecco, credo di poter dire si sia chiuso un cerchio, il fatto che quel progetto non sia mai approdato su un palco uno delle tante dinamiche che il nascere e crescere in provincia ti abitua a vivere con una certa naturalezza. Quasi la stessa naturalezza che mi ha portato negli anni a riconoscere come parenti stretti qui metallari, quei dark, quei punk che si muovevano nel sottobosco controculturale della mia città, ognuno con la propria peculierità e caratterizzazione, ma tutti comunque lontani da quel coro nel quale non avremmo mai voluto entrare, ma che mai ci ha chiesto o permesso di farlo.