In fondo è sempre una questione di prospettiva. O magari di dettagli.

Succede questo. Da qualche tempo a questa parte, sarà la vecchiaia che incede, ho preso l’abitudine di guardare i miei figli mentre si incamminano nel mondo. No, non è una metafora. Me ne sto proprio lì, in piedi sul balcone che affaccia sulla piazza di fianco al palazzo dove si trova il nostro appartamento, la piazza che divide il palazzo dove si trova il nostro appartamento con la stradina che porta verso la più vicina fermata della metropolitana, lì a neanche duecento metri dal nostro portone, e dal balcone che affaccia sulla piazza che divide il palazzo dove si trova il nostro appartamento con la stradina che porta verso la vicina fermata della metropolitana, controllo che il loro incamminarsi nel mondo proceda senza intoppi, nello specifico qualche balordo che dia loro fastidio, qualche automobilista che guida a cazzo di cane. Cosa io possa mai fare dal balcone eccetera eccetera mai dovesse capitare qualche intoppo nel loro incamminarsi nel mondo non è dato sapere, ma di fatto ogni volta che uno di loro esce, son quattro, succede con una certa frequenza che uno di loro esca, nella nostra routine casalinga, io me ne sto lì. I più piccoli, i gemelli Francesco e Chiara, lo sanno, e mi salutano ogni volta, dove per ogni volta intendo sia ogni volta che si incamminano nel mondo, sia ogni volta che poi nel loro incamminarsi nel mondo si fermano, per andare verso la metropolitana hanno due semafori non sincronizzati coi quali confrontarsi, quindi il loro incamminarsi prevede almeno un pit-stop. I due più grandi, Lucia, ventiquattro anni, e Tommaso, venti anni, credo lo sappiano ugualmente, ma fingono di non saperlo, e non mi calcolano proprio, neanche per errore. Quindi in questo caso il mio guardarli, che per essere chiari avviene anche in caso di pioggia, con la sola accortezza di sporgermi dalla porta finestra senza appoggiare le ciabatte sul pavimento del balcone, evidentemente bagnato, quindi in questo caso il mio guardarli è mero gesto d’affetto, che non prevede la routine del saluto, con le mani portate alle labbra al secondo semaforo affrontato, come un saluto.

Succede quindi questo, oggi i gemelli, Francesco e Chiara, hanno raggiunto mia moglie per andare a fare delle compere. Lei, mia moglie, si trovava a poche centinaia di metri da casa, quindi loro, Francesco e Chiara, si sono diretti non verso la fermata della metropolitana, attraversando la piazza passando per i due semafori non sincronizzati, ma lungo la lunga arteria che porta verso il centro, arteria che corre per un breve tratto parallelamente alla piazza e al lato del palazzo nel quale si trova il nostro appartamento e dove si trova il balcone dal quale sono uso guardarli incamminarsi nel mondo. Oggi c’era un sole caldo e luminoso, nel senso che il meteo non ha messo filtri eccessivi tra noi e il sole, che di suo è caldo e luminoso sempre, quindi mi sono serenamente incamminato lungo il balcone, per affacciarmi al lato opposto rispetto a quello sul quale sono solito affacciarmi, il balcone in questione corre lungo tutto il nostro appartamento, sono circa quattordici metri. Premesso che i gemelli, forse perché questa non era routine, non mi hanno a loro volta calcolato, è su un altro aspetto che voglio soffermarmi.

La piazza che si trova a fianco del palazzo nel quale si trova il nostro appartamento è una piazza da poco tirata a lucido dal Comune di Milano. Con tirare a lucido intendo che il pavimento della piazza è stato da poco rifatto, che il parchetto dove si trovano alcuni giochi per bambini è stato da poco sistemato, addirittura che il recinto di detto parco, da poco sistemato ma subito rovinato da alcuni balordi che sono usi andarci nella notte per sfondarsi di birre comprati nei limitrofi negozietti gestiti da cingalesi, è già stato riparato, le aiuole tutte tenute in ordine, come anche i rami degli alberi. I rami degli alberi, per altro, d’estate di rinfoltiscono, impedendo a noi di guardare nelle case di chi abita negli appartamenti nei palazzi dall’altra parte della piazza, e viceversa. d’’inverno, invece, le foglie cadono liberando la vista, il fatto di avere le finestre chiuse a impedire a tutti noi di farci i fatti degli altri. Abitando al settimo piano e non avendo altri palazzi che affaccino nelle stanze di casa, posso serenamente dire di avere una certa libertà riguardo la privacy. Per contro posso anche dire di avere un certo agio nel controllare i palazzi vicini, tutti più bassi del nostro.

Oggi, quindi, succede che mi affaccio sul lato del lungo balcone che affaccia sulla piazza che si trova a lato del palazzo dove si trova il nostro appartamento, il lato che guarda verso il centro, per salutare i miei figli piccoli, i quali non ricambieranno la cortesia. Nel farlo ho però modo di guardare sia nella sottostante piazza, o almeno nella porzione della piazza che si trova nel lato della piazza che si trova a lato del mio palazzo, gli alti alberi ancora pieni di foglie mi impedisce di guardare al resto della piazza, che diventa solo fonte di suoni, voci e rumori, almeno di notte, quando i rumori del traffico calano.

Lì, steso in una delle aiuole, all’ombra di un albero, a due passi due da una di quelle scatolette che fungono da trappola per topi, quelle scatolette nere, di forma sghemba, con un buco su un lato e tutto il resto chiuso, si trova un ragazzo di colore che dorme in una posa che potrei definire asimmetrica. Sembra la sagoma di un morto di quelle che si vedono nei film, fatte col gesso in terra, le gambe in una posizione che da quassù non sembra molto naturale. Però si muove, quindi non è morto. Lungo l’arteria che porta verso il centro ci sono auto e auto, che fanno i rumori delle auto, si tratti di motori o di clackson, e dalla piazza arrivano schiamazzi, a occhio direi un gruppo di donne filippine che ride e strilla, le donne filippine del quartiere ridono e urlano sempre, per ragioni che vorrei prima o poi scoprire, e anche qualche bambino che gioca al parchetto, ma lui dorme. Il sole passa dal lato opposto della piazza, dopo essere sorto nel lato del balcone dal quale mi affaccio solitamente per salutare i miei figli, sì, abito nella parte est di Milano, quindi il suo sonno non sarà comunque disturbato dal caldo dei raggi.

Lo guardo un po’, mentre intravedo i gemelli che passeggiano lungo il marciapiede della arteria che porta verso il centro, quando i balconi dei palazzi che superano mi permette la vista. Proprio su uno di quei palazzi, per la precisione il primo che si trova dopo un ennesimo semaforo, assisto a un’altra scena che non vivessi a Milano da ventotto anni troverei singolare, in un balcone non troppo grande, di quelli che però ha un muretto a fungere da cinta, nel mio c’è una struttura di metallo dove si trovano lastre di vetro smerigliato, c’è una tipa in bikini. Posso vederlo perché è un paio di piani più in basso del mio. Sulle prime non capisco che è in bikini, sembra quasi sia in reggiseno su un paio di calzoncini corti, ma guardando meglio, perché io guardo meglio, mi accorgo che è proprio un bikini, per altro del medesimo colore bordeaux della facciata del palazzo. So che detta così potrebbe farmi passare per un guardone, o per fare più il raffinato un vouyer, ma sono uno scrittore e c’è tutta una vulgata sul fatto che gli scrittori che guardano dalla finestra, e per traslato da un balcone, stanno in realtà lavorando. C’è una frase di Joseph Conrad, frase che tira in ballo il guardare dalla finestra e il lavorare e che inizia con un laconico “dite a mia moglie che”, a riguardo. Frase che però viene di volta in volta attribuita anche a altri, da Rousseau a altri. C’è il saggio E unibus pluram di David Foster Wallace, che a partire dal guardare dalla finestra e finendo poi al guardare la tv, parla della necessità per lo scrittore di avere un luogo, una finestra appunto, metaforica o meno, dalla quale guardare, possibilmente senza essere visto, il mondo. Finestra che oggi come oggi, mi sembra evidente, è data dai social, anche se lì si guarda e si viene guardati non per quel che si è, ma per quel che si decide ci possa meglio rappresentare, tutto un gioco di apparenze che una piazza o un balcone difficilmente permettono.

La tipa in bikini bordeaus sul balcone del palazzo dalla facciata bordeaux è sicuramente in bikini, ora lo vedo bene, e vedo anche perché è in bikini, perché dopo essersi accesa una sigaretta si stende su una sdraia di quelle di plastica rigida, bianca, che se ne stava lì, da qualche parte. Questo gesto di accendersi una sigaretta, la tipa ha i capelli che non le arrivano alle spalle, sembra quasi roba d’altri tempi, e non saprei dire esattamente perché a me, da qui, fa venire in mente Rizzo, il personaggio di Grease interpretato da Stockard Channing. Ovviamente il fatto che l’attrice che nel 1978 ha interpretato Rizzo in Grease si chiami Stockard Channing l’ho scoperto solo dopo essere andato a cercare la cosa su Google, e confesso che anche il nome Rizzo non me lo ricordavo. Mi ricordavo che l’attrice era una morettina coi capelli corti e neri, anche se dalle foto trovate su Google vedo che ha i capelli più corti della tipa col bikini bordeaux sul balcone del palazzo con la facciata bordeaux, e che era anche più in carne della tipa col bikini bordeaux sul balcone del palazzo con la facciata bordeaux. Quel che ricordo è che il personaggio era vagamente un villain, per quanto sia possibile essere un villain in una sorta di musical post-adolescenziale, un villain che però, questo è un vago ricordo che non trova supporto nell’aver letto la trama velocemente su Wikipedia, alla fine fa tenerezza, doversela vedere con Olivia Newton-John non doveva essere proprio una roba facile. Olivia Newton-John che ricordo essere morta recentemente, sempre Wikipedia mi dice nel 2022, mentre Stockard Channing è viva e nel mentre sembra aver abbondantemente abusato di chirurgia estetica, credo che quest’ultima frase potrebbe comodamente passare per body shaming, ma in realtà lo dico con l’affetto che si prova per chi ti ha fatto tenerezza in giovane età, se vi piace l’idea di cullare il ricordo di Grease e di tutto quel che la visione di quel film vi ha regalato nel tempo, fidatevi di me, non andate a cercare sue foto oggi che ha ottantuno anni.

Ora, immaginatemi qui, sul lato che volge verso ovest del mio lungo balcone, uno dei due lati stretti del lungo balcone, alla mia sinistra la piazza di fianco al palazzo dove si trova il nostro appartamento, di fronte il palazzo dalla facciata bordeaux che si trova a lato della arteria stradale che porta verso il centro, su un lato della piazza, sotto un albero all’ombra, un ragazzo di colore che dorme sull’erba tagliata di poco, alla faccia della cura per la biodiversità, a pochi passi la scatoletta che funge da trappola per topi, sul balcone del palazzo con la facciata bordeaux la tipa col bikini bordeaux, che prende il sole su una sdraia di plastica rigida bianca, fumando una sigaretta. L’uno è ovviamente ignaro della presenza dell’altra, e viceversa, entrambi ignorano la mia terza presenza, presenza di uno che guarda e prende mentalmente appunti.

A volte, neanche troppo di rado, di qui anche questa mia recente routine di controllare i miei figli mentre si incamminano nel mondo, su uno degli alberi che si trovano lungo l’arteria che porta verso il centro e che corre a lato della piazza che si trova di fianco al palazzo dove si trova il nostro appartamento, c’è qualcuno che piscia. Gli alberi sono nove, tutti piuttosto grandi. Un tempo erano undici, ma il grandissimo temporale che un paio di anni fa ha devastato Milano, abbattendo alberi e pali, ne ha fatti cadere due, per altro sopra auto parcheggiate lì dove solitamente parcheggio io la mia auto. In quel caso no, perché mi trovavo fuori città, fortunatamente. Nove alberi, poi c’è una edicola e un baracchino gestito da un indiano che vende fiori e piante. L’edicola apre quando l’anziano edicolante ha voglia di aprirla, mai nella solita ora in cui ci si immagina si debba aprire un’edicola, del resto nessuno compra più quotidiani e magazine di carta, qualcuno avvisi di questo gli uffici stampa che continuano a trattare i giornalisti che scrivono per quotidiani e magazine di carta, i cosiddetti quotidianisti, come se fossero una sorta di elite del giornalismo musicale.

Tornando agli alberi, sul lato della piazza che si vede dal mio balcone ce ne sono nove, e spesso mi capita di vedere qualcuno che, per ragioni che sfuggono a qualsiasi logica, decide di pisciare lì, le spalle alla strada. Certo, gli altri alberi della piazza sono esposti a chi si trova nella piazza, o alla strada che corre parallelamente a quella che si trova sotto il palazzo dove si trova il nostro appartamento, strada dove ci sono un bar e diversi negozi, ma anche decidere di pisciare con la schiena rivolta a una strada di grande traffico è una scelta indubbiamente singolare. Tanto varrebbe farlo rivolti verso la strada, mostrando le pudenda, almeno potremmo interpretarlo non come una semplice urgenza fisiologica, ma come un gesto quasi politico.

Ultimo dettaglio, poi passo al cuore del discorso, parlando della tipa col bikini bordeaux che sul balcone del palazzo con la facciata bordeaux se ne sta seduta su una sdraia di plastica rigida bianca fumando una sigaretta non ho detto “ragazza” ma “tipa” perché anni fa, quando abitavo nel nostro appartamento precedente a questo dove abitiamo ora, in realtà sempre in questo quartiere e non troppo lontano da dove si trova il palazzo con la facciata bordeaux nel cui balcone si trova la tipa col bikini bordeaux che e ne sta seduta su una sdraia di plastica rigida bianca fumando una sigaretta, quasi tutti i giorni da quando il sole si faceva non dico insistente, ma almeno timido, diciamo dalla primavera fin quasi all’estate, noi poi d’estate si lasciava sempre Milano, la si lascia anche ora, per andare in vacanza, ci capitava di vedere dal piccolo balcone di quell’appartamento, un piccolo balcone che affacciava su un cortile a sua volta confinante con un altro cortile, dove affacciavano tanti appartamenti di tre palazzi, il nostro era un palazzo piccolo e con pochi appartamenti, ci capitava di vedere dal piccolo balcone di quell’appartamento una tipa, ai tempi avrei detto ragazza, che si metteva seduta su una sedia a prendere il sole in un balcone altrettanto piccolo del nostro. Anche lei in bikini, tutti i santi giorni nel pomeriggio, quando cioè il lato del palazzo dove si trovava il suo balcone veniva illuminato dal sole. A fianco del suo balcone, nota di colore, c’era quello di un mio coetaneo che viveva ancora coi genitori, ora sono entrambi morti, genitori anziani all’epoca, che erano soliti salutare i miei figli grandi, Lucia e Tommaso, soprattutto Tommaso, che però ai tempi erano piccoli, i gemelli non erano ancora nati. Un giorno, considerate che i balconi di cui vado parlando erano di palazzi i cui portoni erano in altre strade rispetto alle mie, e che erano palazzi alti e con molti appartamenti, mi capita di incontrare la ragazza che prendeva tutti i giorni il sole in bikini, seduta su una sedia, e scopro che la ragazza che prendeva tutti i giorni il sole in bikini, seduta su una sedia, era in realtà una signora di circa sessantacinque anni, decisamente tenuta su fisicamente, il fisico asciutto, i seni non cadenti, i capelli portati corti di un rosso evidentemente tinto ma che risultava altrettanto evidentemente naturale, ma decisamente non era una ragazza. Un po’ come la “regina d’inverno” delle fiabe, che da lontano sembrava una ragazzina ma che aveva millenni di vita alle spalle, di qui la mia cautela nel parlare di ragazze quando non ho la certezza data dal poter vedere da vicino di chi sto parlando, e il balcone del palazzo con la facciata bordeaux sul quale si trova la tipa col bikini bordeaux che se ne sta seduta su una sdraia di plastica rigida bianca a fumare non è così vicina.

Ci siamo quasi, ultima postilla, se qualcuno si stesse chiedendo, immagino anche un po’ infastidito, perché io abbia per tutto questo mio scritto ripetuto a macchinetta sempre tutte le definizioni iperdescrittive riguardo i luoghi e le persone, senza mai cedere di un centimetro, mi tocca spiegare, entrando a gamba tesa nel racconto, abbattendo quindi la quarta parete e spiegando quel che ho fatto e sto facendo, che è tutto voluto, e che è tutto voluto perché oggi mi va di fare quella che tecnicamente si chiama metanarrazione, non certo per tirare per le lunghe quello che si sarebbe potuto riassumere in un semplice “guardando dal balcone di casa mia ho visto un tipo che dormiva in una aiuola e una tipa che prendeva il sole su un balcone”, ma che a mio immodesto modo di vedere necessitava di molte più parole e manovre di avvicinamento. E poi, dico a quel qualcuno che si stesse chiedendo, immagino anche un po’ infastidito, perché io abbia per tutto questo mio scritto ripetuto a macchinetta sempre tutte le definizioni iperdescrittive riguardo i luoghi e le persone, senza mai cedere di un centimetro, mi tocca spiegare, entrando a gamba tesa nel racconto, abbattendo quindi la quarta parete e spiegando quel che ho fatto e sto facendo, io vengo a rompere le palle sul tuo posto di lavoro? Che so?, sei un capocantiere e io arrivo dicendoti che secondo me il palazzo che state tirando su è tutto storto, come un umarell qualsiasi? O se sei un medico vengo a dirti che devi fare meglio quei punti, che così la cicatrice che lasci sarà equiparabile al dorso di un drago? Ecco, ognuno faccia il suo, per cortesia.

Me ne torno dietro la tastiera del mio PC, dove sono in realtà stato fino a questo momento, anche quando ovviamente vi dicevo che ero affacciato al balcone a guardare la vita che si svolge tutto intorno a me, giù in piazza e intorno alla piazza. Parlare di routine semplicemente e parlare di routine creando una routine, come tutte le routine rassicurante e anche pedante al tempo stesso, credo non sia esattamente la stessa cosa.

La piazza, quindi. Per dirla con un Antonello Venditti d’annata, per la precisione del 1982, “La piazza, amore, dimmelo tu cos’è? Quello che ancora ci manca, quello che ancora non c’è, e che ci prende alle spalle e non ci fa tornare indietro, mai più.”, parole contenute in Dimmelo tu cos’è, brano contenuto in Sotto la pioggia. La piazza, quella che già Venditti aveva cantato in precedenza, in quella Modena del 1979, l’album che la conteneva era l’epico Buona domenica, “Ma cos’è questa nuova paura che ho? Ma cos’è questa voglia di uscire e andare via? Ma cos’è questo strano rumore di piazza lontana?”, canzone che mica per caso cominciava con il cantautore romano che chiamava a più riprese tale Mauro, un amico cameriere che era solito seguirlo in quegli anni, borghesia e proletariato che trovavano un terreno comune dentro una canzone, la piazza è sempre stato quello che mi si presenta ancora oggi sotto gli occhi, un tizio di colore che dorme buttato dentro una aiuola, vicino a una trappola per topi, e una tipa che a poche decine di metri da lui prende il sole in bikini. Una complessità piuttosto rappresentativa del mondo, fatto di tante unicità, anche quelle che ci fanno rabbrividire, figuriamoci a avercela a pochi passi dal divano senza doverci entrare in contatto diretto, guardare senza essere guardati.