La pesca del guatto in Ancona (piccolo sentito omaggio a Richard Brautigan)

Una quindicina di anni fa, in realtà sedici, ho lavorato attivamente per la televisione. Esperienza interessante, sotto il profilo meramente antropologico, ma assolutamente da non ripetere, parlo ovviamente per me. Non credo sia rilevante capire come ero arrivato lì, per altro con un ruolo apicale, oltre che ideatore e autore del programma mi ero trovato, mio malgrado, a vestire in corsa i panni del capoprogetto, per altro andando a sostituire quello che era con me ideatore e autore del programma, di colpo ritrovatosi dal ruolo di mio capo a quello di mio sottoposto, questo nonostante lui avesse una certa esperienza nel settore e io no. Il fatto era che io, proprio per quel mio essere neofita, non avevo con tutte le persone che lavoravano con e per noi nessun tipo di rapporto, fatto che mi permetteva di esprimere giudizi oggettivi, e soprattutto scevri da influenze dettate dall’emotività, emotività che in quel programma giocava un peso direi dire anche troppo importante. Di fatto per circa tre mesi ho passato un numero spropositato di ore dentro degli studi televisivi, passando per altro anche altro tempo sul pezzo anche mentre ero a casa, col risultato di aver perso otto chili di peso, fatto che oggi rimpiango come chi sa quanto costi fatica perdere peso semplicemente mettendosi a dieta, e abbia rischiato un mezzo esaurimento nervoso. In una delle puntate di quel programma, credo che scoprire di cosa sto parlando sia semplice come scrivere quattro parole su Google, abbiamo avuto come ospite Drupi, artista che associavo al mio passato anconetano, quando mi capitava di ascoltare la sua voce soul cantare quelle belle canzoni melodiose nelle quali parlava d’amore con una delicatezza che poco si addiceva a quella faccia da indiano americano nato per caso in riva al Ticino, a Pavia. Aver citato il Ticino, più che Pavia, non è affatto casuale, era proprio lì che volevo arrivare, e al fatto che in quell’occasione, mentre si chiacchierava nei camerini in attesa dell’inizio delle registrazioni, il nostro era un programma registrato in finta diretta, cioè tutto in un’unica soluzione come fossimo in diretta, ma col paracadute della registrazione fatta con un giorno di anticipo, se c’era qualcosa da aggiustare avevamo tutto il tempo per farlo. Inizialmente avevamo addirittura due settimane di gioco, poi una puntata sfumata per colpa di una sòla tirata da un ospite, unita all’assenza di contratto fatto dalla rete televisiva a detto ospite, ci aveva eroso gli spazi d’azione, lasciandoci comunque abbastanza per portare a casa il nostro. In quella pausa, preludio per altro di una pennichella fatta prima dell’inizio, parliamo di una registrazione fatta in orario serale, quindi di una pennichella nell’ora dell’aperitivo, Drupi mi ha raccontato di come passa le giornate, da anni. Consapevole di essere fuori dal mercato discografico, pur essendone stato parte importante in passato, ma di avere ancora un certo successo nell’est europeo, la chiacchierata in questione è stata fatta sedici anni fa, certo, quindi prima del Covid e prima della guerra tra Russia e Ucraina, ma l’est è ampio e Drupi resta uno dei nostri artisti di quel periodo più amati all’estero, Drupi si limita a fare un paio di concerti all’estero, pagati quanto qui da noi pagherebbero un concerto fatto in uno stadio sold out davvero, per poi passare il resto dell’anno facendo qualche rara comparsata tv, qualche serate in piazze estive e per il resto andando ogni santo giorno sul Ticino a pescare. Lì, con gli stivaloni fino a metà coscia, il gilet per tenere gli ami e le esche, i capelli raccolti in una coda bassa, mica scherzavo quando dicevo che Drupi sembra un nativo americano, tutti i santi giorni a pescare sul Ticino, facendo di un hobby qualcosa di vicino a una professione. A mia precisa domanda, perché mai passasse così tante ore tutti i giorni immerso nelle acque limacciose del fiume a pescare, Drupi mi ha risposto nel solo modo che credo si possa rispondere a domanda tanto scema, “perché mi piace”. Avrebbe potuto dire che lo faceva perché lo aiutava a meditare, per estraniarsi da un mondo caotico che tende a stritolarci, o per mille altri motivi, ma no, Drupi andava e va a pescare tutti i giorni perché gli piace.
A me l’idea di andare a pescare ha sempre affascinato. Ci sono tante cose che mi affascinano, del resto, come, che so?, imparare a andare sul surf, imparare a suonare il sassofono, imparare a orientarmi guardando le stelle o il muschio che cresce sugli alberi. Non ho mai provato interesse per roba estrema, come fare il sub, buttarmi con l’aliante o il paracadute, andare su macchine o moto molto veloci, ma per il resto ci sono un sacco di cose che mi sarebbe piaciuto saper fare, e per un po’ tra queste c’era il pescare. Avevo letto Ernest Hemingway, avevo letto Melville, avrei letto, non credo fosse già accaduto, Richard Brautigan e credo che la cosa mi avesse in qualche modo influenzato, ma è pur vero che stare lì dentro un fiume o su una barca in mezzo al mare a provare a pescare, imbastendo una battaglia di nervi con un qualsiasi pesce, era qualcosa di affascinante. Non dico qualcosa di simile a chi è in grado di riparare i meccanismi delicati e quasi invisibili di un orologio a ingranaggi, ma quasi. Per questo, non solo per questo, ma anche per questo, a un certo punto mi sono comprato una canna da pesca, ho preso ami, ho chiesto a mio cognato dove trovare quei vermoni che sapevo lui usasse per esca quando andava a pescare sugli scogli davanti alle grotte sotto la piscina comunale di Ancona, e sono andato a mia volta a pescare. Non volendo intorno gente che conoscevo, anche perché l’inesperienza, so per esperienza in altri campi, porta immancabilmente a fare le prime volte brutte figure, ho optato per la Lanterna Rossa, che poi è appunto la parte del porto di Ancona dove si trova una Lanterna Rossa, in fondo a un lungo molo, dall’altra parte di una striscia di mare che divide le acque del porto dal largo, una Lanterna Verde. Un luogo isolato, fatto di cemento bianco, con una serie di enormi blocchi di pietra su un lato, anche quelli tendenti al bianco. Come dire, un luogo senza alcuna possibilità di trovare un briciolo di ombra, dove la luce del sole viene riflessa da tutto quello che c’è, sia se si parla di quel che è fuori dall’acqua che il mare stesso. Una sorta di inferno, in estate, cioè esattamente nella stagione in cui ho deciso di mettermi alla prova a riguardo, non fosse altro perché di inverno dovevo andare a scuola. Quindi, ecco, diciamo che la poesia che nella mia testa ammantava tutto quel che riguardava la pesca è legata pavlovianamente a un calo di sali di quelli che ti fanno prendere i crampi anche alle dita delle mani, giuro è successo, ma fosse solo questo il problema. In realtà i problemi, non il problema, è cominciato quando i pesci hanno iniziato a abboccare all’amo, i vermoni che mio cognato Mauro mi aveva suggerito di usare in effetti erano eccezionali, il fatto che per prenderli io abbia dovuto frugare sotto terra dalle parti di quello che oggi è il desolante Parco del Cardeto, di suo un luogo bellissimo maltenuto e abbandonato dagli uomini e temo anche da Dio, dovrebbe darvi l’idea di quanto io fossi in effetti convinto che pescare sarebbe potuta essere la mia nuova passione. Perché sì, dimenticavo, sono dei gemelli, e da sempre mi infiammo per nuove passioni, poco durevoli. Quando ero piccolo, poi, la mia nuova passione del momento diventava immediatamente centrale per la mia vita, occupando ogni anfratto e eliminando la passione precedente, al punto che in casa mi dicevano che mi “fissavo sulle cose”, diventando, direbbero oggi, ossessivo, ai tempi dicevano che “mi fissavo” e tanto bastava. Tornando al molo della Lanterna Rossa, sole accecante riflesso dal mare e da tutto quel bianco intorno, un secchiello pieno di vermoni, ovviamente vivi, io che pesco senza neanche un cappello in testa, essendo sempre stato riccio, quando ero giovane anche più di oggi, portare i capelli lunghi per una vita, dicono, li sfinisce, a un certo punto la canna da pesca ha cominciato a inclinarsi, attirata a sé da una forza a me sconosciuta in mare: il pesce che aveva abboccato. In realtà una volta a pescare con mio cognato c’ero andato, all’alba, lì davanti alle grotte sotto la piscina comunale, e lui mi aveva spiegato tutti i passaggi. Quindi sapevo cosa dovevo fare. Lasciar andare un po’ il mulinello, poi bloccarlo e tirare in maniera secca, così da far saltare il pesce fuori dall’acqua, recuperarlo, colpirlo alla testa e poi metterlo dentro un secchiello più grande. Ecco, è esattamente a quel punto che mi sono trovato davanti un pesce assai brutto, scivoloso, esteticamente un obbrobrio. Essendo nato in un posto di mare, seppur senza avere nessuna connessione col mondo dei pescatori, ai tempi frequentato solo da gente che proveniva dal sud delle Marche, e in quanto tali ghettizzati dal resto dei miei concittadini, il loro rione, gli Archi, così chiamato perché appunto con una lunga fila di palazzi con degli archi alla loro base, un po’ come quelli di Bologna, addirittura considerati pericolosi da frequentare per noi del centro, quasi quanto il temutissimo Collemarino, una sorta di Bronx, parlo di immaginario distorto di chi viveva in centro, posto a nord della città, oggi terreno d’azione dei nord africani, gli archi pieni di macellerie halal e di quegli empori che vendono cose speziate che spesso mandano ai matti i miei ex concittadini, essendo comunque nato in un posto di mare, mi è sin da piccolo stato chiaro come il mondo dei mare ci fornisse tutta una serie di metafore e esempi facili all’uso quotidiano. Una persona particolarmente brutta, con gli occhi tiroidei, ai tempi si diceva “a boccia”, per noi era “brutto come una busbana”, in alternativa alla busbana si poteva anche dire “sei brutto come un rostro”, intendendo con questo “sei brutto come i rostri dei velieri, che erano mostruosi proprio per tenere lontane le sirene, a loro volta mostruose, vedi sempre il mare, e poi noi anconetani ci autodefinivamo “come le crocette”, che poi sono un frutto di mare contenuto dentro una conchiglia simile a un guglia del duomo di Milano, da sbeccare in una sua estremità così da consentire di poter tirare fuori il mollusco con uno stecchino dal foro che si trova all’estremità opposta, come si fa con le latte di olio, cui si praticano due fori così da consentire un circolo d’aria che permetta al liquido di lasciare il contenitore, e noi anconetani siamo “come le crocette” perché siamo duri fuori, ma teneri dentro, pensa che pretenziosità romantica, e potrei andare avanti così per ore. Ecco, quel pesce particolarmente brutto e scivoloso, lo so che tutti i pesci, stando in acqua, sono scivolosi, ma quello era proprio viscido, si chiama guatto. In realtà, ho scoperto proprio oggi, cercando su Google, si chiama Ghiozzo, guatto è il suo nome in dialetto, ma per noi era il guatto. “Andare a guatti”, dalle mie parti, significa perdere tempo dietro una attività poco fruttuosa, lo sapevo sin da piccolo, ma fino a quel giorno non avevo capito esattamente perché. Del resto non avevo mai visto una busbana, ma avrei saputo usare la sua collocazione gergale con precisione. Comunque, ci sono io che mi ritrovo un guatto tra le mani, e subito capisco che di un guatto si tratta, brutto e marroncino. Poi ne pesco un altro, e vado avanti pescandone una ventina. Sono sfinito dal caldo, sudato come un kebab, direbbe Zerocalcare, credo con un principio di insolazione, ma anche con un bottino di una ventina di pesci nel mio secchiello, quello coi vermoni ancora mezzo pieno, perché mi ero fatto evidentemente prendere la mano. Ovviamente torno a casa solo coi pesci, lasciando i vermoni a sciogliersi come meduse al sole, e quando varco fiero la porta di casa mi sento dire qualcosa che suona come: “E dove vorresti andare con quei guatti? Sono immangiabili”. Sì, perché nella mia idea romantica, la pesca non era tanto finalizzata al mettermi alla prova con la natura, come un novello Jack Kerouac degli Angeli della desolazione, lì in solitaria a aspettare di vedere un incendio all’orizzonte, o come un Henry David Thoreau a vivere per boschi, quanto piuttosto a procacciarmi il pane per il pranzo, il vecchio e il mare che però tanto vecchio non era, ché in fondo tra il marlin di quel vecchio pescatore cubano e la balena bianca che ha ossessionato il capitano della Pequod non è che ci fosse poi questa differenza, sempre di vita si trattava, anche se il fatto del mangiare in Hemingway era un dettaglio mica così marginale. Tornando a noi, è stato in quel momento che ho scoperto che la bruttezza incredibile del guatto, pesce tipico del mare Adriatico e specie di quella porzione di Adriatico che si trova davanti a Ancona, anzi, intorno a Ancona, è corrispondente a tutta una serie infinita di spine che si trovano al suo interno, fatto che lo rende al limite saporito per fare il brodetto, è noto che il brodetto di Ancona è uno dei più famosi e saporiti dell’Adriatico, appunto, avendo io una suocera di Vasto lei dirà che quello della sua città è molto più buono, ma è una faccenda di campanili, ma il guatto è assolutamente immangiabile, roba da finirci all’ospedale con qualche spina infilata in gola.
In quel preciso momento, quindi, la mia idea romantica di un me stesso che pesca, come un Drupi qualsiasi, Drupi che avrei conosciuto tanti e tanti anni dopo, è morta per sempre, lasciando che l’idea del pescare rimanesse appunto una idea. A questa faccenda dei guatti avrei dedicato una piccola parte di un mio racconto, destinato a dare il titolo a una mia raccolta di scritti narrativi medio corti, dove i riferimenti nel titolo erano a due classici della letteratura americana del Novecento, “Lo zen e l’arte della manutenzione della moto”, di Robert Pirsig, e “La pesca alla trota in America”, nel mio caso “Lo zen e l’arte della manutenzione della Vespa 125 Primavera, ovvero la pesca del guatto in Ancona”, l’in in questione un vezzo di noi anconetani, che diciamo in Ancona laddove in italiano si dovrebbe forse dire ad Ancona, Dio come odio le d eufoniche. In realtà un racconto nel quale si parla di un supereroe, niente a che vedere con la spiritualità filosofica del passaggio di informazioni vitali tra padre e figlio di Pirsig né con la resa dei conti col fatto di essere esseri caduci, quindi una presa di coscienza con la nostra mortalità, il senso della perdita e della vita di Brautigan, autore incomprensibilmente sempre trattato come lo scemo del villaggio, in realtà non solo molto bravo nel costruire storie senza trama assolutamente suggestive, ma dotato di uno stile assolutamente affascinante, niente di tutto questo, quanto piuttosto la scusa per mettere su carta due piccoli vessili della mia giovinezza, la Vespa 125 Primavera è stato il mio primo mezzo di locomozione, il guatto la prima volta che ho capito che nella vita mi sarei procacciato da mangiare al supermercato, ai tempi direttamente nel frigo di casa dei miei. Il fatto che io abbia esordito come narratore per un editore che omaggiava nel nome Melville, la PeQuod, e che abbia deciso di omaggiare direttamente Brautigan non tanto nel titolo, quello lo avevo fatto col racconto di cui sopra, quanto simulandone in parte lo stile, parlo del suo noir Sognando Babilonia, proprio nella terza parte della mia trilogia dedicata ai miei anni di formazione anconentana, titolo Una notte lunga abbastanza, titolo che invece omaggiava Zucchero e la sua Miserere, dove cantava di “una notte buia abbastanza”, lì dentro altri omaggi, come il personaggio di Zeno Arcade, ovviamente tributo alla mia band del cuore, gli Hüsker Dü e al loro masterpiece Zen Arcade, beh, tutto questo è solo parte del mio essere un inguaribile postmoderno nato nell’epoca sbagliata.