Dopo aver letto la notizia di RM, leader dei BTS e della sua mostra a San Francisco ho subito cercato su internet, per avere più informazioni, ma stranamente non usciva niente, solo foto sue.
Insolito quando si parla di arte, che siano mostre, o film, in genere, qualche spoiler esce, perché più un contenuto è atteso più la gente impazzisce per avere informazioni.
Nel 2026, il San Francisco Museum of Modern Art (SFMOMA) ospiterà una mostra dedicata alla collezione privata di RM, come dicevamo leader della celebre boy band sudcoreana BTS.
L’evento, che dovrebbe riunire circa 200 opere in un dialogo tra la collezione personale dell’artista e quella del museo, si propone, almeno nelle intenzioni, come un ponte culturale tra Oriente e Occidente, una riflessione sui confini, sull’identità e sull’arte coreana moderna e contemporanea. Eppure, dietro le buone intenzioni e il linguaggio curatorio dal tono internazionale, si staglia un problema ormai frequente nell’arte contemporanea: quando la celebrità divora il contenuto.
Kim Namjoon , questo il vero nome di RM, è noto per la sua passione per l’arte. I suoi frequenti post sui social che ritraggono visite a musei, letture di cataloghi e apprezzamenti per artisti coreani, spesso poco conosciuti a livello globale, sono stati letti da molti come un segnale positivo: una popstar che usa la propria influenza per educare il pubblico a qualcosa di diverso, più duraturo. Ma quando si passa dal post Instagram alla curatela museale, il discorso cambia.
Ci si chiede: cosa si sta davvero mettendo in mostra? La collezione d’arte o il collezionista? RM è il tramite o il centro? La risposta sembra arrivare da sola, osservando la copertura mediatica finora disponibile: titoli, fotografie, articoli… tutto ruota intorno a lui.
Delle opere che dovrebbero essere protagoniste, nemmeno l’ombra. Il risultato è un evento d’arte che, paradossalmente, marginalizza l’arte stessa.
Probabilmente non da lui voluto in questo modo, perché in queste situazioni, la colpa non è dell’Idol che viene divorato dalla macchina che è tritacarne di immagine, ma dal sistema che li spinge a essere contenitori vuoti.
L’operazione ha il sapore del gesto simbolico, ma il simbolo ha preso il sopravvento sul messaggio. Si parla di “gesto potente di unione tra Occidente e Oriente”, ma quello che resta, finora, è l’immagine di un Idol in posa. È il rischio di usare una figura mediatica per veicolare valori più alti: spesso il messaggero diventa il messaggio.
Questo non è un problema nuovo. Già negli anni Novanta, critici come Guy Debord o Jean Baudrillard avevano messo in guardia contro la spettacolarizzazione e la simulazione nella cultura mediatica: tutto diventa immagine, anche ciò che nasce come opposizione all’immagine dominante. L’arte contemporanea non è immune, anzi , oggi più che mai si alimenta di icone, e quando queste sono già perfettamente riconoscibili, come nel caso di una star globale, la soglia critica si abbassa ulteriormente.
Non si vuole mettere in discussione la legittimità del gusto o dell’impegno culturale di RM. Né negare l’importanza della visibilità che una figura come la sua può offrire all’arte coreana e agli artisti emergenti. Ma è lecito domandarsi: chi trae davvero vantaggio da questo tipo di operazioni? L’arte o il brand? Il museo o il personaggio?
Probabilmente il brand, né il personaggio, né il museo.
Il pericolo è che si inneschi un meccanismo autoreferenziale: si va a vedere la mostra non per scoprire un artista, ma per sentirsi vicini a una star. L’opera diventa un pretesto, l’esperienza estetica un accessorio.
Sarebbe ingiusto condannare l’evento prima di vederlo realizzato. Potrebbe emergere un percorso curato con intelligenza, dove le opere raccontano storie complesse, e il coinvolgimento di RM si dimostra autentico e utile. Ma è compito della critica , e del pubblico, mantenere vigile l’attenzione: applaudire la promozione culturale quando è ben fatta, ma anche smascherare le derive spettacolarizzanti.
L’arte ha bisogno di essere vissuta, interpretata, discussa.
Non basta uno scatto ben illuminato a farla parlare. E se vogliamo davvero costruire ponti tra culture, dobbiamo prima assicurarci che su quei ponti possa camminare qualcosa di più solido dell’ennesimo riflesso di un’icona pop.