Dopo il periodo delle vacanze, quello nel quale si suppone uno tenda a staccare un po’ dal tran tran quotidiano, e soprattutto dalla routine lavorativa, di qualsiasi lavoro si tratti, settembre presenta in genere il conto sotto forma di ritorno al presente, leggi alla parola: realtà. Nel mio caso, è noto almeno tra chi mi legge, la musica.
La vita è troppo breve per poter sprecare un’ora di tempo ascoltando musica così irrilevante. Parola più, parola meno, è quello che penso ogni volta che mi viene proposto l’ascolto di un qualche artista, quasi sempre mainstream, nei confronti del quale non nutro alcuna stima. Dico mainstream non per preconcetti o pregiudizi, ma perché in genere solo chi è nell’ambito mainstream ha anche un ufficio stampa che si dedica anima e corpo alla propria promozione, spesso sparando nel gruppo e quindi arrivando a proporre a me queste canzoni. Ascolto appositamente la radio in auto al fine di venire a conoscenza di quelle tante canzoni che non mi interessa ascoltare, le trovi tutte nelle playlist dei vari network, ma mentre sono in auto sto evidentemente facendo altro, mi sto spostando da un posto all’altro, lì può starci che dedichi una parte minima della mia attenzione anche a quegli ascolti inutili. Per il resto no, la vita è troppo breve, appunto. Questa frase, per altro, l’ho anche dichiarata più volte pubblicamente, anche quando in un network radiofonico, il principale, ci lavoravo, e l’ho anche scritta in diversi pezzi, come a rimarcare una legittima presa di distanze da certi ascolti. Qualcuno, sommessamente, ha provato a farmi notare che non avere stima di chi non ascolti è sì frutto di un pregiudizio, e lì il discorso della radio in auto ha sortito il proprio benefico effetto, non bastasse che nella vita solo un folle vorrebbe davvero provare tutte le esperienze, e che quelle conoscenze che abbiamo acquisito non per esperienza diretta, ma perché le informazioni ci sono state passati da altri, stanno lì per aiutarci a vivere meglio, non serve che io rompa un vetro con una mano per sapere che mi taglierei, o che io appoggi la mano sulla fiamma del piano cottura per sapere che mi brucerei. Siamo esseri dotati di intelletto, vivaddio. Mi è capitato, per praticità, di scrivere recensioni negative di album che sapevo non mi sarebbero piaciuti, e una volta ascoltatili, velocemente, prima di finalizzarle e pubblicarle, mi sono trovato a non dover cambiare neanche una virgola, perché dopo un po’ sai già a che inferno vai incontro giorno dopo giorno.
Tutto questo non tanto per sottolineare come la musica orribile che ci capita di ascoltare sempre più spesso oltre che orribile sia pure tremendamente prevedibile, né per flexare una capacità di teorizzazione degli ascolti affinata nel tempo, figuriamoci, quanto piuttosto per parlare proprio della vita e del tempo.
Ci pensavo poco fa, prima di cominciare a scrivere di getto queste parole, quello che avete letto fin qui l’ho scritto, giuro, in neanche cinque minuti, cinque minuti in mezzo ai quali mi sono anche fermato, alzato e sono andato a aprire il portone col citofono a mia figlia Lucia, di ritorno dall’Accademia di Brera, piuttosto alterata per aver preso la pioggia, sento che sta raccontando a mia moglie di là. Ci pensavo quando sono salito da piano terra, dove ero sceso per portare giù la spazzatura. Un’operazione che avrei dovuto fare ieri sera, visto che stamattina passavano i camion dell’Amsa, ma che ieri sera mi sono dimenticato di fare, e quindi ho rimandato fino a ora di pranzo, onde evitare gli sguardi giudicanti dei miei condomini. A quest’ora l’unico sguardo che ho incrociato, affatto giudicante, anzi, giudicato, è quello del signore di origini sarde che abita al secondo piano, che mi sono trovato di fronte non appena aperto l’ascensore padronale, di ascensori nel palazzo ne abbiamo due. Era con un postino, che gli stava facendo firmare la ricevuta di una multa, e nell’incrociare il mio sguardo si è evidentemente sentito in imbarazzo, al punto da aver abbassato lo sguardo come per scusarsi, ignaro che non è contro di me che è contravvenuto, e che comunque non starei mai e poi mai dalla parte delle guardie. Tornando su, dopo aver depositato negli appositi cestoni vetro e plastica, ovviamente tolti dalle rispettive buste, ho pensato che per fare il tragitto da piano terra fino a casa mia, al settimo piano, e viceversa, impiego esattamente trentotto secondi. Lo so con precisione, perché ho cronometrato il tutto, non state lì a chiedermi perché. Trentotto secondi netti. Ora, consideriamo che esco praticamente tutti i giorni, a volte anche più volte al giorno, e che comunque il fatto che io esca a volte anche più volte al giorno sopperisce nella media ai giorni in cui non esco, perché è di medie che vado a parlare. Diciamo che ogni giorno io esca e quindi rientri almeno una volta. Fa settantasei secondi, cioè un minuto e un quarto. Sommiamo i minuti che passo in ascensore ogni mese e viene fuori almeno un’ora. Moltiplichiamo il tutto per i mesi dell’anno, fanno dodici ore circa, lo so che ci sono le vacanze, c’è stato il lock down, ma io spesso esco più volte al giorno, molte di più di quanto io non resti in casa tutto il giorno. Quindi, dodici ore al mese le passo in ascensore. Un giorno ogni due anni. Abito qui da sette anni, prima abitavo al secondo piano di un palazzo senza ascensore, ho passato a oggi tre giorni e mezzo in ascensore. So anche che star qui a dirvi che ho fatto questo calcolo non vi avrà dato di me una buona impressione, a metà strada tra uno Young Sheldon e uno di quei serial killer che hanno il giardino pieno di cadaveri sotterrati sotto piante e fiori, ma l’aver scoperto questa cosa non solo ha dato tutto un altro senso alla frase con cui questo pezzo inizia, se passo dodici ore all’anno in ascensore potrei forse passare anche un’oretta a ascoltare il prossimo album di Tony Effe, o di Laura Pausini o di uno di questi artisti qui. O forse no, perché già devo passare dodici ore all’anno in ascensore, figuriamoci se posso permettermi di perdere ulteriore tempo ascoltando dischi che già so non superano gli standard minimi di decenza. E a proposito di decenza, fossimo stati qualche tempo fa, quando ancora mi sembra giusto fare una sorta di guerra santa contro l’inverecondia imperante e l’apocalisse verso la quale l’industria discografica ci sta spingendo, non avrei esitato un secondo a allestire questo teatrino tirando in ballo non il tempo passato in ascensore, ma quello passato seduti sulla tazza del bagno a cagare, calcolo che avrebbe portato a numeri decisamente più importanti, e che mi avrebbero offerto una metafora certo non raffinatissima, in senso concreto ma anche in senso lato, citare il tempo che si passa sulla tazza del bagno per parlare di musica che ci fa cagare è un po’ scontato, suvvia, oggi però penso che le guerre che andavano combattute le ho già combattute tutte, e che non ne ho vinta neanche una, portando a casa delle vittorie in alcune battaglie, sì, cicatrici e medaglie stanno lì in bella vista proprio come cimeli di guerra, ma convinto che siano altri quelli a doversi fare sotto al posto mio, ché uno non può passare tutta la vita in trincea. Riguardo alle ore passate in ascensore o sulla tazza del cesso, basta con questa ipocrisia di chiamarlo bagno, ci sono studi che ci dicono quante ore passiamo in coda nel traffico, fatto che se si vive da pendolari o in una grande città immagino abbia un peso specifico piuttosto alto, o quanto tempo passiamo in attesa per poter parlare con qualche ufficio pubblico o operatore telefonico, credo che essere partito da un ragionamento singolare come il tempo che passo in ascensore sia quantomeno originale, oltre che portatore di metafore utili come quella legata a una mia ascensione, da non confondere con ascesi, come di una mia discesa agli inferi. La faccenda dell’ascensione e ascesi, per altro, è stata alla base del mio primo reportage scritto per Gente Viaggi, nel 1999. Stavo per pubblicare il mio secondo romanzo, per Mondadori, con alle spalle una raccolta di racconti e appunto il mio romanzo d’esordio, che poi verrà tradotto in spagnolo. Mi contatta il caporedattore della rivista di viaggi ai tempi della Rusconi, poi passerà in Hachette prima di chiudere i battenti, e mi propone di scrivere un reportage sui Monti Sibillini. Penso abbia conosciuto il mio nome per l’imminente uscita per Mondadori, primo titolo italiano della neonata collana Strade Blu, ma lui mi dice di aver letto la mia raccolta di racconti e essersi incuriosito, essendo i Sibillini nelle Marche, dice, gli piaceva l’idea di uno scrittore locale che raccontasse quei luoghi. Scrivo questo pezzo che parla di ascensione, quella che mi dovrebbe portare fino al Lago di Pilato, e quindi ascesi, ma anche di fallimento, non arriverò mai dove devo arrivare. Il pezzo piacerà parecchio, e la contemporanea nomina a direttore di Silvestro Serra, mia vecchia conoscenza di Panorama, per la quale avevo cominciato a scrivere di Musica, prima ancora di passare a farlo in maniera più schematica per Tutto Musica, ero pur sempre un collaboratore della casa editrice di Segrate, addetto stampa dell’Amministratore Delegato oltre che consulente editoriale, normale mi dessero spazio, credo. Tornando all’ascesi e all’ascesa e anche al fallimento, da quel momento, complice il nuovo direttore, ho cominciato a scrivere quasi tutti i mesi reportage per Gente Viaggi, girando mezzo mondo, e affinando uno stile che solo in seguito scoprirò essere quello degli psicogeografi, gente che, come il libro Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre, poteva raccontare anche un viaggio all’interno di un angusto luogo chiuso, e del resto io sono oltre millecinquecento parole che vi sto parlando di viaggi in ascensore.
Per altro ci sono musiche che vengono chiamate proprio da ascensore, prodotte appositamente per fare da sottofondo per quegli ascensori che suppongo si trovino all’interno di grattacieli piuttosto alti. Cover sambeggianti o swinganti di canzoni piuttosto note, cantati spesso con voci da crooner, assolutamente non invadenti. Poi ci sono ascensori come quello dell’albergo dove in genere ci troviamo quando con mia moglie andiamo a Aversa, durante i giorni del Premio Bianca D’Aponte, dove le canzoni che si ascoltano, a rotazione, sono sempre le medesime, Vivere a colori di Alessandra Amoroso, Amami di Emma e Soldi di Mahmood. Canzoni, piccole parti del ritornello, più che altro, al punto che per fare due piani, lì roba di molti meno dei trentotto secondi che impiego io per arrivare al settimo caso del mio palazzo, riesci purtroppo a sentirle tutte quante. Pensatevi una mattina presto, mentre ancora dovete fare colazione e dopo che siete andati a dormire non prima delle tre di notte, durante i giorni del Premio Bianca D’Aponte si cena tutti assieme dopo gli spettacoli a teatro, facendo sempre tardissimo, ecco, immaginatevi di salire ancora sonnacchianti sull’ascensore e sentire la voce gracchiante della Amoroso che vi accoglie, presto sostituita da quella di Emma, normale che poi uno si faccia un paio di croissant alla crema, mandando a puttane mesi di dieta e di camminate veloci. Nell’ascensore del mio palazzo, negli ascensori del mio palazzo, due, non c’è musica, e stando all’albergo di Aversa forse è un bene, anche se così facendo, torniamo al punto di partenza, io butto via dodici ore di vita, chissà quanti album, ogni anno. Dico chissà quanti album non perché ci sia una variabile insondabile riguardo la durata di un album, facendo una media siamo sempre intorno all’ora, quanto piuttosto perché, è un fatto, certi album, quelli di cui sopra che non posso ascoltare perché la vita dura troppo poco e non ho abbastanza tempo da sprecare, uno le canzoni può anche ascoltarle andando veloce, e beccando i punti salienti. Un tempo questa operazione sarebbe stata più complicata, perché c’erano le intro e le intro erano sì variabili, chi partiva dopo venti, trenta secondi di musica, chi anche dopo un paio di minuti, adesso, nell’era di Spotify e di Tik Tok, quando devi tenere l’attenzione volatile di un pubblico distratto, pronto a passare al prossimo brano dopo pochi secondi, entro i venti devi essere già dalle parti del ritornello, molti partono già da lì, quindi quel che c’è da capire è chiaro subito. Visto che sono un critico musicale, per parte mia, tendo sempre a cercare anche la parte dello special, che sarebbe quella piccola variazione su strofe e ritornelli che in genere arriva prima dell’ultima tornata di ritornelli, tanto per capire se almeno lì hanno tirato fuori qualcosa di originale, ma la delusione viene sempre premiata, e mai nulla di buono succede anche lì. Procedendo così, che è anche il modo in cui le commissioni del Festival di Sanremo procede nell’ascolto dei brani di Sanremo Giovani, altrimenti ditemi voi come fanno a ascoltare centinaia di brani in pochi giorni, si riesce davvero a fare miracoli, quindi in dodici ore, volendo, di album se ne possono ascoltare anche una sessantina, credo, se mai qualcuno mettesse la filodiffusione anche nel mio palazzo potrei rispondervi con più precisione. Perché quei trentotto secondi sono proprio sprecati, lì dentro l’angusto spazio dell’ascensore, infatti, neanche riceve bene il telefono, quindi niente telefonate, e se uno entra che sta telefonando deve avvisare che per un po’, trentotto secondi, si sentirà poco o niente, come in una galleria, e niente internet, perché in quel caso il telefono prova a collegarsi al router di casa mia, il mio telefono, quello degli altri condomini farà lo stesso col loro wi-fi, non riuscendoci ma tenendo al tempo stesso in stallo la rete mobile, creando una sorta di stand-by generale, davvero tempo sprecato. Perché in trentotto secondi, pensateci bene, è un tempo nel quale non si possono neppure fare chissà quali pensate, farsi venire una idea per un progetto, un libro, un articolo. Niente. Troppo poco. Infatti non ci sono format che durano così poco, pensateci. C’è stato Novantesimo Minuto, storico programma di calcio che raccontava le partite del campionato quando le partite del campionato si giocavano tutte la domenica pomeriggio, Paolo Valenti a condurre, e tutta una serie di volti amatissimi a commentare le partite delle varie squadre di Serie A, io da genoano voglio ricordare Bubba, cui un manipolo di pazzi dedicherà anche il nome di un progetto portato a Sanremo, I Figli di Bubba, ensemble che nel 1988 ha portato al Festival di Sanremo il brano Nella valle dei Timables, ensemble di cui facevano parte Mauro Pagani, Franz Di Cioccio della PFM, il giornalista Alberto Tonti, che anni dopo avrebbe diretto una collana di Skirà che avrebbe pubblicato un mio libro dedicato alla desessualizzazione del pop femminile italiano dal titolo Venere senza pellicce e con una iconicissima Romina Falconi a tette di fuori in copertina a interpretare una Venere di Milo versione Barbie, Pagani, Enzo Braschi e Sergio Savastano, ai tempi in auge a Drive In, e altri ameni personaggi (leggo su Wikipedia che non era a Giorgio Bubba che si ispiravano come nome, ma ormai li ho citati e credo sia carino lasciarlo), Tonino Carino, con tutte i suoi problemi di dizione a narrare le vicende dell’Ascoli di Rozzi dalla Rai di Ancona, io lo vedevo spesso perché abitava vicino a dove passavo i pomeriggi coi miei amici a giocare a calcio tedesco usando un sottoscala come porta, un incrocio dei pali a meno di mezzo metro d’altezza, l’altro a oltre tre metri, oggi ovviamente lì c’è un parcheggio pubblico, come standard prevede. C’è TG1 Tre minuti, leggo sempre in rete, un rotocalco in coda al telegiornale di quella che un tempo si chiamava la rete ammiraglia del servizio pubblico. Ora c’è anche Cinque Minuti, mini talk condotto da Bruno Vespa. Ma niente che stia nella soglia dei pochi secondi, trentotto nello specifico. Ci sono, questo sì, alcune canzoni che durano meno di un minuto, se fate un giro in rete trovate quegli esaustivi quanto plasticosi articoli che ve le elencano con lo stesso trasporto con cui io leggo la lista della spesa mentre mi aggiro col carrello grande per il supermercato in cui vado una volta alla settimana per lo spesone importante, ma non rientrano tra queste canzoni degne di menzione. Ci sono invece le canzoni veloci dei Bad Religion, band hardcore a lungo capitanata da Brett Gutierrez, anche alla guida della Epithap Records, insieme alla Alternative Tentacles di Jello Biafra vere eccellenze del punk americano, Brett Gurewitz che dei Bad Religion era il chitarrista, e da Greg Graffin, che era e tuttora è il cantante della band. Nel loro album No Control, probabilmente il loro lavoro più conosciuto e amato, ci sono brani come Change of Ideas che durano cinquantasei secondi, e praticamente nessuno supera i due minuti, e lo stesso in tutta la loro produzione, da citare indubbiamente anche il precedente Suffer, del 1988, e i successivi Against the Grain, del 1990, e Generator, del 1992. Musica hardcore veloce e melodica al tempo stesso, quel che c’è da dire viene sempre detto nel giro di pochi giri di chitarra, una batteria ossessiva a tenere il ritmo. Se arrivato a piano terra mi ricordassi di aver dimenticato qualcosa a casa, e dovessi tornare su al settimo piano, una canzone dei Bad Religion potrei anche spararmela, per dire.
Ovviamente, facendo qualche ricerca a riguardo, a volte i viaggi in ascensore qualche idea interessante te la concedono, lo ammetto, ho scoperto che però la canzone più breve del mondo, stando a quanto certificato dal Guinnes dei primati, è You Suffer dei Napalm Death. Un secondo e trentuno centesimi di secondo, non so neanche come si faccia a fermare un tempo così breve con un cronometro. Dodicesima traccia dell’album d’esordio della band grindcore di Mick Harris, Justin Broadrick e Nicholas Bullen, Scum, la canzone è diventata parte integrante di tutti i loro show dal vivo, anche se immagino nessuno se ne sia accorto. Mick Harris, che dei Napalm Death era il batterista, è tuttora dietro le pelli in un progetto jazzcore dal nome Painkiller, che lo vede affiancato da John Zorn, sassofonista, e Bill Laswell, bassista. Non ho mai visto i Painkiller dal vivo, e neanche i Napalm Death, a dirla tutta neanche i Bad Religion, ma ho avuto, diciamo così, il piacere di vedere al Dal Verme di Milano John Zorn e Laswell in duo, durante una vecchia edizione di JazzMi, il concerto più breve e doloroso, parlo di suono che faceva oggettivamente male, cui abbia mai assistito, la brevità evidentemente è una loro caratteristica. Mi capita spesso di dire, e chiudo questa mia lunga digressione cominciata sottolineando come l’ascensore mi stia rubando giorni di vita, giorni di vita nei quali potrei fare altro, tipo andare a sentire John Zorn dal vivo, per dire, mi capita spesso, dicevo, di dire di una persona che mi inquieti o mi faccia a suo modo paura che non ci farei un viaggio in ascensore, intendendo con questo che non ci passerei neanche poco tempo in uno spazio angusto e senza via di fuga, ecco, io non passerei un viaggio in ascensore con la musica dei nomi su citati, piuttosto preferisco sprecare mezza giornata l’anno come sto facendo da che abito qui, e la musica, anche quella dolorosa, me la ascolto dallo stereo di casa, pronto a premere il tasto stop se le soglia del mio dolore viene superata. I dischi di Tony Effe e di Laura Pausini, invece, non li ascolto proprio, la vita continua a essere troppo breve, e io ho anche passato del tempo a scrivere queste oltre tremila parole, non posso andare oltre.