
A volte sbaglio.
Di rado, ma sbaglio.
Stavo per cominciare questo pezzo dicendo “a volte capita di sbagliare”, generalizzando il concetto, e in qualche modo prendendone le distanze. O magari avrei anche potuto dire “a volte ci capita di sbagliare”, tirandovi dentro il discorso, tutti accomunati da questa faccenda del cadere in errore, e in questo caso giocando la carta della paraculaggine, perché delle scuse fatte anche a nome vostre, quelle che seguono, avrebbero quantomeno il vostro involontario placet.
Invece ho sbagliato io, e lo ammetto. Senza girarci intorno. Senza tentennare, come faceva Fonzie quando doveva dire “scusa”.
Mi è capitato in passato di farlo, quando avevo stroncato in maniera tranchant il passaggio sanremese, parliamo di Sanremo Giovani, e di dieci anni e passa fa, di Serena Brancale. L’avevo bollata come la classica jazzaggiante, ignorando che era un’artista in realtà profonda. Le chiesi quindi scusa in un mio pezzo, assai più evidente della stroncatura tranchant. Ho sempre trovato ridicolo il gesto di rettificare una cosa detta in prima pagina con un trafiletto in coda al giornale, non sto parlando di me, in questo momento, che non scrivo su giornali di carta da anni.
Solo che durante l’ultima edizione di X Factor ho spesso bacchettato i Patagarri, considerandoli assolutamente fuoriluogo in quel contesto, non capendo il loro flirtare con Achille Lauro, personaggio fluido, non parlo di sessualità, ovviamente, ma di proposta artista, che è tutto e il contrario di tutto, mentre loro, i Patagarri, mi sembravano molto chiari nei loro intenti come nella loro proposta, non capendo il perché si fossero messo in mano a quel programma, nei reel quotidiani era trapelato che non tutti la vedessero alla stessa maniera a riguardo, che storicamente ha fatto solo danni, manipolando proposte artistiche interessanti e omologandole a quel che passa il convento, schiacciando le voci originali su un piattume che è già presente altrove, facendo in sostanza di ogni erba un fascio.
Non mi aveva neanche colpito positivamente il loro singolo, Caravan, molto poppeggiante, alla Bob Sinclair, pur con suoni che in parte riportavano alla loro matrice, quanto di meno vero rispetto alla street credibility che invece i Patagarri avevano. Magari quel giudizio era frutto delle perplessità riguardo il loro essere lì, presentati da Coso a suon di “Baby”, ma di fatto pensavo avessero imboccato una via senza ritorno, al punto che non ho neanche pensato per un secondo di andarli a vedere dal vivo, all’Alcatraz, in una delle date sold out.
Li conoscevo di nome, i Patagarri, vivo a Milano, lavoro spesso con realtà della Brianza e uno degli operatori della zona, il mio amico Saul Beretta, me ne aveva parlato in tempi non sospetti e me ne aveva parlato bene, quindi il loro mi sembrava l’ennesimo caso di nome bruciato come legnetto d’incenso sull’altare del programma che più danni ha fatto negli ultimi venti anni al mondo della musica.
Sto tergiversando, ma neanche troppo, in fondo sono partito proprio ammettendo di aver sbagliato, seppur di rado. Il fatto è che ho ascoltato l’album che i Patagarri hanno tirato fuori. Un album registrato in presa diretta, ci dicono, sotto la regia di quel geniaccio di Taketo Gohara, che già dovrebbe essere una garanzia di suo. E l’album dei Patagarri, titolo L’ultima ruota del caravan, è una bella bombetta. Nel senso, l’album, registrato in presa diretta e arrivato dopo una serie di live piuttosto importanti, fare sold out all’Alcatraz non è poi faccenda così semplice, pronti poi per assaltare all’arma bianca, semper all’arma bianca, l’Italia con un lungo tour estivo, è esattamente quel che i Patagarri sono, non esattamente quel che X Factor ha messo in evidenza dei Patagarri. Una band in stile New Orleans, dove invece che riti voodoo e cajun si respira l’aria di Milano, la Milano periferica, dei mercati rionali, appunto, dei locali dove ancora si suona, pochi, e le storie raccontate sono quelle degli ultimi, di chi vive lontano dai riflettori, ma soprattutto sono storie comunitarie. L’essere infatti una band di sei elementi, io me ne ricordavo cinque, mi dicono, negli uffici di quella Warner che li avrebbe indubbiamente voluti vincitori a X Factor, li spinge a una visione plurale del mondo, un continuo confrontarsi e mettersi in discussione su tutti, come i tre moschettieri, che erano quattro, loro invece sei. Un noi che oggi è totalmente assente dalla narrazione che esce dalle canzoni, fatte tutte dell’io antisistema, votato a un riscatto malato fatto di soldi, droghe e fighe, quello dei trapper, o un io introflesso e chiuso nell’angusto spazio di una cameretta, che è poi dove le canzoni in genere oggi vengono scritte, prodotte e registrate. Differenza mica da poco il poter scegliere di andare due settimane in un casale a registrare in presa diretta, come una band, appunto, come una band che racconta storie viste e vissute, di chi si era abituato a pensarsi destinato a un presente e futuro di matrimoni e feste private, 50 euro a testa, in nero, invece che di assetto professionale, a precisa domanda “come è cambiata la vostra vita adesso?” la risposta è “ora paghiamo le tasse”, perfetto punto di incontro, almeno sulla carta, tra accademia (cioè Conservatorio) e mainstream. Dei sei, è chiaro, c’è chi parla molto, anche sopra gli altri, e chi non apre proprio bocca, le comunità, piccole o grandi che siano, si basano su strani equilibri insindacabile dall’esterno, ma la sintonia c’è e si sente, anche nella volontà di non abbandonare del tutto le proprie radici, e non parlo certo di musica, quelle di radici sono ben presenti nelle dieci tracce del loro album, quasi tutte sotto i tre minuti, senza quelle lunghe fughe musicali che abbiamo sentito far loro in tv, sia mai che li estromettano dalle playlist, deve aver pensato Taketo Gohara, uno che giustamente stava lì per fare il suo mestiere, le radici intese come lo scendere in strada e improvvisare, e via di strumenti e voce. Proprio a pochi passi da qui, mi dicono, hanno dato vita all’episodio che è scaturito nella loro prima shitstorm, due anni fa. Quando Laura Pausini aveva rifiutato di cantare Bella ciao loro l’avevano invece cantata, parte portante del loro repertorio, e un tizio, senza manco taggarli, li aveva ripresi e postati sui social, scatenando l’ira di chi vede in quella canzone qualcosa di sbagliato. Il fatto che esattamente di fianco all’ingresso della sala riunioni al nono piano della sede della Warner nella quale li sto incontrando ci sia una gigantografia della cantante di Solarolo è solo uno dei corti circuiti che questo incontro genererà. Perché loro, a proposito di shitstorm, ci sono incappati proprio di recente, quando dal palco del Concertone di Piazza San Giovanni a Roma, il Primo Maggio, hanno preso la sola posizione che si possa prendere nei confronti del genocidio ordito da Israele e hanno cantato Free Palestine sulle note del brano tradizionale Hava Nagila, tradizionale per il popolo ebraico. I soli, a dirla tutta, in quel contesto a dire qualcosa di sensato a riguardo, gli altri tutti muti come quaglie, perché oggi non è solo il noi che non va di moda, ma anche il prendere posizione. E di posizioni, in L’ultima ruota del caravan, ce ne sono parecchie, dall’alienazione data dal lavoro alla vita omologata, passando per la schiavitù del possesso. Un gran bel disco, va detto, a discapito dei pregiudizi che mi accompagnavano durante l’ascolto, perché i Patagarri non sono stati finti, del resto non erano loro a essere finti in tv, ma proprio il contesto che li circondava. Francesco, il cantante, che per la cronaca non è affatto quello che parla di più, rimpiange, dice, il non aver azzardato di più con l’elettronica, e nel farlo mi cita come esempio la collaborazione tra Vinicio Capossela e Young Signorino. Perché a lui quello sarebbe piaciuto, e chissà mai che in futuro non capiti, azzardare qualcosa di sporco, alla FSK meet Patagarri, anche se l’esempio fatto, geniale sulla carta, fu ai tempi giustamente bollato come una emerita cagata, succede a voler azzardare le cose. Fortunatamente stavolta di azzardi non ce ne sono stati, e dovendo pensare a azzardi futuri, i Patagarri tutti fanno un solo nome, a parte quello di Anna Castiglia, di cui evidentemente è innamorato perso Arturo Monaco, e il nome che fanno è quello di Caparezza. Un sogno, dicono, pensare a una futura collaborazione, magari la ripresa di uno dei brani in scaletta, con un featuring, o qualcosa di nuovo. Neanche il tempo di dirlo che, forse per mondare i miei sensi di colpa, tiro fuori lo smartphone e mandiamo un vocale a Capa, io e lui siamo amici da una vita, oltre che coautori del libro Saghe Mentali, di cui lui è più titolare di me, ovviamente. Un messaggio corale, anche qui, in cui io presento i ragazzi e loro salutano e chiedono un feat, sto qui a flexare la cosa perché, semmai capitasse, si deve sapere in giro che è un po’ merito anche mio. Il fatto che proprio mentre noi si chiacchierava Capa stesse postando di un suo inatteso ritorno dal vivo per il 2026, con tanto di calendario delle date, questo dopo averci fatto sapere che è d nuovo in studio per un album, anch’esso inatteso, rende vano il messaggio mandato, me lo risponderà di lì a qualche ora, ma crederci insieme, come una collettività, una comunità, è stato bello. In fondo, questo ho capito ascoltando L’ultima ruota del caravan e parlando poi per quasi un’ora con loro, Laura Pausini a vegliare all’ingresso, è tutta gente che da del noi alla musica, di questi tempi davvero troppa grazia.