Ho visto Nina (Hagen) volare

Sono un grande appassionato di serie tv. No, non è esattamente vero. Vedo un sacco di serie tv, non dico tutte ma quasi, e le vedo per lavoro. Non è vero neanche questo. Nel senso, quasi tutte le serie tv passano dal mio tablet e dalla mia tv, ma dire che le vedo è sbagliato, perché ci butto giusto l’occhio ogni tanto, in maniera molto più che distratta. E ce lo butto solo se nel concentrarmi per pensare qualcosa devo staccare lo sguardo dalla tastiera del mio computer, o da un libro che nel mentre sto leggendo. Perché le serie tv che scorrono nel mio tablet o dentro la mia televisione, più spesso il primo che la seconda, in realtà fungono da colonna sonora del mio scrivere e del mio leggere, come una sorta di distrazione dai rumori assai più distraenti, per me, che casa mia, dove viviamo in sei, a volte in sette, io, mia moglie, i nostri quattro figli, saltuariamente mia suocera, neanche troppo saltuariamente, mia moglie fa smart working per metà settimana lavorativa, due dei quattro figli vanno alle medie, due all’università, mia suocera, quando c’è, sta quasi sempre in casa, e soprattutto dall’esterno, i lavori di ristrutturazione che da quasi quattro mesi ci tormentano dal piano di sopra, quelli del palazzo in costruzione proprio di fronte al nostro, il traffico, le ambulanze, i cani del parchetto sotto casa, ci siamo capiti. Quei rumori mi distraggono, i dialoghi o quel che succede in una serie tv no. Uno potrebbe dire, ascolta la musica, ma la musica è parte del mio mestiere, e quella sì che sarebbe una distrazione vera, per cui opto per una serie tv, o un film, ma più spesso una serie tv. Talmente colonna sonora e non visione vera e propria, l’ho già detto più e più volte, che mi capita di sceglierne una, anche di svariate stagioni, salvo poi scoprire di averla già “vista”, senza averne nessuna memoria. Per questo, anche per questo, quando poi la sera capita che ne proponga una a mia moglie, visto che ci concediamo alla visione, stavolta visione vera, di qualcosa in tv solo sul tardi, mai prima delle ventidue e trenta, optiamo sempre per serie tv, una puntata e poi via, a letto, i programmi sono già tutti iniziati e i film durano troppo, quelli li destiniamo al sabato, quando siamo in casa, per questo, quando poi la sera capita che ne proponga quindi una a mia moglie posso permettermi il lusso di proporre qualcosa che ho già iniziato a vedere, e che ho non si sa bene come intuito potrebbe interessarle, tanto non so esattamente cosa è successo. Mi è capitato qualche mese fa con Succession, che credo di poter dire a ragione veduta sia la più bella serie che io abbia mai visto, o una delle più belle, altre non rientrerebbero sicuramente nei gusti di mia moglie, penso a Fringe, a Lost, per fare un paio di nomi, o recentemente a Adolescence, una serie incredibile, Succession. In genere, però, io e mia moglie seguiamo serie medical, la prima che ci ha stregato è stata E.R.- Medici in prima linea, che poi è un po’ la madre di tutte le serie tv, prima si parlava di telefilm, che erano oggettivamente un’altra cosa, poi è arrivata Grey’s Anatomy, tuttora tra le nostre preferite di sempre, ma anche New Amsterdam, The Resident, The Good Doctor. Ecco, a proposito di The Good Doctor, dello stesso autore è Dr House, che ho trovato, per le poche puntate che ho visto ai tempi, geniale, ma presto abbiamo smesso di seguirlo, considerate che un tempo per seguire le serie toccava videoregistrarle, non c’era Netflix o qualche altra piattaforma di streaming, perché Marina, mia moglie, è un po’ ipocondriaca, che è il modo in cui un marito può permettersi di parlare dell’ipocondria di sua moglie, e ogni volta che vedevamo un episodio poi si sentiva addosso una di quelle rarissime malattie di cui quegli episodi parlavano, col problemino di non conoscere poi un Doctor House in grado di scoprire di che si trattava. Tornando però ai medica, il primo amore è stato appunto E.R.-Medici in prima linea, di qui in avanti semplicemente ER. Una serie sconvolgente, e non a caso aveva dietro due geni come Michael Crichton e Steven Spielberg, che portava avanti una complessissima trama corale per tutte le stagioni, con faccende che, magari, si risolvevano a distanza di anni, mettendo poi dentro ogni singolo episodio tre storie che procedevano in parallelo, una principale e due appena minori, il tutto con un ritmo frenetico, velocissimo, inquadrature spericolate e molto cinematografiche, roba che uno vede i lunghi piani sequenza di Adolescence, serie bellissima e importante per il tema trattato, intendiamoci, e ti viene da sorridere, perché ER l’ha sicuramente già fatto almeno venticinque anni fa. Il fatto poi che ci fossero così tanti protagonisti, decine di protagonisti, perfettamente caratterizzati e scritti, interpretati da Dio da attori e attrici fantastici, in grado di farti empatizzare alle loro storie già al primo passaggio, e anche capaci di cambiare strada facendo, beh, ha reso il tutto incredibile. Per intendersi, nel mentre da noi c’era, boh, Commesse, altra serie corale con un cast che ci sembrava stellare come Nancy Brilli, Sabrina Ferilli e Veronica Pivetti. Ecco, non è che io abbia citato Commesse a caso, ci mancherebbe, anche questo è un po’ un mio cavallo di battaglia, citato spesso quando si parla di comunicazione e messaggi che la comunicazione veicola. Commesse era una serie che andava in onda su Rai1, ER su Rai2, quindi la prima si rivolgeva chiaramente a un pubblico sia più anziano ma anche più mainstream, in Rai sono un filo didascalici in questo. La serie Commesse raccontava le vicende di un gruppo di commesse, e fin qui nulla di strano. Tra loro anche un uomo, interpretato da Franco Castellano. Il suo personaggio era un commesso omosessuale, quindi, stando agli stereotipi vigenti, molto simpatico, gentile, e frivolo, anche molto in grado di creare squadra con delle donne, pur con qualche caduta in fatto di coerenza. Il famoso “però è simpatico” che in genere si aggiunge in coda a un discorso che riguarda qualcuno che rientri in una qualche sfumatura che esuli quella che viene indicata come norma, una cosa che solo a pensarci ci dovrebbe far venire il sangue al cervello. Infatti nel mentre su ER c’era il personaggio di Kerry Weaver, interpretato da Laura Innes, un capo reparto, si parla del pronto soccorso di un ospedale di Chicago, stronzissima, portatrice di handicap e lesbica. Una roba che nessuno avrebbe osato pensare a fine Novecento, in Italia, per paura di essere tacciato, pensa te, di omofobia o abilismo (no, di abilismo no perché nessuno aveva ancora mai sentito parlare di abilismo, credo). Una lesbica, figuriamoci una lesbica e zoppa, con tanto di stampelle, non poteva anche essere stronza, delle due l’una. Invece Kerry Weaver lo era, eccome. Cattivissima, almeno fino a un certo punto, quando dopo averci abituati a quel carattere lì, gli autori hanno deciso di cambiare strada, trasformandola in altro, non certo per il politicamente corretto, ma per stupirci, come le serie tv tendono a fare. Da noi, credo, non ci siamo ancora arrivati, mica è un caso che spesso siamo a quei livelli basici di caratterizzazione per cui i protagonisti di una serie italiana vestono sempre alla stessa maniera, come i Simpson.

Torno comunque a ER, perché non è certo una disamina sulle serie tv che voglio fare o che sto facendo, i titoli stanno lì appunto a indicare la via, perché una dei personaggi più belli, talmente bello da rendere affascinante anche l’attrice che lo interpretava, che pur non è certo famosa per quello, è Abby Lockhart, infermiera in ginecologia che ha dovuto lasciare gli studi di medicina a un passo dalla laurea a causa dell’ex marito, che per ripicca contro di lei non ha pagato la retta universitaria. Un personaggio complesso, come tutti quelli principali di questa serie, ripeto, una specie di matrice di quelle a seguire, dove a fianco a vicende professionali che la vedono poi tornare a studiare e diventare dottoressa, si sviluppano storie d’amore, come quella con Luka Kovac e John Carter, e anche familiari, come la madre e il fratello che soffrono di bipolarismo, il tutto poi intrecciato col suo essere stato e tornare a essere alcolista. Un personaggio incredibile, ripeto, al pari di quello di Carter, appunto, un ricchissimo figlio dell’alta borghesia americana che rifugge dalla sua famiglia per dedicarsi alla medicina, con tanto di caduta nella tossicodipendenza dopo essere stato ferito da un aggressore, vado a memoria, o di Ciccio Green, la cui morte per tumore, accompagnata dalla colonna sonora di Somewhere Over the Rainbow, la canzone colonna sonora del Mago di Oz divenuta famosa per l’interpretazione di Judy Garland, immagino molto apprezzata dal personaggio interpretato da Franco Castellano in Commesse, qui però nella versione del cantante hawaiano Israel Kamakawikwo’ole, voce e ukulele, in grado di commuovere anche i cuori più aridi. L’ho molto amata, forse è proprio il personaggio di una serie tv che ho più amato, tanto più che è poi stata protagonista al cinema, non Abby Lockhart ma Maura Tierney, l’attrice che l’ha interpretata, del film Insomnia, film del 2002 di Christopher Nolan, regista già divenuto attenzionato dai cultori di cinema per Memento, ma ancora lungi dal diventare il gigante che poi sarebbe stato con la saga di Batman, ma anche coi vari Inception, Interstellar, Tenet e il pluripremiato agli Oscar Oppenheimer. Il film, giuro, l’ho visto in tv mentre me ne stavo in Norvegia, a Vadsoe, ultimo avamposto nord-orientale d’Europa. Il paesino disperso al Circolo Polare dal quale è partito Umberto Nobile col suo dirigibile, diretto al Polo Nord, un luogo lontano dagli umani e da Dio nel quale mi trovavo nell’autunno del 2004 per Tutto Musica, al seguito di Cristina Donà lì invitata come madrina di un fantomatico festival italo-norvegese. Qualcuno, infatti, questi credo siano gli effetti del vivere costantemente al buio o alla luce, come succede a queste longitudini, aveva pensato che proprio il palo su cui era attraccato il dirigibile Italia, lì ben visibile, sarebbe stata un’ottima attrattiva per i turisti italiani, spinti fin lì, a non so quante ore di volo, tre gli aerei presi per giungere fin qui, fieri del nostro eroe. Io ho sempre amato il caldo, quindi stare in un posto gelido, dove c’è luce per poche ore al giorno, e non era ancora inverno pieno, era per me impensabile. Passare una serata a guardare in tv un film thriller, Al Pacino, poliziotto insonne, e Robin Williams, un incredibile serial killer cattivissimo, lui che era in grado di creare empatia con chiunque anche solo guardando in camera, i due protagonisti della pellicola, pellicola ambientata in una Alaska sempre a giorno ha fatto il resto, un’esperienza allucinante, per me. Tornando però un’ultima vola a ER, Abby Lockhart, stando a quanto si evince dalla serie E.R.- Medici in prima linea è nata il 10 gennaio del 1969, cioè nel mio stesso anno, questo nonostante Maura Tierney, in realtà, sia nata nel 1965.

Allacciate le cinture di sicurezza, perché ora la trama di questo mio pezzo prevede un testa coda.

Abby Lockhart, dicevo. C’è una serie di cui mia moglie non è a conoscenza, e non perché ci sia un motivo per tenergliela segreta, ma perché proprio non rientra minimamente nel suo campo di interesse, che ogni tanto mi è capitato di vedere. Vedere in quel modo lì, distratto e come sottofondo, a volte anche senza dover far altro. Perché è una serie che si occupa di indagini legate al mondo della marina militare statunitense, capirete voi quanto me ne possa fregare, io neanche ho fatto il servizio militare, ai tempi, declinando il tutto sull’obiezione di coscienza. La serie è NCIS, che sta per Naval Criminal Investigative Service, e ha per protagonista una serie di agenti e specialisti del settore, capitanati da Jethro Gibbs, interpretato dall’attore Mark Harmon. Harmon, che è stato anche produttore della serie tv in questione, è sposato con Pam Dawber, che con Robin Williams era protagonista della serie Mork & Mindy, lei ovviamente nei panni della terrestre Mindy, ma incredibilmente non è questo il link per cui sto parlando di NCIS. Il link, se siete abituali lettori di questi long form che sto disseminando ora per 361Magazine, in precedenza altrove, avrete ormai capito che procedo sempre così, divagando e spostando a lato il discorso, se è la vostra prima volta, benvenuti, il link, dicevo, è dato proprio dal nome Abby.

Non ho mai molto apprezzato la serie NCIS, ripeto, ma se mi sono ritrovato spesso a guardarla, distrattamente, è per la presenza nel cast del personaggio di Abby Sciuto, medico forense della squadra ai comandi di Jethro Gibbs. Parto da un dettaglio anagrafico, che a sua volta crea un doppio legame con Abby Lockhart, da cui sono partito, Abby Sciuto, nella serie nata il 27 marzo del 1972, Abby Sciuto il cui nome completo è il bizzarro Abigail Beethoven Sciuto, è interpretato dall’attrice Pauley Perrette, nata il 27 marzo del 1969. Quindi io, Abby Lockhart e l’interprete di Abby Sciuto siamo coetanei. È già qualcosa.

La criminologa, decisamente simpatica e stramba, è caratterizzata dalla capigliatura nero corvina, con frangetta e codini, e dai suoi look decisamente gotici, mondo al quale fa spesso riferimento, dagli anfibi con le zeppe alle minigonne con le trame delle ragnatele, passando per tutte una serie di t-shirt a tema musicale.

Sempre per creare link a a tema musicale, Leroy Jethro Gibbs ha un nome decisamente musicale, converrete, non fosse altro che per quel contenere riferimenti, vai a capire se voluti o casuali, ai Jethro Tull, band progressive nota per il fatto che il suo leader, Ian Anderson, canta e suona il flauto traverso, e Gibbs, simile a quel Gibb dei fratelli che hanno dato vita ai Bee Gees, nello specifico Barry, Robin e Maurice Gibb, oggi dei tre è sopravvissuto solo Barry. Anzi, confesso che sulle prime mi ero confuso, e stavo per citare gli ZZ Top, dove però uno dei due barbuti di cognome fa Gibbons, non Gibbs, Billy Gibbons, cantante e chitarrista, mentre il suo sodale era Dusty Hill, cantante e bassista, morto nel 2021. Santo Google che mi ha evitato una gaffe. Volendo, poi quel Leroy potrebbe farmi tirare in ballo un Leroy che è stato assai rock’n’roll, volendo anche punk, in due modalità diverse. Penso a J.T. Leroy, ovviamente, fantomatico autore di Ingannevole il cuore più di ogni cosa, romanzo di formazione, si fa per dire, tra famiglie disagiate, prostituzione e droghe, molto apprezzato da tanti artisti della scena rock, anche per quel suo apparire ambiguo e fragile, una vocina esile, il viso sempre mezzo coperto da occhialoni da sole e un cappello da cowboy. Ricordo perfettamente una sua presentazione a Milano, al cospetto di quella Asia Argento, sua mentore, che addirittura dirigerà un film proprio da quel romanzo, film nel quale compariva anche Marilyn Manson, per dire quanto fosse rock, presentazione nella quale in nostro è stato tutto il tempo nascosto sotto il tavolo, parlando a stento da lì sotto, una specie di versione alla Drugstore Cowboy di Flavia Vento a Libero, io tra i pochi a mettere in dubbio la veridicità non tanto del romanzo, spacciato ovviamente per autobiografico, che me ne frega a me della veridicità dei romanzi autobiografici, lo avrete capito, ritengo che la scrittura sia sempre finzione, quanto proprio del personaggio, troppo eccessivo per essere vero, giusto il tempo di dirlo che di lì a breve sarebbe venuto fuori che in effetti il tizio sotto il tavolo altri non era che Savannah Knoop, sorellastra di Geoffrey, a sua volta compagno di Laura Victoria Albert, la vera autrice di quei libri. Libri, per intendersi, pubblicati dopo che la stessa Albert, fingendosi JT, la T dell’acronimo sta per Terminator, nome usato inizialmente per pubblicare i suoi primi racconti, era entrata in contatto con lo scrittore Dennis Cooper, vero mentore del progetto, e poi grazie anche all’endorsement di nomi quali Dave Eggers e Michael Chabon. Una mezza truffa, così verrà letta, mentre a me è sembrato una grande azione situazionista, non fosse che un certo pentimento ha attraversato i protagonisti, evidentemente più interessati a truffare che a smascherare l’ipocrisia degli ambienti letterari.

Tornando invece a Abby Sciuto, so che potrà suonare strano, ma è proprio di lei che stavo parlando, il suo personaggio geniale e sghembo è la sola ragione che mi ha indotto per anni a seguire svogliatamente le puntate di NCIS, interrogandomi sul perché, in fondo, non venisse mai dichiarata la matrice originaria del personaggio in questione: Nina Hagen. La cosa che mi ha onestamente sorpreso, e lo dico senza star qui a fare quello che la sa lunga, figuriamoci, è che anche online non si trovi traccia di questa specie di plagio, perché in tutto e per tutto Abby Sciuto, interpretata da Pauley Perrette è identica alla cantante punk più famosa di Germania, oltre che a una delle più famose al mondo insieme a Siouxie Six e poche altre, parlo del punk delle origini, ovviamente. Una artista incredibile, Nina Hagen, nata in quella che era la DDR settant’anni fa giusti giusti, il compleanno lo ha festeggiato l’11 marzo, figlia di uno scrittore e di una attrice cantante, si troverà nel corso della sua lunga carriera a giocare con quasi tutti i generi esistenti, l’attitudine totalmente punk e anarchica unica costante in tutte le sue produzioni, come nei suoi testi, spesso antisistema, contro il potere, la religione e ogni forma di incastolamento possibile e immaginabile. Una capace di passare dal punk e la new wave al kraut rock, del resto è lì che è nata, senza disdegnare la dance più smaccatamente pop, con al fianco mica per caso Giorgio Moroder, è il 1983 e l’album si intitola ovviamente Fearless, Angstlos nella versione tedesca, senza paura, ma è davvero impossibile star qui a elencare tutte le volte che la nostra ha cambiato pelle, dinamica e energica come poche altre artiste. Una delle indubbie regine del punk, verrebbe da dire se il punk non prevedesse per sua natura il non avere regine, a fianco appunto di Siouxie Sioux, a capo dei Banshees, di Lydia Lunch, per certi versi di Blondie, ma anche di Diamanda Galas, per dire, a sua volta influenza per tante altre artiste anche più smaccatamente mainstream, si pensi a una icona pop come Cindy Lauper, o a Linda Perry dei Four Non Blonde (il fatto che sia stata spesso paragonata a Madonna, invece, non credo abbia avuto influssi sulla carriera della collega americana). Una artista fuori dagli schemi, già a partire dai primi due album con la dissennata Nina Hagen Band, rispettivamente del 1978 e 1979, e poi in vesti soliste, da NunSexMonkRock, anno 1982, in avanti, ultimo lavoro pubblicato l’inclassificabile, tanta è la fantasia espressa, Unity, del 2022. In mezzo davvero di tutto, da un album fatto con la Big Orchestra di Lipsia, Big Band Explosion del 2003, a uno di matrice bhajan indù, Om Namah Shivay del 1999, del resto l’induismo e l’ufologia sono le sue due grandi passioni da sempre, al punto che sua figlia, nata dalla relazione con il suo chitarrista Fredrick Karmelk nel 1981 si chiama Cosmo Shiva, oggi attrice e doppiatrice, oltre che un album a tema religioso come Personal Jesus, nel 2010. Artista assolutamente poliedrica e curiosa, femminista ante-litteram e comunque dotata di una voce capace di coprire quattro ottave, cosa rara in assoluto, figuriamoci nel punk, sempre sferzante verso il potere, la sua canzone d’esordio, Du hast den Farbfilm vergessen, incisa con gli Automobil, è una potente metafora contro il grigiore della vita nella Germania dell’Est, a questo si riferisce mentre rimprovera il suo ragazzo di aver dimenticato in vacanza di portae il rullino a colori. Nina Hagen è anche artista che ha anche sempre giocato con l’estetica e con il mondo della comunicazione, divenendo icona assoluta al punto da finire citata, più o meno consapevolmente, assolutamente non in maniera esplicita, dentro una serie tv che col punk nulla ha a che spartire, NCIS. In rete si trovano due immagini apparentemente identiche, almeno nelle intenzioni. Una è la copertina di Revolution Ballroom, album di Nina Hagen del 1993, la cantante tedesca vestita in lattice nero, i capelli raccolti in due code laterali, legata con una corda mentre se ne sta seduta su una sedia da cucina, la carta da parati rosa alle sue spalle, perfetta regina BDSM, l’altra è una che fa il verso a questa, ma al posto di Nina Hagen legata a quella sedia c’è proprio Pauley Perrette in versione Abby Sciuto. Se sia immagine vera, magari tratta da un episodio della serie americana, o un fotomontaggio non mi è chiaro, non ho seguito tutte le puntate e anche le avessi seguite, l’ho già detto, probabilmente non avrei notato nessun dettaglio rilevante, lì a fare da sottofondo al mio lavoro di scrittore, di fatto è plausibile, credibile, una sorta di inchino da parte di una fan al proprio idolo. Il fatto che il disco in questione, Revolution Ballroom non fosse affatto punkeggiante, come in precedenza quasi sempre, ma semmai una rilettura in chiave pop di istanze ascrivibili al country e al blues, non fa che rendere il tutto ancora più situazionista, una artista arrivata dritta dritta dalla DDR che va a giocare proprio con i due generi che hanno dato vita a un po’ tutta la musica americana, loro radici musicali, scherza coi fanti e coi santi. Chi ha invece provato a scherzare coi santi e le ha detto male è stata proprio Abby Sciuto, o meglio, la sua interprete Pauley Perrette, che anni fa ha iniziato a scatenare una campagna social contro Mark Harmon, il Jethro Gibbs di NCIS, attore ma anche produttore della serie. Scrisse alcuni tweet al veleno, parlando di aggressioni fisiche subite, di pressioni psicologiche, arrivò anche a dire che la sua assistente venne fatta azzannare dal pitbull dell’attore, col risultato che il suo personaggio, uscito di scena, non è mai entrato e che la sua carriera di attrice è fondamentalmente finita. Evidentemente non basta assomigliare a una iconoclasta per essere una iconoclasta, e quando si decide di andare alla guerra contro i poteri forti tocca essere attrezzati, o si finisce per pagarne le conseguenze, con buona pace delle migliori intenzioni. E comunque, Abby Lockhart, ti amo ancora, oggi come ieri

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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