Sono un disco rotto. Un tempo, quando esistevano ancora i supporti fisici, nello specifico il vinile, che sì, esiste ancora oggi, pur nella ridicolaggine di applicare a un supporto nato per l’ascolto di musica incisa in analogico musica incisa in digitale, ma è una parte talmente minoritaria del mercato da non meritare neanche di essere presa in considerazione, quindi, un tempo, quando esistevano ancora i supporti fisici, per altro quei supporti fisici che tutt’oggi danno il nome all’industria che produce musica, discografia deriva da disco, anche se oggi andrebbe chiamata algoritmografia, ottimo titolo per un romanzo di un qualche autore orientale che parli di contemporaneità, di quelli che pubblicano editori quali E/O o ADD, con quelle bellissime copertine disegnate seguendo i dettami di uno stile che affonda le radici nell’antichità, ma che è stato in grado di aggiornarsi al punto da risultare futuribile, fatto che in musica, converrete, non è mai accaduto, ancora a guardare alla space music degli anni Settanta quando si vuole pensare a una colonna sonora che possa risultare fantascientifica, i sintetizzatori come ultimo switch verso un futuro che invece sembra a appannaggio dei sample, un tempo, dicevo, quando esistevano ancora i supporti fisici, nello specifico il vinile, e quando quindi i dischi erano in effetti dischi, intesi come forma geometrica, se qualcuno si lasciava andare a una petulante ripetizione di un medesimo concetto, o anche di una medesima frase, priva di un concetto a suo supporto, si diceva: sei un disco rotto. Il riferimento era chiaro, il vinile era fatto di vinile, ovviamente, su cui venivano incisi, ancora oggi si dice incidere un disco, anche se lo si fa con le macchine che non incidono nulla, il vinile, dicevo, era fatto di vinile, su cui venivano incisi dei solchi che rimandavano a tutta una serie di variazioni di profondità, larghezza, inclinazione, tali da produrre le medesime onde sonore registrate su nastro, ho riassunto male in poche righe il funzionamento delle cosiddette sale di incisione, e questi solchi, percorsi da una puntina attaccata a un braccio, riproduce quelle onde sonore, il disco a girare a una velocità costante, 33 giri e 1/3 per i cosiddetti LP, 45 giri per i cosiddetti singoli, lasciando poi che quei suoni escano dalle casse dell’impianto audio, se uno di quei solchi era graffiato, rovinato, quindi rotto, la puntina si piantava su quel punto, ripetendo sempre lo stesso passaggio, con un gracchio fastidioso, di qui il modo di dire: sei un disco rotto.
Ecco, io sono un disco rotto. Perché sono anni, tanti anni, diciamo da che mi occupo di musica come critico musicale, e parliamo del Novecento, quando cioè ancora parlare di discografia era sensato, non solo sotto un profilo meramente filologico, esistevano i dischi, ma anche metaforico, esistevano i discografici, sono quindi davvero tanti anni, dicevo, che ripeto come un disco rotto una frase: Giorgia è la più bella voce del nostro panorama musicale, almeno in ambito pop. Lo era allora, lo è oggi, aggiungo.
A questo punto qualcuno, figuriamoci se in questa era di scontri tra bande non c’è almeno uno che non si prenda la briga di venir qui a fare il puntualizzatore, dove per puntualizzatore si intende si colui che puntualizza, si colui che fa le punte, decidete voi a cosa, a questo punto, quindi, qualcuno alzerà il ditino e dirà due semplici parle: e Mina? Ecco, certo, Mina è stata e tuttora è una grandissima voce, ma la sua produzione discografia pantagruelica, e se dico pantagruelica è per rimarcare ancora una volta come io sia, in fondo, uomo del Novecento, seppur stia qui a scrivere per il web e mi lasci andare a ipotesi bizzarre come il sostituire il nome della discografia con un più coerente algoritmografia, che la musica in fondo sia legata ai numeri ce lo diceva già Pitagora qualche tempo fa, citare Rabelais è invece un vezzo che mi posso permettere perché so chi era Rabelais e pure Pantagruel, hai voglia a star lì a lavorare sugli algoritmi, amici miei, Mina, quindi, dicevo, ha una produzione discografica pantagruelica che, in qualche modo, e chiedo preventivamente perdono per questo giochino di parole davvero elementare, da averne minato la portata, perché se non hai buon gusto, credo, in qualche modo la tua arte è contaminata, come di un pittore che non sia in grado di lavorare sui colori, o uno chef che non sappia accostare i sapori. E qui veniamo al secondo punto, sul quale non ho uno storico altrettanto ampio quanto il dire che “Giorgia è la più bella voce del nostro panorama musicale”, ma ci siamo quasi vicini. Di Giorgia si dice, traslando un noto slogan che in realtà aveva Virna Lisi come protagonista e il dentifricio Chlorodont come titolare, slogan evidentemente non andato a buon fine sotto il profilo meramente promozionale, visto che di quello slogan ancora ci si ricorda a distanza di cinquantotto anni, era del 1967, Virna Lisi incidentalmente era ancora compagna di scuola di mia madre, così, non sia mai che io scriva un pezzo nel quale non infili a forza un qualche riferimento biografico, giusto per omaggiare il mio stesso stile, ma anche quell’autofiction che pratico dal Novecento e che oggi è diventato genere letterario più alla moda, come direbbe Piotta in buona compagnia di Caparezza, il primo da poco fuori con quel gioiello di Ecchime, scritta e interpretata insieme a Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti e dedicato a Pier Paolo Pasolini nel cinquantennale dalla morte, e il secondo da poco fuori con Orbit Orbit, ne parlavo giusto qui https://361magazine.com/caparezza-e-unostrica-orbit-orbit-la-sua-perla/, di Giorgia, dicevo, si dice, traslando un noto slogan di un dentifricio con Virna Lisi per protagonista, “con quella voce può cantare ciò che vuole”, qualcuno aggiunge, anche qui novecentescamente, “anche l’elenco del telefono”, andatelo voi a spiegare a un Gen Z o uno di una generazione a seguire, cos’era un elenco del telefono, così come di Virna Lisi si diceva, questo diceva lo spot di Chlorodont, che brutto nome per un dentifricio, “con una bocca così può dire ciò che vuole”. Parole sante, che andrebbero incisi sulla pietra, sono pur sempre quello che, come un disco rotto, ripete ossessivamente che Giorgia è la più bella voce del nostro panorama musicale. Solo che, e qui torno a intrecciare queste mie parole a quanto detto su Mina, c’è chi sostiene da tempo che il problema di Giorgia, sempre che Giorgia abbia un problema, è che negli anni, diciamo a partire da un certo punto in poi, dove questo certo punto viene spesso fatto coincidere col nuovo millennio, a volte da questo discorso viene legittimamente salvato Ladra di vento, che è poi l’album grazie al quale io e Giorgia ci siamo conosciuti, finendo incredibilmente a letto, di questa storia ho parlato talmente tante volte che a ripeterla potrei di nuovo essere scambiato per un disco rotto, ma a non specificare sembrerei una versione aggiornata, male, di Gigi Rizzi, se non sapete chi è siete giovani, mannaggia a voi, ai tempi dell’uscita del suo album Ladra di vento, quello per intendersi con le hit Gocce di memoria, parte della colonna sonora del film di Ferzan Ozpetek La finestra di fronte, ma anche della ben più ritmata Spirito libero, sorella minore, per età, dell’altra hit up tempo Vivi davvero, entrambe supportate da splendidi videoclip con lo zampino di Luca Tomassini, oltre che L’eternità, anche se la mia preferita resta la miracolosa Per sempre, sorella minore, per età, di quella Marzo che era secondo singolo dopo Vivi davvero del Greates Hits uscito l’anno precedente, nel 2002, Marzo con un emozionantissimo video, sempre diretto da Luca Tomassini, girato a Rosignano Solvay, ecco, diciamo che da Ladra di vento in poi, parliamo del 2003, molti dicono come un mantra, o come un disco rotto, fate voi, che Giorgia non ha un repertorio all’altezza della sua voce. Non ha le canzoni. Non ha i pezzi.
Allora, delle due l’una, o può cantare ciò che vuole, quindi anche non avere il repertorio all’altezza della sua voce, o può cantare ciò che vuole, e quindi anche non avere un repertorio non all’altezza della sua voce. Io sono della prima scuola, sono riuscito anche a scrivere belle parole quando ha messo la sua voce incredibile al servizio di cover, e fin qui niente di strano, quando scegli canzoni di altri in genere il repertorio non può che esserci, Pop Heart era il titolo di quell’operazione, purtroppo affidato alla produzione di Michele Canova Iorfida, con quella voce puoi cantare ciò che vuoi, ma sarebbe bene avere intorno un suono alla sua altezza, ma, sempre per dire, mi sono impuntato quando nel 2023 la critica l’ha attaccata, prima a Sanremo, dove aveva portato in gara il brano Parole dette male, e poi con l’uscita dell’album Blu, prodotto da Big Fish, perché, diceva la critica, e nell’includere nella critica musicale quelli che hanno detto ciò, lo so, ho opzionato un posto all’inferno, perché quella non è critica, al massimo è brutto giornalismo musicale, praticato da gente che scrive di musica perché si era liberato un posto in redazione per mere questioni di ferie, di maternità o di prepensionamento, non certo per competenze, mi sono impuntato perché quello era un gran disco, dove Giorgia, che ha una voce che è la più bella del nostro panorama musicale, sperimentava come un’artista dovrebbe sempre poter, saper e voler fare, il fatto che quella musica non coincidesse con un’idea di bel canto che gli altri associassero a Giorgia, direi, è un problema degli altri, non certo di Giorgia.
Ora, fatta sgombra la stanza da questi due ingombranti elefanti, la voce di Giorgia e il suo repertorio, e detto a gran voce che lo scandaloso sesto posto all’ultimo Festival di Sanremo con La cura per me, ricordiamo che ha vinto Olly e che sopra di lei c’era anche Fedez, credo non serva aggiungere altro, e sottolineato come però proprio quel sesto posto, unito al magnifico lavoro da presentatrice fatto a X Factor, la sua empatia regalata a secchiate, la faccia, gli occhi e il sorriso, di una donna risolta, abbiano posto Giorgia lì dove merita, su un piedistallo, perché il pubblico le ha giustamente fatto capannello intorno, riconoscendo quello stato di grazia che evidentemente chi vota al Festival non ha visto, o non ha saputo riconoscere, il fatto che La cura per me sia poi diventata una hit per una volta attesta che anche il popolo bue a volte ha buon gusto, ecco sgomberata la stanza da quei due elefanti, e detto a gran voce ciò, arriviamo all’oggi, dove l’oggi è la conferenza stampa per l’uscita del nuovo davvero attesissimo album di Giorgia, preceduta dall’ascolto del nuovo davvero attesissimo album di Giorgia, titolo G, conferenza stampa e ascolto avvenuto in Triennale a Milano, luogo giustamente votato all’arte e dove Giorgia dovrebbe avere la residenza. Conferenza stampa e ascolto rispetto alle quali andrebbero sottolineati un aspetto, en passant. In genere quando si fanno questi incontri con la stampa, giorni prima che poi l’album esca, c’è una fastidiosa usanza chiamata embargo. Cioè chi organizza impone a chi scrive di aspettare a pubblicare in una determinata data, in genere il giorno di uscita del progetto, o quello precedente, tutti lo stesso giorno, col risultato che c’è una sorta di invasione di notizie, spesso tutte uguali, perché le cose che un’artista o un artista dice in conferenza stampa sono le medesime per tutti, a fare la differenza la penna e la testa di chi scrive, al limite, è il mio fortunato caso. Nel caso di Giorgia no. Lei è talmente altrove, rispetto a queste bizzare usanze, che si scrive in diretta, volendo, perché non serve fare questi giochetti.
E non serve anche perché G, questo il titolo del suo nuovo album, è qualcosa di così importante e sorprendente, da potersi liberamente fregare di qualsiasi convenzione, anticonvenzionale come del resto è. Un lavoro cui Giorgia sta lavorando da tempo, diciamo da che quel Blu, qualcuno in conferenza ha ricordato come Blu fosse in realtà un volume 1 cui non ha mai fatto seguito un volume 2, Giorgia a rivendicare il suo essere quella dei soli volumi 1, ricordando come anche Pop Heart fosse un volume 1, un lavoro cui Giorgia sta lavorando da che quel Blu di cui si parlava prima, album volutamente introflesso, dove Giorgia faceva i conti con quello che le girava in testa, parlo di musica, senza confrontarsi troppo con quello che girava intorno e basta, le ha dato il la per una sorta di riflessione comunitaria, dove per comunità si intende quel gruppo di collaboratori che negli ultimi tempi le sono rimasti accanto, a Andrea Rosi e Ferdinando Laffranchi, ai vertici di Sony e Friends & Partners, quindi le aziende con cui lavora su dischi, tour e televisione, a chi, nello specifico, le è stato accanto anche fisicamente, passo dopo passo, Marcella Montella per la Sony e Veronica Corno per F&P, più che si è messo a lavorare con lei in studio, Enrico Brun lì dietro il vetro degli studi Sony, e anche i producer e autori con cui ha lavorato, tra i primi Dardust, Cripo, Enrico Brun, appunto, Kyv, PAGA, Mike Defunto & Sterza, Simon Says!, Katoo e ovviamente il Michelangelo che l’ha portata con Blanco a Sanremo, tra i secondi, gli stessi Dardust, Blanco e Michelangelo, e poi Calcutta, Davide Petrella, Gaetano Scognamiglio, loro dietro il singolo che ci ha portato all’uscita di G, il bel Golpe, e ancora Jacopo Ettorre e Nicola Lazzarin, che poi sarebbe sempre Cripo il producer, e ancora Vincenzo Centrella, che è Kyv il produttore, Frada, Joe Viegas, Alex Andrea Vella, Federica Abbate, Daniele Fossatelli, Rondine, Marco Paganelli, il producer PAGA, Michele Poli, il producer Mike Defunto, Lorenzo Puccioni, Adel Al Kassem, Elisa Mariotti, Simone Privitera, il producer Simon Says!, Alessandro La Cava, Carlo Aprea Carlo Pio Porporino e Mara Sattei, a questi ultimi si deve Niente di male, primo singolo che ha anticipato questo lavoro, un anno fa, tutti decisamente più giovani di lei, di noi. E qui sta il punto, G di Giorgia è il lavoro perfetto per la Giorgia così centrata di questi giorni, il famoso stato di grazia di cui si parlava prima, un album nel quale Giorgia è riuscita nella rischiosissima e per certi versi incredibile impresa di rimanere se stessa, una cantante di cinquantaquattro anni con oltre trent’anni di carriera alle spalle, ma al tempo stesso è riuscita a essere contemporanea, facendo proprio un linguaggio, più musicale che testuale, che appartiene indubbiamente alle nuove generazioni. Perché non fatevi ingannare dal modo naturale con cui la nostra affronta il flow di brani quali Sabbie Mobili, non fosse già bastata quella perla di La cura per me, con uno special davvero incredibile, lontanissimo dal suo modo solito di cantare. Una impresa epica, quella di Giorgia, che evidentemente tanto ha studiato, e cui Brun e gli altri dietro quel vetro, hanno permesso neanche troppo di rado di essere anche la se stessa che conosciamo, i ritornelli aperti, gli svolazzi che, penso a un falsetto flautato alla Mariah Carey che appare di sfuggita a un tratto in Rifare tutto, sono la sua matrice più riconoscibile. Un disco quindi modernissimo, che però non lascia mai spazio al giovanilismo, a partire dai testi che parlano di una donna matura, che da donna matura ha un passato con cui fare i conti, cicatrici sulle quali passare le dita, per ricordarsi quando le ferite che le hanno provocate sono state inferte, volendo anche con una certa malinconia, penso a Paradossale, altro brano davvero bello. Un disco maturo, scritto in buona parte da giovani, giovanissimi autori, che si sono messi al suo fianco, lasciando che Giorgia si mettesse in gioco, prendesse i suoi rischi e li superasse uno dopo l’altro. Un gioiello, dove i brani cosiddetti di respiro, qui entriamo in logiche discografiche, appaiono davvero pochi, strano a dirsi ma io considererei così L’unica, singolo dell’estate, o Tra le lune e le dune, non a caso messe per terza e terzultima in scaletta, volendo lasciare fuori la versione de La cura per me col feat di Blanco. Brano di cui, immagino, si parlerà, perché è un duetto a suo modo tra top player, ma che dimostra quanto Giorgia sia in grado di trasformare alla Giorgia qualsiasi cosa tocca, di qui l’invito a recuperare anche il già troppe volte citate Blu, con Blanco a urlare disperato la sua parte, Giorgia a cantarla risolta, i piccoli cambi di testo, dal punto di vista di Giorgia necessari per evitare rischi, sempre di rischi si parla, di trasformare il tutto in una sorta di inno all’amore tossico, rischi che evidentemente Blanco e la sua generazione non corre, non perché non ci siano amori tossici in giro, ma per un diverso modo di affrontare la vita. Tutti questi ragionamenti a partire da un disco pop, attenzione, un disco di pop che risulta leggero, come solo il pop sa essere, ma lascia anche intravedere, a volte ci fa proprio andare giù come fossimo palombari, profondità altissime, di quelle abitate da esseri che neanche riusciamo a immaginarci, pesci fluorescenti, esseri che se ne stanno lì da secoli, capaci di sopportare pressioni che noi comuni mortali neanche riusciamo a ipotizzare. Un disco perfetto, da questo punto di vista, dove tutti gli ingredienti sono al punto giusto, la grande presenza di melodie giorgiane, sulle quali Giorgia dipana flow molto ma molto Gen Z, con testi che però, pur scritti da Gen Z, parlando di noi che ormai abbiamo scollinato il mezzo del cammin di nostra vita. Il tutto accompagnato da tanta elettronica, coi bassi a farla da padrona, come se il fatto che poi qualcuno li ascolterà distrattamente sullo smartphone, attraverso una piattaforma di streaming, non interessasse più di tanto alla titolare dell’opera.
Titolare dell’opera, lasciatemi ora agio di parlare un po’ anche di me, come se non lo avessi fatto fin qui, perché un disco che parla di chi ha scollinato il mezzo del cammin di nostra vita è chiaro che è un disco che parla anche di me, o parla a me, quantomeno, titolare che ha passato i minuti precedenti all’inizio della conferenza, quando cioè si stava noi qui a ascoltare l’album, lei immagino in un dietro le quinte che si può trovare dentro la Triennale di Milano come in una stanza d’albergo e auto a seguire, a commentare traccia dopo traccia, perché il mio sarà pure un mestiere che devi reinventarti ogni giorno, ho iniziato scrivendo a casa da solo su una macchina da scrivere e oggi se non sto almeno un tot di ore alla settimana dietro una macchina da presa, per fare video destinati ai social rischierei l’estinzione, ma è anche un mondo di privilegi, il poter colloquiare privatamente con chi poi, pubblicamente, si prende agio di cantare la colonna sonora della tua vita è qualcosa di impagabile, e siatemi grati per non aver citato la Master Card. Il tasso di commozione di certe ballad, che a volte prevedono nella visione contemporanea di Giorgia l’inserimento di una cassa dritta, ballad e ballare in fondo hanno la stessa radice, penso proprio alla già citata Paradossale, coi suoi insert quasi da gospel, ma anche a quella Carillon nella quale Giorgia imbastisce un dialogo con la se stessa giovane, o Sabbie Mobili, ecco, il tasso di commozione è altissimo, ma come dicevo a proposito del disco di Caparezza, con gli anni commuoversi e commuoversi spesso, sempre per motivi più che giustificati, è parte dell’essere vivi.
Esatto, essere vivi. Giorgia lo è, lo è sempre stata, ma ora lo è di nuovo anche per chi si chiedeva che fine avesse fatto, o perché non avesse quel repertorio che una voce così merita. Che si tratti del secondo, terzo o quarto tempo della sua vita poco conta, l’importante è che ci sia, che canti e che col suo canto riesca, anche stavolta ce la fa perfettamente, a farci stare bene, andassi ora a citare il Punto G sarei uno di quei giornalisti musicali che oggi, miracolo, erano sparsi per la sala, privati dei loro soliti privilegi ancestrali.
Sono un disco rotto, e come tutti i dischi rotti mi ripeto, mai come oggi Giorgia è la più bella voce del nostro panorama musicale, e non sto parlando certo solo di come o cosa canta, ma proprio di come è.




