Ho letto da qualche parte che le città americane un tempo industrializzate si è ormai compiuta del tutto la desertificazione, coi centri cittadini completamente abbandonati e quindi cadenti. Al punto che oggi neanche si pensa più a una qualche forma di riqualificazione, o magari di recupero, ma li si lascia direttamente in mano alle case di produzione di Hollywood che le utilizzano come set naturali per gli ormai tantissimi film distopici usciti dalla fabbrica del cinema. Strana forma di archeologia urbana e industriale insieme, quella di lasciare che tutto cada a pezzi per non dover ricorrere a finte scenografie, magari posticce grazie all’AI.
Guardando ieri sera qualche immagine della partita tra Italia e Israele, dallo stadio deserto di Udine, immagine che è seguita a quelle degli scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine fuori dallo stadio, manifestanti assai più numerosi dei pochissimi spettatori presenti al Bluenergy Stadium, ormai è di moda affibbiare agli stadi delle città i nomi degli sponsor che li tengono fondamentalmente in piedi, mi è venuto in mente che sarebbe stata una location perfetta per una qualche storia distopica. Quei seggiolini colorati, a sopperire ai colori delle giacche e delle maglie dei tifosi, delle loro bandiere, contrapposte al verde uniforme dell’erbetta in campo, le maglie bianche e azzurre dei calciatori, l’idea che tutto intorno a loro ci fossero appostati cecchini, questo ci è stato detto ripetutamente per giorni, tirando ovviamente in ballo il Mossad, hai voglia poi a domandarsi perché la gente non se l’è sentita di andare allo stadio, tanto più a vedere una squadra che gioisce per aver guadagnato un posto ai PlayOff, o per averne rifilati tre, e preso uno, alla Moldavia, non certo al Brasile o all’Argentina. Sto pensando da settimane di tornare alla narrativa, che è poi esattamente il luogo dal quale è cominciata la mia carriera, ormai oltre trenta anni fa, e ci sto pensando perché sono vicino alla soglia del centesimo libro pubblicato, a settimane uscirà il novantanovesimo. La storia di un cecchino che decide di terrorizzare due squadre di calcio in diretta televisiva, i colori sgargianti dei seggiolini a creare quell’atmosfera fintamente gioiosa, credo potrebbe funzionare, ho pensato guardando i giocatori in campo, salvo poi tornare a rivedermi la prima stagione di Supernatural, non certo per una forma di boicottaggio che sarebbe stata pelosa, ma proprio per noia. L’ipotesi di quella trama, del resto, è stata abbondantemente superata dalla storia, non esistono effetti speciali o colpi di scena che non siano già stati raccontati in qualche fatto di cronaca, giusto ieri tre fratelli hanno deciso di far saltare in aria la cascina che le forze dell’ordine stavano per sgomberare, dando forma allo sfratto, esattamente come sarebbe potuto accadere in una qualche serie crime americana, il capello peruviano della sorella, colei che avrebbe lanciato la bomba molotov nella stanza dove erano contenute le bombole di gas lasciate aperte, a mo di innesco, la dentatura storta, lo sguardo poco sveglio, tutto sembra rubato da una fiction, ma è realtà, come è sembrato surreale vedere poi applicata la tanto odiata AI per creare queste immagini stucchevoli coi tre carabinieri rimasti tragicamente vittima di questo gesto folle rappresentati come tre angeli che vanno verso il paradiso, esattamente con la medesima estetica delle tante rappresentazioni che volavano Charli Kirk in braccio a un Gesù ovviamente caucasico, in una rappresentazione horror della Pietà di Michelangelo, e a proposito: dove sono finiti i tanti che dicevano che Kirk sarebbe stata la pietra d’angolo sulla quale sarebbe stata edificata la rinascita orgogliosa dell’occidente? Presto dimenticato a beneficio della prossima tessera del puzzle. Come presto, forse è già accaduto, si dimenticheranno tutti di quei tre carabinieri, meno noti e quindi destinati a durare anche meno nella memoria collettiva, dato per certo che gli angeli comunque non sgomberano case.
Dico tutto questo non per i postumi di una brutta infezione, che in effetti è ancora in corso, ma perché anche solo a guardare distrattamente un telegiornale è ormai evidente che siamo in una realtà accelerata, dove l’accelerazione è rivolta sempre e soltanto verso la catastrofe, al punto che risulta addirittura difficile pensare a una qualche idea di futuro, se non quella ironica e corrosiva ipotizzata dagli autori degli Occhi del cuore nell’ormai mitologica scena di Boris nota come “la locura”.
Ora, la storia ci insegna che è proprio nei momenti di maggior decadenza, per non dire di quelli nei quali l’incertezza diventa pane quotidiano, che l’arte è stata in grado di dare rappresentazione della contemporaneità nella maniera più esemplare, quasi a voler parafrasare la nota battuta che Bruno Lauzi a fatto relativamente al suo mestiere di scrivano di canzoni, “scrivo quando sono triste, perché quando sono felice esco con gli amici”. Dovremmo quindi trovarci nel bel mezzo di un’ondata di cinema, letteratura, arte e musica di estrema qualità, e soprattutto capace di rendere in maniera plastica la distopia di cui sopra, ma a ben vedere il panorama che ci circonda, se possibile, è ancora più desertico degli spalti dello stadio di Udine, senza neanche i colori dei seggiolini o quelli dei pallini rossi dei mirini a infrarossi dei cecchini del Mossad. Una sorta di avvilente nulla, dove al massimo si prova a parlare d’altro, a pensare a altro, come se di fronte a un pericolo imminente la sola scelta possibile sia dar vita a un party o, peggio, infilare la testa in una buca sperando che il predatore non si accorga di noi.
In questo scenario degno di un romanzo di McCarthy, uno che l’oggi l’ha raccontato come pochi, parlando al futuro, Fiorella Mannoia tira fuori una nuova canzone che, sulla carta, potrebbe rappresentare un raro tentativo di non scivolare nel vacuo e nell’effimero: Eroi. La canzone, scritta in buona compagnia di quei campioni che rispondono al nome di Alfredo Cheope Rapetti Mogol e di Federica Abbate, e anche del marito Carlo De Francesco, stessa squadra già al lavoro sulla Mariposa sanremese, quelle divenuta nota più per lo spauracchio bestemmione che per il suo valore, e che le è comunque valso un Premio Bardotti come Miglior Testo al Festival, e parte dell’album Disobbedire, si presenta come una tipica ballata fossatiana, come se dopo anni più leggeri di colpo Fiorella si fosse ricordata di essere pur sempre Fiorella Mannoia, nostra signora della canzone d’autore. Il testo ci parla di tutta quella gente comune che, pur non avendo chance nella vita, non si tirano indietro nell’affrontare il giorno per giorno, piccoli Don Chisciotte, non a caso l’eroe di Cervantes si vede nel video, ovviamente in bianco e nero, che pur nella loro invisibilità non si tirano indietro. “Per chi dice cose straordinarie con parole comuni”, in questa frase direi che è facile comprendere il senso del brano. La musica, invece, è davvero una tipica ballad fossatiana, cantata dalla Mannoia esattamente come uno si immagina che la Mannoia canterebbe una canzone scritta per lei da Fossati, fermando le parole prima di pronunciare l’ultima sillaba, con quel vezzo che il cantautore genovese ha elevato a opera d’arte nelle opere d’arte. Tutto perfetto, allora? Beh, non so se vi è capitato di vedere quei simpatici reel che girano sui social che mostrano gli animali come sarebbero in natura se coincidessero con i disegni che di loro fanno i bambini. Quindi totalmente privi di prospettiva, le gambe lunghissime e i corpi esili, i visi sghembi, tutti storti. Ecco, Eroi è esattamente così, una canzone di Ivano Fossati scritta da un bambino che non sa ancora scrivere, o almeno, che risulta così. Priva di profondità, di prospettiva, ma con quel retrogusto di paraculismo, di qualunquismo che ti fa quasi rimpiangere un bel reggaeton di Fred De Palma, che almeno è robaccia che non pretende di essere altro che robaccia. Un merito però Eroi ce l’ha, e non è certo quello di aver liberato De Gregori dal giogo di dover svendere il suo repertorio all’Enel, non dubitiamo che il Principe tornerà a fare scempio delle sue canzoni, anche se al momento è Eroi a fare da colonna sonora all’azienda capitanata dal marito di Sabrina Ferrilli, quello di rendere davvero in maniera plastica i giorni nostri, dove anche chi pretende di voler scrivere e interpretare una canzone d’autore si trova poi a dar vita a una crosta di quelle che si trovano nei mercatini dell’usato dell’ultima domenica del mese, di fianco a vecchi telefoni con la rotella, centrini ormai ingialliti e giocattoli vintage buoni per provare a fingere di non essere poi così tanto invecchiati.
Per tutto il resto, che ve lo dico a fare, c’è la locura, Renè, la locura.