All’inizio della scorsa estate mi è capitato di sentir parlare due volte nella stessa settimana di Juary, credo sia qualcosa sulla quale meriti di soffermarsi. Anche perché, sempre che mi fosse mai capitato in passato, sicuramente non è successo dagli anni Novanta in qua.
Juary, per chi non lo sapesse, immagino la stragrande maggioranza di chi mi legge o almeno la stragrande maggioranza fatta eccezione per i miei coetanei maschi e appassionati, ma davvero appassionati appassionati di calcio, non sto facendo un discorso patriarcale, ma è un fatto che quando io ero giovane e il nome di Juary aveva un senso seppur marginale il calcio era quasi totalmente una questione per uomini, Juary, quindi, per chi non lo sapesse, è stato un calciatore brasiliano in forze a alcune squadre italiane, in seguito allenatore a sua volta in forza a squadre italiane, come dire, credo che Juary arrivato qui non se ne sia più andato.
Approdato all’Avellino con la riapertura dei cancelli, diciamo così, leggi alla voce “frontiere”, quindi il ritorno dei calciatori stranieri in Italia nel 1980, uno per squadra, dopo un blocco di cui in verità ho un ricordo labile, Juary si mise in evidenza non tanto per le sue capacità sul terreno di gioco, era un’ala sinistra non eccezionale, anche se in quell’Avellino, quello della stagione 1980-1981, e poi 1981-1982 segnerà tredici goal su trentadue partite giocate, per poi approdare con non troppo successo all’Inter, e in seguito all’Ascoli e poi alla Cremonese. Juary era stato scelto per l’Avellino dall’allenatore Vinicio, come lui brasiliano, e quel che subito mise in evidenza, oltre un fisico mingherlino e veloce, questo suo vezzo di festeggiare i goal andando a girare in tondo e velocissimo e come un pazzo intorno alla bandierina del calcio d’angolo. Ai tempi festeggiare un goal con un vezzo, un gesto ripetuto, era faccenda particolarmente originale, i calciatori apparivano persone serie, con il riporto, come Beppe Furino della Juventus, l’acne, come Massimo Bonini, sempre della Juventus, o i baffi, come Franco Causio, sempre della Juventus, sì, la Juventus era una delle squadre più forti in Italia, in effetti, sulla cui formazione si basava anche la Nazionale che nel 1982 sarebbe andata a vincere il Mondiale di Calcio di Spagna, detto il Mundialito, competizione cui Juary non avrebbe preso parte. E non avrebbe preso parte al Mundial di Spagna, Juary, perché troppo scarso per una formazione che vantava in attacco campioni assoluti quali Zico, Eder, Sergigho, Renato, Dirceu, Socrates, figuriamoci se c’era posto per Juary. Però chiunque seguisse il calcio a quei tempi, me tra questi, di Juary si ricorda, per questa cosa del correre in tondo intorno alla bandierina del calcio d’angolo. Poi ci sarebbero state tutte le altre esultanze, dalla smitragliata di Batistuta al “vi ho purgati ancora” di Totti, via via passando per tutte le estrosità che ben conosciamo oggi. Corse in tondo che con la maglia dell’Inter sarebbero state solo due, all’Ascoli cinque e alla Cremonese di nuovo due, le partite in serie A erano di meno, il campionato era a sedici squadre, e comunque lui non è che fosse questo fenomeno. Però era uno di cui ci si ricorda, oggi si direbbe un personaggio iconico. Sostituito all’Avellino da un personaggio altrettanto iconico, forse anche di più, già a partire dal nome, Geronimo Barbadillo, peruviano, lui impegnato anche in nazionale, e che dopo aver giocato con l’Avellino sarebbe andato a giocare nell’Udinese, arrivato fin lì per sostituire nientemeno che Zico, considerato a ragione uno dei calciatore più forti del mondo, almeno a quei tempi.
Il motivo per cui mi è capitato di sentir parlare per due volte di Juary, nel giro di pochi giorni, è dovuto all’aver frequentato, nei medesimi giorni, miei coetanei come me appassionati di calcio, le classiche cene di fine scuola dei nostri figli e quelle tra amici che poi non avremmo incontrato di nuovo nel corso dell’estate. Nel primo caso si è parlato di Juary perché uno dei miei commensali tifa Avellino e se ne stava tutto contento per la recente promozione in serie B della squadra con la caratteristica maglia verde. La cosa che mi ha incuriosito, neanche poco, è che parlando, e sottolineando come ai tempi i calciatori non fossero sorta di popstar fighissime, coi look curati e un fisico spesso scolpito in palestra, del resto il calcio contemporaneo è quasi tutto basato proprio su una fisicità esasperata, da PES applicata al campo di calcio, quindi parlando di calciatori dal look improbabile il mio commensale ha citato un calciatore con la pancia, non una pancetta appena accennata, ma proprio una pancia prominente, tale Vito Chimenti, associandolo al Catanzaro. Me lo ricordavo perfettamente, come tanti altri calciatori di quell’epoca, solo che me lo ricordavo anche con la maglia dell’Avellino, o meglio, per essere precisi, proprio dell’Avellino di Juary. Non volendo però fare figuracce, e senza star lì a consultare Wikipedia, ho taciuto, salvo poi scoprire che sì, Vito Chimenti, ahilui e ahinoi morto a settant’anni due anni fa, era stato proprio in forza all’Avellino di Juary, ventotto partite giocate e due goal segnati. Ma sicuramente Juary era più ricordabile, con le sue corsette veloci, per non dire di Geronimo Barbadillo, con quei capelli afro che lo facevano somigliare come due gocce d’acqua a David Harris, l’attore divenuto immortale per aver interpretato, sempre in quegli anni, per la precisione nel 1979, a frontiere ancora chiuse, Cochise nel film The Warriors- I Guerrieri della Notte, diretto da Walter Hill. Credo che la mia generazione, quella di chi è nato a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, sia stata segnata da alcuni film, in fondo credo che sia capitato un po’ a tutte le generazioni, almeno finché i film avevano un peso culturale come allora, e che nello specifico i film che hanno segnato la mia generazione siano appunto The Warriors- I Guerrieri della Notte di Walter Hill, 1997 Fuga da New York di John Carpenter, anno 1981, con un gigantesco Kurt Russell nel ruolo di Jena Plissken, e già il fatto che il 1997 fosse il futuro distopico a nostra disposizione, incidentalmente lo stesso anno in cui me ne sarei andato da Ancona per trasferirmi a Milano, appena più giovane di quanto non fosse Kurt Russell nell’interpretare quel delinquente mandato nell’isola di Manhattan trasformata in enorme carcere a cielo aperto per salvare il presidente degli Stati Uniti, ci dice qualcosa, terzo film di tre, e so bene che tutti vi starete immaginando Guerre Stellari, ma Guerre Stellari credo esuli la questione delle generazioni, vivo e vegeto ancora oggi, almeno come brand, terzo film di tre il remake de Il Bacio della Pantera da parte di Paul Schrader, con Nastassja Kinski e Malcolm McDowell come protagonisti, sì, quel Malcolm McDowell lì, di Arancia Meccanica di Kubrick, film che però è del 1971 e almeno io ho recuperato solo in seguito. Tre film che in qualche modo rientrano nel genere film d’azione, seppur con sfumature diverse, The Warriors e 1997 Fuga da New York decisamente ambientate in un futuro distopico, seppur nel primo caso un futuro non troppo diverso dal presente, Il Bacio della Pantera invece totalmente fantastico, con questa storia morbosa e sensuale di due fratelli legati da un rapporto decisamente ambiguo e incestuoso, la trasformazione in pantera maledizione dalla quale entrambi potevano uscire solo congiungendosi tra loro.
Sul perché io indichi questi tre film come rappresentativi della mia generazione, ovviamente esprimendo un’opinione personalissima, è presto detto: c’era lì tutta una lettura di un’America decisamente meno edonistica e sfavillante di quella che in qualche modo ci aveva colonizzata, credo che mai come nel nostro caso si potesse parlare di crescere alla periferia dell’impero, New York, città quantomai identificativa di quello spirito, trasformata in un luogo quantomai pericoloso e ostile, tra gang, psicopatici, veri e propri eserciti di criminali pronti a tutto, il tutto dentro opere comunque assolutamente immaginifiche, tanto accurate da essere letteralmente entrate nella nostra cultura pop, pensate che ancora oggi ci sono tour che attraversano New York seguendo le peripezie dei Guerrieri, qualche anno fa addirittura con la presenza dei protagonisti del film, almeno quelli sopravvissuti, David Harris, il simil Barbadillo, non è più tra noi dall’anno scorso, quindi a quella camminata c’è andato. Discorso diverso è quello de Il Bacio della Pantera, film forse più marginale, a livello di cultura pop, ma che personalmente mi ha turbato senza precedenti, e lo ha fatto per la presenza nel cast di quella Nastassja Kinski che avrebbe spinto parecchi anni dopo Sergio Rubini a scrivere, dirigere e interpretare il vacuo film La bionda solo per poter dire “sono andato a letto con Nasstasja Kinski”. Sempre dell’attrice americana, patriarcalmente potrei aggiungere “figlia di Klaus e moglie di Quincy Jones, uno dei più grandi produttori musicali del Novecento”, ricordo una famosa intervista che le fece a Domenica In Mino Damato, andando completamente in palla di fronte a lei, letteralmente imbambolato e incapace di portare avanti la conversazione. Vederla sul grande schermo, a memoria questo film come gli altri due li ho visti nel vecchio cinema Enel di Ancona, dopolavoro dell’azienda in questione, seggiolini scomodissimi di legno e programmazione davvero rock’n’roll, ormai chiuso da tempo e di fronte al quale da anni sorge uno dei due sbocchi della recuperata storica galleria San Martino, nuda e conturbante, ha avuto per una vera funzione di passaggio dall’età infantile all’adolescenza, forse perché già all’epoca mi ritenevo una sorta di piccolo intellettaule incapace di farsi piacere quelle pellicole pecorecce con Lino Banfi, Lando Buzzanca o il da poco scomparso e ovviamente santificato ex post Alvaro Vitali, a guardare Edvige Fenech, Michela Miti o Nadia Cassini, beh, Nadia Cassini è stata a sua volta un bell’imprinting, fare la doccia mentre loro guardavano dal buco della serratura. Tanto valeva giocare in maniera più esplicita, avrò pensato, o semplicemente sarò rimasto irretito da quel clima torbido e umido da New Orleans, non per nulla poi protagonista di un’altra pellicola particolarmente ambigua e cult come Angel Heart di Alan Parker, film del 1987 con Rober De Niro nei panni del diavolo, qui chiamato Louis Cyphre, cioè Lucifero, Mickey Rourke in quelli del detective Harry Angele e una devastante Lisa Bonet, per tutti noi la Denise della sitcom I Robinson, nessuno poteva anche lontanamente ipotizzare tutto quello che avremmo scoperto poi sull’orco Bill Cosby, nei panni della conturbante Epiphany Proudfoot, Dio mio che nome, vederla passare da una sitcom con finte risate sotto a una torrida scena di sesso col protagonista di 9 settimane e mezzo è stato un vero e proprio shock, poi, ma solo poi, sarebbe arrivato Lenny Kravitz, a sua volta figlio di una attrice di seconda linea dei Jeffersons, e la loro figlia Zoe, a sua volta attrice.
Ecco, la mia è una generazione bislacca, che ha costruito un immaginario e quindi una poetica su personaggi come Juary e Barbadillo, certo, ma anche su Jena Plissken, i Guerrieri della Notte, “guerrieri, venite a fare la guerra” e la Nastassja Kinski de Il Bacio della Pantera, i Robinson e i Jeffersons a permetterci di fare in conti con un razzismo che solo in seguito sarebbe divenuta una possibilità col fare i conti, molti decidendo appunto di farceli, ahinoi. Per la cronaca, il secondo a parlarmi di Juary è stato un altro amico caro, come me marchigiano ma come me residente a Milano, il quale l’ha tirato fuori dal cilindro per il suo passato nell’Ascoli, lui a citare anche Oliver Bierhoff, Dirceu e Hugo Maradona, io a rispondere con Laos Detari e Oscar Ruggeri, capitano dell’Argentina campione del mondo passato da Ancona. Juary, sempre per la cronaca, dopo aver lasciato l’Italia senza più raggiungere, chiamiamoli così, i fasti dell’Avellino, se ne andò in Porto, con una carriera considerata ormai al capolinea. Lì, però, non solo vinse subito il campionato, ma andò anche a conquistare la Coppa dei Campioni, così ai tempi si chiamava la Champions, segnando il goal decisivo nella finale contro il Bayern Monaco. Juary è del 1959, esattamente dieci più di me, mentre è del 1967, quindi di due anni più di me, uno degli stranieri arrivati al Genoa dopo la fiammata dell’era Bagnoli, nel 1994. Parlo del primo calciatore giapponese a aver calcato i campi di gioco italiani, Kazuyoshi Miura, giunto in Italia in quanto spinto dallo sponsor a sua volta giapponese, che copriva quasi tutto l’ingaggio, ventuno partite giocate con un solo goal all’attivo, quello che apriva le marcature nel derby poi perso 3-2 con la Sampdoria, non esattamente un passaggio sfolgorante al Marassi. Non che ci si aspettasse chissà che, tra tifosi del Genoa, avevamo già avuto Eloi, per dire, ma aver avuto poco prima gente come Pato Aguilera, Tomas Skurhavy e Branco, e il fatto che Miura provenisse dalla terra che ci aveva regalato Holly e Benji, coi loro tiri a effetto e le loro acrobazie impossibili, qualcosa aveva pur generato. Comunque sia, notizia che sta girando, complice l’estate, è che Kazu Miura ha firmato per l’Atletico Suzuka, in quarta divisione giapponese, divenendo a tutti gli effetti il più longevo calciatore professionista di tutti i tempi, con oltre quarant’anni di carriera alle spalle. Sia lui che Juary, incredibilmente, hanno giocato nel Santos, squadra nella quale ha militato anche Pelè per oltre vent’anni.
A cercare le foto odierne di Juary o di Barbadillo fa un certo effetto, perché entrambi sono diventati pelati, il primo un po’ più conciato del secondo, un’operazione al cuore che l’ha tenuto in bilico qualche anno fa. Juary è del 1959, come Sergio Rubini, ripeto, la salute non è stata dalla sua, Barbadillo addirittura del 1954, a vederlo sembra quasi la controfigura di Samuel L. Jackson, oggi. Miura invece è del 1967, come Lisa Bonet, cinquantotto anni, asciutto, i capelli e i baffi bianchi, l’aria di chi potrebbe interpretare in un film di John Woo il capo della Yakuza con un drago tatuato su tutta la schiena. Non il calciatore più forte del calcio giapponese, in genere è Hidetoshi Nakata a essere indicato per quel ruolo, lui che ha giocato a lungo in Italia con Perugia, Roma, Parma, Fiorentina e Bologna, e non è il calciatore che abbia giocato più partite della storia del calcio, attenzione, quello è il portiere Peter Shilton, nella nazionale Inglese nel già più volte citato Mundial del 1982, circa trecento e passa partite di differenza tra i due, Miura ha da poco superato le mille, ma indubbiamente il calciatore che ha giocato tra i professionisti più a lungo, anche se Cristiano Ronaldo, Modric, Dzeko, Messi stanno ancora tutti lì, ancora distantissimi dai suoi cinquantotto anni, ma comunque attivi. Dico questo mentre mi riecheggiano nelle orecchie le parole di Ernia, al secolo Matteo Professione, classe 1993, che per raccontare il motivo per cui il suo ultimo album, il da poco uscito Per soldi e per amore, suonasse diverso dai precedenti, più introspettivo e anche meno giovanilista, ha usato espressioni come “adulto” o “trentunenne”, arrivando anche a qualcosa come “padre di famiglia”, lì per dire che a trentuno anni, appunto, quasi trentadue, far finta di essere un ragazzino era inutile quanto anche vagamente controproducente, perché nessuno dei ragazzini veri sarebbe mai caduto in quel tipo di ambiguità, i ragazzini si riconoscono ovviamente tra loro. Come dire, a trentun anni sono ormai un uomo maturo, devo comportarmi da tale nella vita come anche nell’arte. Il che è sacrosanto, ci mancherebbe altro, un quattordicenne, io ne ho due in casa, non considererebbe mai giovane un trentunenne, forse neanche un venticinquenne, figuriamoci, ma è anche un voler mettere le mani avanti che lascia abbastanza spiazzati, perché non è che a ventotto, quasi ventinove anni, tanti ne aveva quando è uscito l’album precedente, Io non ho paura, Ernia fosse poi così tanto più giovane, o come tanto più giovane venisse percepito. Come dire: meglio tardi che mai. Del resto, sempre per rimanere nel labile ambito del “vale tutto”, nel 1981 un quarantaquattrenne Bruno Lauzi, con già svariati successi alle spalle, tirava fuori una scanzonata canzone dal titolo Vecchiaccio, sicuramente più ascivibile al folder di brani ironici e leggeri quali O frigideiro, forse anche alle canzoni per bambini quali Johnny Il Bassotto o La Tartaruga, che a canzoni serie quali Ritornerai o Amore caro, amore bello. A quarantaquattro anni, ripeto, Bruno Lauzi, che in effetti nel video appare decisamente anziano con i suoi capelli bianchi e ricci, un fisico non proprio slanciato, incide una canzone anche vagamente dance dal titolo Vecchiaccio, a quarantaquattro anni. E giusto dieci anni dopo, nel 1991, al Festival di Sanremo che poi avrebbe visto vincitore Riccardo Cocciante con Se stiamo insieme, ma che presenterà comunque in classifica classici del nostro pop come Perché lo fai di Marco Masini, terza classificata, Gli altri siamo noi di Umberto Tozzi, quarta, Spunta la luna dal monte di Pierangelo Bertoli e Tadenza, quinti, ma anche Oggi un Dio non ho di Raf, decima, La fotografia di Enzo Jannacci, undicesima, Siamo donne di Sabrina Salerno e Jo Squillo, tredicesima, E la musica va di Eduardo De Crescenzo, quindicesima, e Se io fossi un uomo di Grazia Di Michele, sedicesima, ecco, giusto dieci anni dopo, nel 1991, al Festival di Sanremo che poi avrebbe visto vincitore Riccardo Cocciante con Se stiamo insieme, al secondo posto si sarebbe piazzato un appena quarantenne Renato Zero, lì a interpretare per la prima volta senza trucco e parrucco Spalle al muro, brano sull’arrivo della terza età a lui regalato proprio per la cifra tonda da Mariella Nava. “Spalle al muro quando gli anni son fucili contro”, sì, a quarant’anni. Certo, erano gli anni del lancio di Fonopoli e del ritiro annunciato a gran voce dalle scene, parlo sempre di Renato Zero, pronto a tornare con L’orazero, per festeggiare i cinquant’anni di carriera, ma è chiaro che per Mariella Nava, come per lui stesso, quarant’anni equivaleva a diventare vecchi, “I pensieri tolgono lo spazio alle parole, sguardi bassi e la paura di ritrovarsi soli”. Qualcuno lo dica a Ernia, che a trentun anni ha scoperto di non essere più un ragazzino che può fare trap come se niente fosse, e gli dica che non basta appoggiare la voce su un giro spoglio di piano, frutto di un altro trentunenne che nel mentre è maturato, il producer Charlie Charles, a suo modo dietro il lancio italiano della trap per i suoi lavori passati con Sfera Ebbasta e Ghali, per potersi dire maturi. Buffo che a trentuno, quasi trentadue anni ci si affacci per la prima volta in quello che sembra quasi sia un giardino segreto, come quel palazzone spuntato in un cortile milanese, dalle parti di piazza Aspromonte, chiamato Hidden Garden, appunto, e che ha fatto partite tutto il casino del SalvaMilano, visibilissimo a tutti ma chiamato Giardino Segreto: arrivati a un certo punto si diventa adulti, ma non è una scoperta recentissima. Parlare del rapporto coi genitori, con la sorella, certo è a suo modo un upgrade rispetto i colleghi che parlano di soldi e figa, ma resta comunque un passaggio che in genere viene affrontato quando ci si incammina per il mondo, non certo quando ci si accorge che si è ormai in età da contratto a tempo indeterminato e mutuo. Juary, per dire, a trentadue anni ha smesso di giocare a pallone, andando tecnicamente in pensione. Hai voglia a parlare di gioventù.