Dato che, in questo periodo, Prime Video non ne sbaglia una, dopo “L’estate nei tuoi occhi” è uscito un nuovo grande successo: “The girlfriend”.
The Girlfriend è una serie TV thriller psicologico basata sul romanzo omonimo di Michelle Frances, che vede come protagoniste Robin Wright che interpreta Laura, una madre appartenente all’alta borghesia, donna forte, con un figlio unico che ama molto, ma anche incline a controllare e sospettare, in maniera maniacale e Olivia Cooke che è Cherry, la fidanzata del figlio, ragazza con origini modeste e bugiarda patologica, introducendo uno scontro di classe, percezioni morali, e molta ambiguità.
Le premesse non sono buone, di più, sono ottime.
La serie ha solo sei episodi, tutti rilasciati simultaneamente su Prime Video, che nell’arco di due/tre giorni divori facilmente.
Perché è una di quelle serie che ti tiene incollato e non ti stanca mai, o almeno, a me è successo così.
I temi centrali sono sospetto, gelosia, manipolazione, questioni di classe, inoculazione del dubbio, tutto condito da uno strano rapporto madre e figlio, e la serie alterna due punti di vista.
A volte vediamo il mondo tramite Laura, a volte tramite Cherry, così da confondere lo spettatore su chi abbia ragione.
Fin qui tutto bene, niente da criticare, se non fosse che il pubblico, esattamente come con “L’estate nei tuoi occhi”, non ha provato ad andare oltre con la lettura delle immagini e si è fermato a una misera polarizzazione: Team mamma o Team ragazza?
Da quando The Girlfriend è uscita, si è assistito a questo fenomeno ormai noto, il pubblico che si schiera, senza mezze misure, in due “team”.
Il team Mamma è chi difende Laura, la madre, spesso le sue ragioni vengono viste come nobili, ovvero: proteggere il figlio, salvaguardarlo da qualcuno che potrebbe fargli del male.
E poi c’è il team Fidanzata: chi difende Cherry, la vede come vittima di pregiudizi, di classismo, della gelosia materna. Alcuni la vedono come forte, indipendente, un outsider che sfida l’ordine imposto da Laura.
Questo tipo di schieramento è prevedibile, forse inevitabile, ma è anche riduttivo. Perché quello su cui la serie davvero punta, o almeno su cui si potrebbe e dovrebbe riflettere, è che entrambi i personaggi sono malati, entrambi mostrano comportamenti tossici: ossessione, manipolazione, possessività, ambiguità morale. Eppure il pubblico sembra spesso incapace a riconoscere che nessuno dei due è un eroe, così come nessuno è un cattivo puro, non distinguendo più le sfumature, i grigi che ci sono nel mezzo.
Schierarsi per Laura o per Cherry spinge a una visione manichea: da una parte vediamo la madre ossessionata, dall’altra la fidanzata arrivista. Ma la serie mette in discussione queste categorie. Laura non è solo gelosa, può avere motivazioni reali e Cherry non è solo innocente, può essere manipolatrice, o quantomeno ambigua. Ridurre i personaggi a un’etichetta perde la sfumatura e la complessità della storia.
Parte del fascino di The Girlfriend è proprio il fatto che il confine tra ragione e paranoia sia sfocato. Vediamo la storia da entrambi i lati, siamo portati a dubitare di chi stia dicendo la verità. Al pubblico che insiste nel tifare per uno solo sfugge questa ambiguità che è il cuore del thriller.
In molte discussioni, Cherry è idealizzata, come la ragazza povera che sfida il sistema, mentre Laura demonizzata, la madre potente che non accetta cambiamenti. Ma la serie mostra come traumi, aspettative sociali, insicurezze, vergogne personali possano far scattare meccanismi malsani, il controllo e rivendicazione del potere affettivo.
È a tutti gli effetti un dramma psicologico.
Ecco perché prima citavo L’estate nei tuoi occhi, molti spettatori scelgono “Team Belly” vs “Team Conrad/Jeremiah”, come se fosse solo una questione romantica da tifoseria. Ma spesso il pubblico non vede, o non vuole vedere, i limiti, i difetti, i malintesi, il peso delle aspettative familiari, sociali, la sofferenza che non viene detta.
The Girlfriend ha il merito di impugnare un tema che può sembrare già visto, la rivalità madre vs fidanzata, e lavorarlo fino a renderlo inquietante, moralmente ambiguo, psicologicamente disturbante, il suo vero punto di forza.
La regia che alterna punti di vista, la sceneggiatura che non dà risposte semplici, la recitazione che lascia filtrare fragilità dietro la durezza, sono tutti elementi che invitano lo spettatore a riflettere, non a tifare.
Se il pubblico si limita a schierarsi, perde la sfida che la serie lancia, ovvero il capire che il problema non è solo chi ha ragione, ma che entrambi i personaggi sono danneggiati, intrappolati in paure, e in un rapporto tossico che va oltre la logica del giusto vs sbagliato.
E questo è un vero peccato.