Vicino a dove sono nato, Ancona, si trova una strana basilica, piuttosto visibile per chiunque si trovi a passare lungo la dorsale dell’autostrada A14. Parlo della basilica di Loreto, strana costruzione che ingloba parte della cittadina mariana, costruzione posta sulla cima di una collina non troppo alta affacciata sul mare Adriatico, oggetto di una storia molto cara a chi è votato alla Madonna. Si dice infatti, avrei potuto dire “leggenda vuole”, ma avrei indubbiamente mancato di rispetto a chi appunto a questa storia crede, che all’interno della basilica si trovi la piccola casa di Nazareth nella quale è vissuto Gesù da bambino. Non qualcosa di metaforico, per intendersi, ma proprio quella casa lì, mattone per mattone, portata a Loreto intorno al 1294 dagli angeli. Siccome anche il cattolicesimo è dotato di una buona dose di pragmatismo, preso atto che fatti come questo non siano oggetto di dogmi, quindi non sia “necessario” credere che la storia sia vera, esistono a riguardo due versioni, una spirituale e una, mettiamola così, più umana. Nella prima ci sono questi angeli che prendono a Nazareth la casa di Gesù bambino, quella che era stata di Giuseppe il falegname, padre putativo, prima di prendere in sposa Maria, la scena degli angeli che trasportano la casa di Loreto è rappresentata nella pittura dell’epoca e anche successiva. Nella seconda a far portare la casa di Nazareth fino a Loreto, lì nel bel mezzo della campagna marchigiana, sarebbero sì stati degli angeli, ma con la A maiuscola. La famiglia Angeli, infatti, una ricca dinastia della zona, avrebbe pagato di propria tasca la spedizione in Terra Santa, facendo sì che la casa, smontata pietra per pietra, arrivasse poi fino a vicino il Monte Conero, per poi essere rimontata, con buona pace dei putti e di certe credenze. Di fatto la notte del 10 dicembre nelle Marche si celebra la Notte della Venuta, cioè quella nella quale gli angeli sarebbero arrivati in zona con la casa, e come allora, i contadini della zona sono soliti accendere dei falò, qualcosa di non troppo diversa dalle luci che si trovano lungo le piste di atterraggio dei moderni aeroporti. Evidentemente anche gli angeli avevano bisogno di un aiutino. Chiunque sia entrato dentro la basilica di Loreto, luogo che è meta turistica per molti di quanti si trovino a passare nella mia regione natia, specie nei giorni nei quali il tempo non è tale da consentire di passare troppe ore al mare, avrà visto questa strana costruzione proprio dietro l’altare maggiore, e dopo essersi messo in fila da una delle due porte laterali, sarà potuto entrare dentro la Santa Casa di Loreto, incontrando un microclima assai fresco e vedendo sopra l’altare l’immagine iconica della Madonna Nera di Loreto. Una volta usciti, o attraversando l’angusto spazio della casa o passando sotto la statua della Madonna, dietro l’altare, attraverso uno stretto corridoio, ci si ritrova a assistere a uno stranissimo spettacolo. Lungo tutto il perimetro esterno della Santa Casa, infatti, c’è una doppia scia che in maniera non precisa accompagna le fiancate. Due scie parallele, profonde qualche centimetro, come dei solchi che potrebbero sembrare dei sentieri, non fossero scavati nel marmo. Ecco, si tratta, vuole sempre la storia o leggenda locale, dei solchi lasciati dai milioni e milioni di pellegrini che nel corso dei secoli hanno voluto ripercorrere il perimetro della Santa Casa procedendo in ginocchio. Un lavoro dovuto alla costanza dei pellegrini, e quindi all’usura del loro strisciare sulle ginocchia. Uno spettacolo impressionante, e se non siete devoti ma vi piacciono i dettagli insignificanti, vedere come i solchi procedano sbandando è qualcosa che impressiona forse quasi altrettanto che vedere come la devozione a volta possa essere più forte del marmo stesso.
Non è un caso isolato, questo, parlo di usura e devozione che superano la forza della natura. Chiunque fosse andato a San Pietro, in Vaticano, a Roma, avrà potuto vedere come il ginocchio destro della statua del santo, in bronzo, sia consumato per il tocco e i baci dei pellegrini. Il bronzo non è certo il marmo, ma stiamo parlando sempre di qualcosa di impressionante.
In realtà non volevo parlare di Loreto. Né di spiritualità, tra dogmi e credenze popolari. Discorsi tutti spinosi, che questa calura mi induce a evitare quanto lo stare vicino a bacini d’acqua senza essermi imbevuto di Autan. Volevo parlare, e l’ho già fatto, di due aspetti che mi sembrano invece rilevanti, tanto più in questa nostra strana epoca: di storytelling e di come le parole, come il marmo e il bronzo, potendo anzi contare su una minore resistenza, tendono a usurarsi.
Discorso che per altro si applica perfettamente anche alla parola storytelling, oggi divenuta quasi impresentabile dopo che per anni sembrava un must col quale chiunque, anche il pizzicagnolo di quartiere, dovesse imparare a fare i conti. Sorte che spesso tocca alle parole che diventano di moda, penso a resilienza, empatia, per citarne un paio, talmente usate e abusate da diventare quasi urticanti, quindi private del loro significato al punto che anche il solo citarle ottiene il risultato opposto da quello sperato.
Lo storytelling, o narrazione che dir si voglia, è alla base del nostro essere esseri umani. Siamo dotati di parole, con le parole comunichiamo, e con le parole raccontiamo storie, che servano per i più disparati scopi del caso, dall’intrattenere al dare consiglio o moniti, passando per il tramandare conoscenze che possano poi tornare utili al nostro vivere quotidiano come al nostro stare al mondo con un senso. Solo che oggi viviamo in epoca di immagini, pensate a come i social, che della contemporaneità non sono tanto il media più diffuso, non più di massa in quanto appaltato alla capacità dei singoli di farsi notare, quanto il simbolo più rappresentativo, non sta a me dire qui e ora quanto tempo passiamo sui social e quanto fuori dai social, parlo dei tempo di cui disponiamo attraverso nostre scelte specifiche, oggi viviamo in epoca di immagini, dicevo, pensate a come i social siano diventati da un luogo dove parlare, Facebook, a un luogo dove far vedere foto, reel o video più complessi, quindi la narrazione è diventata giocoforza diversa, spesso indicata come superata (come se i reel e le immagini non potessero o non si trovassero poi a costruire una narrazione, diversa ma pur sempre narrazione). Di fatto si parla di frammentazione, quindi di trame che si sfaldano e procedono appunto per immagini, a strappi, e al contempo si parla di caduta dell’attenzione, quei pochi secondi a disposizione da attirare con immagini come nessuna trama raccontata potrebbe, quindi lo storytelling è passato da soggetto alla moda a oggetto di modernariato, roba superata buona per i mercatini della domenica. Non si leggono più libri, non si tramandano più vecchie storie, i linguaggi tendono a invecchiare a una velocità che neanche la pelle di certe starlette sottoposte per troppo tempo alla luce della ribalta sembra conoscere. Quindi lo storytelling, così tanto sventolato negli ultimi anni, di colpo si è usurato, e anche la parola storytelling si è usurata. Tutti d’accordo, verrebbe da dire. Non fosse che lo storytelling, quindi la narrazione, è parte del nostro essere esseri umani, ripeto, quindi dovremmo tutti essere piuttosto preoccupati di questa usura, o forse dovremmo cercare di guardare con stima e ammirazione, e quindi sostenere, chi allo storytelling si applica, anche in tempi come questi.
È il caso di Dadà, giovane cantautrice napoletana da poco fuori col suo album Core in fabula, dove di storie sotto forma di fiaba, che è una delle forme di narrazione più antica oltre che una delle prime con le quali noi esseri umani andavamo facendo i conti fino a qualche generazione fa, se ne raccontano tante. Core in fabula, infatti, album dove la tradizione napoletana si sposa per altro una contemporaneità musicale già di suo degna di nota, in una commistione di suoni suonati, i legni e le corde trovano un grande spazio negli arrangiamenti, come però anche l’elettronica, si prende la briga oggi di mettere in scena la bellezza, e la parola bellezza mai come in questo caso ha un senso, come sempre capita quando c’è di mezzo Dadà, si prende la briga oggi di mettere in scena la bellezza di sedici fiabe musicali, tutte o quasi frutto totalmente della sua prolifica e bella fantasia, tutte di un livello cui la nostra discografica da tempo non ci ha più abituato. In buona parte cantate e raccontate in napoletano, ma con largo spazio anche all’italiano, e assecondando sonoramente il mood delle storie, come le vere fiabe a volte dolci e più spesso violentemente tragiche, Dadà usa la fiaba per metterci di fronte a storie da affrontare con la massima libertà, siano essere vere, leggende, credenze o puro storytelling poco cambia. Lo stupore, questa in fondo è la mission di chi le fiabe racconta, raggiunto da Dadà, il cui nick name è non a caso “Dadà racconta”, anche grazie al fatto che ogni canzone è accompagnata da un video pensato e realizzato ad hoc, con un immaginario ricchissimo cui, incauta, Dadà ci ha in fondo sempre abituati. Basti pensare al recente progetto Smorfiosa, nel quale la nostra interpretava dodici numeri della smorfia napoletana, per la fotografia di Attilio Cusani, indossando i costumi di Daria D’Ambrosio e con le splendide scenografie di Sara Ricciardi. Una vera performance artistica, quella, come performance artistica è tutta quella che riguarda la messa in scena delle sedici fiabe raccontate in Core in fabula e visibili dentro sedici bellissimi video, squadra che vince non si cambia, si dice nello sport, e anche nell’arte, evidentemente, e se mai voleste sapere che aspetto ha Daria D’Ambrosio, sappiate che è lei la Crista crocifissa nel video di Serpa, uno dei primi usciti di questa covata. Sapere che anche oggi, in questi tempi frammentati e evaporati, con una soglia d’attenzione intorno ai diciotto secondi, ci sono artiste come Dadà, che generosamente divulgano arte e cultura, cesellando ogni minimo dettaglio intorno alle loro opere è qualcosa che commuove. Commuove meno vedere come un progetto tanto ricco e ambizioso, parlo di contenuti e di talento, appunto, quindi di arte, non sia ancora sotto gli occhi e dentro gli orecchi di tutti, la recente apertura del tour italiano dei Massive Attack ci dice come molto spesso i nostri cervelli quando non si danno alla fuga vengano comunque identificati oltreconfine prima ancora che in patria.