Carlo Conti compie il miracolo e salva la musica italiana da Carlo Conti

A Milano non esistono gatti randagi. Almeno, non esistono al centro, ma non esistono neanche nelle zone residenziali, quelli semicentrali, in una delle quali abito con la mia famiglia. Ci sono bar dove puoi andare col tuo gatto, immagino portandolo dentro una di quelle gabbiette di plastica o al limite al guinzaglio, salvo poi liberarlo una volta dentro, bar nei quali puoi andare anche se non hai un tuo gatto o non ne hai uno con te al momento, immagino che se ti stanno sul cazzo i gatti eviterai come la morte di andarci, ma non si sa mai, esistono un sacco di gatti dentro le case, li si vede a volte attraverso le finestre, perché a Milano oltre che i gatti non esistono quasi affatto anche le tende, come nei paesi del nord, ma non esistono gatti randagi, gatti che vivono per i fatti loro in strada, quelli che altrove sono accuditi dalle gattare. Esistono anche i gattili, ovviamente, i ricoveri per gatti, ma niente gatti in strada. Quindi se cammini ti può capitare di vedere cani, tanti cani, tantissimi cani, anche tante cagate per strada, per altro, seppur qui ci sia una certa educazione a riguardo (educazione che consiste nel raccogliere le cagate del proprio cane dentro sacchettini di plastica neri, tenuti a volte dentro scatolette a forma di muso di cane attaccate al guinzaglio, sacchettini neri che poi finiscono dentro i cestini per la spazzatura che si trovano in giro, credo vanificando di brutto il senso di civiltà del gesto di raccoglierle, ma non sottilizziamo). Ci sono tanti, tantissimi cani, ma niente gatti, e ovviamente niente altri tipi di animali, se non saltuariamente qualche scoiattolo, dentro i parchi pubblici, o qualche topo, anche grosso, seppur i topi tendano a non amare il glamour e quindi escono quando sanno di non essere visti.

Figuratevi quindi la sorpresa quando, andando a fare la spesa al supermercato di quartiere più lontano da casa, quello dove vado quando cerco roba anche comune che però negli altri due più vicini casa non è presente, oggi nello specifico i paccheri di Gragnano, ho visto un geco anche piuttosto grassottello sul marciapiede. Dire “ho visto”, confesso, non risponde esattamente alla verità, perché sì, l’ho visto, ma solo perché, mentre stavo camminando con lo sguardo fisso sullo smartphone, una vecchina mi si è scaraventata addosso chiedendomi se secondo me il geco fosse vivo. Come fossi un cazzo di veterinario, o peggio, uno di quegli scienziati che passano il tempo in giro per il mondo alla ricerca di animali in via d’estinzione. Ecco, che io sappia il geco, a Milano, è in via d’estinzione, o forse è proprio già estinto da tempo, e questo è un rarissimo caso di ricomparsa di razze estinte, come è successo in Brasile con il pappagallo Blu cui la Pixar o la Disney ha dedicato il cartoon Rio, prima sparito e poi riapparso. Magari a portarlo, ma qui azzardo una teoria bislacca assolutamente non sorretta da nessuna pezza d’appoggio seria, è stato riportato qui, in città, da quei pappagallini verdi apparsi durante il Covid, ricordo che il parchetto sotto casa mia ne era pieno, come anche il Parco Lambro, ultimamente diventati giganteschi, roba simile a dei gabbiani, solo con la faccia da pappagallo e di colore verde fluo, piuttosto inquietanti. Eccomi a vagheggiare di un viaggio sopra l’oceano di qualche pappagallo verde, razze che ignoro se siano soggette a migrazioni, con nel becco un qualche geco da gettare come le bombe degli avioplani americani su Dresda sul volgere della seconda guerra mondiale, uno arrivato giusto qui, sul marciapiede, e proditoriamente salvato dalla vecchina, prima che io lo schiacciassi camminando distratto. Che poi, a dirla tutta, mica lo so se è vivo, perché a vederlo sembra malconcio, e soprattutto immobile. La vecchina, che invece è in forma, si muove e parla di continuo, mi dice che devo vedere se è vivo, senza spiegarmi come si faccia. Mi dice che in caso devo anche salvarlo, riponendo in me molte più aspettative di quante non me ne ponga io stesso. Non sapendo come fare, perché a vederlo sembra oggettivamente morto, lì, mezzo biancastro sul nero dell’asfalto che a Milano usano per i marciapiedi come per le strade, tiro fuori dal portafogli la mia carta di credito, e la uso per provare a sollevarlo. Operazione non semplice, perché il geco è in effetti vivo, e appena avvicino la carta di credito, a mo di leva, comincia a allungare le zampette, come per volersi muovere. Gesto cui però non da alcun seguito, semplicemente scivolando via dalla suddetta carta, e complicandomi la vita per questi pochi secondi di incontro. La vecchina parla e parla, e intorno a noi si è creato un capannello di gente, immagino che per la nuova legge voluta da Piantedosi potremmo anche essere tutti arrestati, e alla fine io riesco a sollevarlo, a fatica, non perché pesi ma perché appunto si muove, e a porlo nelle mani della tabaccaia lì di fianco, che è uscita e, forse per liberare il marciapiede e ricominciare a avere clientela, si è prodigata nella seconda parte del soccorso, tra gli applausi della gente. La vecchina mi ringrazia, e mi dice che in Liguria, terra dalla quale evidentemente arriva, per altro senza coincidere affatto con la tipologia del ligure chiuso e ostile alla socialità, i gechi portano fortuna, forse ignorando che un po’ in tutto il mondo, almeno in quello che conosco, i gechi portano fortuna, o forse facendomi capire che, a differenza che a Milano, lì i gechi non sono ancora estinti, e che non c’è certo bisogno di un pappagallo verde proveniente dalle Amazzoni per vederne uno, anche in strada. Fortunatamente non allarga il discorso ai gatti, tanto già so come andrebbe a finire. Il fatto che io abbia usato la carta di credito, non per fare acquisti, capitalismo boia, né per preparare una pista di bamba, come mi è capitato di vedere in parecchi film, ma per salvare un geco dal marciapiede, converrete, è metafora potentissima, immagine degna di farsi icona, anche se metafora e icona non saprei dire bene di che.

In realtà non sapevo come togliermi di dosso l’anziana signora ligure, pur avendo a cuore il destino del geco, sia chiaro, e ho preferito agire piuttosto che sentirmi a disagio, il fatto che il geco fosse in effetti vivo è stata scoperta del momento, pensavo più che altro a una specie di veglia funebre a bordo della strada, le luci al neon della tabaccheria a regalarci un tocco surreale.

Credo che, a un paio di settimane dalla fine del Festival possiamo dirlo senza rischi di sparare ragionamenti fittizi a caldo, questa sia la condizione che si è trovato a vivere Carlo Conti alla fine dell’ultimo Festival, da lui diretto e da lui condotto. Accusato, seppur senza troppa veemenza, di aver scelto canzoni scritte dalla solita cricca di autori, è ormai stranoto che undici firme, in svariate formazioni a due o tre, abbiano firmato diciannove delle ventinove canzoni in gara, senza che molti si siano poi concentrati che nove di quegli undici erano pure del medesimo editore, Universal Music Publishing, quello che si è trovato per le mani poteva essere una brutta copia del Festival di Amadeus, che per altro soffriva del medesimo morbo. Invece, presi per i fondelli in corsa i brani con così tante firme dai sorrisetti dello stesso Conti mentre a far battute erano di volta in volta Cristiano Malgioglio, Katia o Follesa o Geppi Cucciari, come se quei nomi lì ci fossero entrati di propria spontanea volontà e non per sua scelta, ecco che la classifica finale è in mano a quel terzo di canzoni che non portano la firma della cricca, o quasi. Non sono firmate da qualcuno di quegli undici il brano di Simone Cristicchi, Quando sarai piccola, quinto classificato, quello di Brunori SaS, L’albero delle noci, che addirittura porta la sola firma di Dario Brunori, classificatosi terzo, di Lucio Corsi, Volevo essere un duro, che porta le sole firme di Lucio e del suo compare Tommaso Ottomano, e quella di Olly, Balorda nostalgia, sì scritta da quattro baldi giovani, nessuno dei quali però presente in altre canzoni. Unica eccezione Fedez, certo, che porta sia la firma di Federica Abbate, con sei brani la più presente tra gli autori in gara, che di Cripo, al secolo Nicola Lazzarin, in gara con tre, e di Alessandro La Cava, altro autore Universal piuttosto gettonato negli ultimi anni.

Uno smacco per chi in qualche modo ha nel tempo perpetuato un sistema di scrittura in catena di montaggio, ammantando a propria difesa una presunta parentela con una medesima modalità che arriverebbe da oltreoceano, uno smacco per mano di un Carlo Conti comunque assolutamente conforme a questo sistema, il fatto che le diciannove canzoni su citate non siano andate altrettanto bene non è certo un suo merito, lui le aveva scelte e portate lì.

Di più, la presenza tra i primi cinque classificati di ben quattro cantautori, Olly, appunto, vincitore, per altro autore di due delle canzoni che meglio avevano funzionato nell’autunno, Per due come noi, con Angelina Mango, e Disperato amore di Achille Lauro, e poi il miracoloso Lucio Corsi, Brunori SaS e Simone Cristicchi, unica eccezione il miracolato Fedez, esibito come un insperato ritorno al cantautorato, alla musica suonata, a una naturalezza, badate bene alle parole, ormai fuori moda, tutti a cantare con l’autotune (come chi ha vinto, appunto), tutti a scrivere in catena di montaggio, nessuno a suonare più strumenti. Ecco, la faccenda degli strumenti è singolare. Perché è vero che Lucio Corsi ci ha regalato un grande momento, suonando non solo il piano ma anche la chitarra, così come Brunori SaS, alla chitarra, Cristicchi non ha suonato per questioni immagino sceniche, ma nei live è solito farlo, e con loro a suonare sono stati davvero in pochissimi, i Modà, tutti, Kekko il solo altro autore singolo di una canzone insieme al cantautore calabrese, e due terzi dei The Kolors, il resto niente, ma anche qui, non è che a scegliere di portare in gara gente che non suona, e che spesso non sa neanche suonare sia stata una forza superiore che poi ha fatto gridare al miracolo tutti, Carlo Conti in testa. A sceglierli è stato sempre e solo lui, oggi indicato come il salvatore della patria, dove per patria si intende il Festival, e quindi la canzone italiana, immaginando chissà che Festival per l’anno prossimo, uno stuolo di cantautori e band lì a affollare il palco dell’Ariston.

E dire che il tanto elogiato/criticato “cambiamento” alla Amadeus era iniziato proprio con lui, Carlo Conti, iniziatore di una piccola rivoluzione con la vittoria nel 2017 di Francesco Gabbani e la sua Occidentali’s Karma su Che sia benedetta di Nostra Signora Fiorella Mannoia, rivoluzione poi confermata da Claudio Baglioni, che con Soldi di Mahmood ha decisamente alzato il tiro, e poi esplosa con Amadeus, con Sanremo che di colpo è diventato Festivalbar.

Carlo conti che ci salva da Carlo Conti, roba dell’altro mondo.

Tutti anche a pensare a chi sarà il prossimo Lucio Corsi, come se aver appena scoperto, parlo del pubblico mainstream, un talento che chi segue la musica già conosceva da una decina d’anni, dovesse diventare una sorta di routine, trovato un talento via che ne dobbiamo avere un altro fresco per le mani in uno zot. Come se io, tornando dal supermercato dove stavo andando quando ho salvato con la mia carta di credito un geco, manco fossi un moderno Gerrad Durrell, mi aggirassi per le vie di Città Studi alla ricerca di altri animali da salvare, con per di più la medaglia al merito di non essere stato io quello a averli messi in pericolo, gettando gechi sui marciapiedi o, che so?, gattini sotto le macchine parcheggiate.

Peggio, come se io mi aggirassi per le strade di Milano gettando gechi spauriti sui marciapiedi, per poi andare a salvarli rendendo felici anziane signore ligure, lì a guardarmi come un salvatore di animali più o meno esotici.

Parafrasando Lucio Corsi, Carlo Conti se ne starà lì gongolante a cantare “Volevo essere Durrell, che gli importa del futuro del mondo”, quando si dice essere al posto giusto nel momento giusto.

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Scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce i. videocast Musicleaks e insieme a sua figlia Lucia Bestiario Pop.

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