Canzoni da divano, divagazioni intorno alla musica di Simona Severini

Ci ho preso gusto, quindi eccomi ancora qui a assecondare il mio classico modo di procedere, che è poi quello che vi ho spiegato giusto l’altro giorno qui essere quello anche che l’algoritmo utilizza per farvi sentire quel che vuole farvi sentire, spesso lasciando intendere che vi fa sentire quel che volete sentire voi.

Si pensa a un punto di partenza, magari immaginando anche un punto di arrivo, e tutto quel che segue arriva strappando di volta in volta, scartando di lato, procedendo di link in link, divagando, errando, sbandando.

Ovviamente in un percorso identificabile come un viaggio è sì importante il punto di partenza, perché ci dice molto di che tipo di viaggio sarà, volendo anche di che tipo di viaggiatore io sia, e di conseguenza siate voi, seduti sul sedile a fianco al mio senza possibilità di scelta, non a caso in quello che colloquialmente è chiamato il “posto del morto”, ma è fondamentale il punto di arrivo, perché si ha un bel dire che il viaggio è più importante di una meta, ma a meno che il viaggio non sia davvero la meta, nel senso che si stia facendo un on the road che poi prevede un tornare a casa, direi che il luogo verso la quale si punta il muso della macchina, se è in macchina che si sta viaggiando, un peso ce l’ha, eccome. E comunque, anche casa propria, nel caso si stia facendo l’on the road di cui sopra, è un ottimo punto di arrivo, meritevole della nostra attenzione. Figuriamoci, c’è pure chi ha deciso di raccontare proprio la casa, come fosse un panorama o un paesaggio, penso a Bill Bryson e al suo Breve storia della vita privata, o chi si è concentrato su una singola camera, e qui vado ancora più indietro nel tempo parlando di Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre. Il libro di de Maistre, per altro, datato 1794, è considerato insieme alle opere di scritte all’inizio del medesimo secolo, sia Robinson Crosoè che Diario dell’anno della peste, vengono considerati antesignani dei testi degli psicogeografi, e ho spiegato appunto la volta scorsa che il mio modo di procedere, anche non parlando di luoghi, è il medesimo di Guy Debord e soci, senza ombra di dubbio.

Questo infatti non è un vero e proprio viaggio, nel senso che non sto scrivendo un reportage di un viaggi reale, compiuto andando fisicamente da qualche parte, né un viaggio metaforico, quanto piuttosto uno spostarsi da un pensiero all’altro, inseguendo l’idea di arrivare a parlare di un determinato argomento parlandone già mentre si sta affrontando altro, quindi un viaggio psicogeografico, dove da qualche parte si trova qualcosa attinente al mondo della musica, che è un po’ il continente che ho deciso di esplorare in questa vita.

A questo punto, credo, potrei dire dove voglio arrivare, tanto per giocare a carte scoperte. È noto a chi mi legge abitualmente che non arrivo mai al punto, o ci arrivo decisamente molto tardi, ma è anche noto, pure a chi non mi legge abitualmente, che ci sono i titoli e le foto di copertina a lasciare almeno intuire a cosa si vuole arrivare, anche se nel caso dei miei pezzi, io li chiamo così, come fossero canzoni, anche i titoli sono spesso pretenziosamente letterari e non sempre si capisce molto più di quanto non si capisca leggendo tutto il resto. Quindi non dichiarerò dove voglio arrivare, come fosse un viaggio alla cieca, a sorpresa, io lì a bendarvi gli occhi, farvi salire in auto, aiutandovi a mettere la cintura, il “posto del morto” non deve necessariamente portare alla morte di chi si siede, e poi a partire, intrattenendovi chiacchierando mentre guido, questa sì una immagine coerente al tutto e anche piuttosto efficace.

In realtà credo che l’idea del viaggio in auto, per quanto coerente e efficace, uscirà di scena proprio adesso, perché se dovessi allestire un parallelo qui e ora non sarebbe certo a Sulla strada di Jack Kerouac, o spostando l’azione su due ruote, a Lo zen e l’arte della manutenzione della moto di Robert Pirsig, e so di aver tirato in ballo due classici della letteratura americana del Novecento, mica bruscolini, quanto piuttosto proprio al libro di Xavier de Maistre, che per intendersi scrisse quel testo perché costretto a stare chiuso nella sua stanza in quanto agli arresti domiciliari. Parlando di camera, o di stanza, qui mi piace vincere facile, potrei buttare qui sul tavolo un sacco di suggestioni differenti, tanto voi non sapete poi dove voglio arrivare, le prendereste tutte per buone assecondando quel patto scrittore/lettore che questo prevede. Potrei, che so?, citare Il cielo in una stanza di Gino Paoli, e sarei ovviamente e banalmente costretto a parlare di come quella che viene considerata a ragione una delle più romantiche canzoni d’amore parli in realtà di un coito con una prostituta, i soffitti viola, lo sanno anche i muri, erano quelli dei bordelli. Oppure, tanto per guardare verso il basso e compiere un perfetto esercizio di postmodernismo, potrei citare Camera 209 di Alessandra Amoroso, tristemente, si fa per dire, divenuta nota anche per chi non ama la cantante salentina, o semplicemente no la segue, per la nota parodia divenuta viralissima sui social, Tik Tok in testa, quella che vedeva il testo trasformato in “mi sveglio ancora cacata”. Oppure potrei spostare il tutto verso l’alternative, e tirare in ballo l’esordio dei Massimo Volume, band che si potrebbe definire seminale, pensando poi a realtà quali Offlaga Disco Pax o Le Luci della Centrale Elettrica, titolo dell’opera: Stanze. Un album del 1993, uscito mica a caso per la Underground Records, cui seguirà poi la firma per la WEA, figlio di un accordo con Valerio Soave della Mescal, Mescal che aveva come altro socio Luciano Ligabue, a sua volta nel roster della Wea. Non citare che la batterista del gruppo, unica presente sin da principio in compagnia del cantante/bassista Emidio Clementi, detto Mimì, Vittoria Burattini, era la mia compagna di banco alle superiori, lei al momento impegnata nel duo Bono/Burattini, loro il pregevole Suono in un tempo trasfigurato, del 2022, mentre Mimì, così lo chiamano tutti, è perennemente impegnato in side project, si tratti di romanzi o di album in compagnia altrui, ultimo in ordine di tempo Motel Chronicles in compagnia di Corrado Nuccini dei Giardini di Mirò, terzo lavoro in coppia dopo Notturno americano e Quattro Quartetto, lavoro Motel Chronicles, guarda te, ambientato prevalentemente dentro stanze di motel. Del resto il primo album fuori dai Massimo Volume lavorato dal nostro è stato ormai ventuno anni fa El Muniria, con lui nella line-up anche Dario Parisini dei Disciplinatha e Massimo Carozzi. Titolo del loro unico album, registrato presso l’hotel El Muniria di Tangeri nel quale avevano soggiornato in passato gli scrittori della beat generation William Burroughs, Allen Ginsberg, Brion Gysin e lo stesso Jack Kerouac, oltre che Tennessee Williams, Paul Bowles, Truman Capote e anche Gore Vidal, titolo del loro unico album, dicevo, Stanza 218. La camera nella quale Burroughs scrisse, poi aiutato a assemblare il tutto da Kerouac, Il pasto nudo, era la numero 9, ma va bene lo stesso. Anche Brian Jones passò da Tangeri, quando poi andò a incidere uno dei primi album di world music al mondo, Brian Jones Presents the Pipes of Pan at Joujouka, e tanto per dirla tutta proprio mentre sto scrivendo queste parole a Tangeri c’è anche mia figlia Lucia, che come me scrive per questa testata, lì per faccende legate alla sua tesi di laurea all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tornando però a parlare di musica legata a camere e stanze, lasciando volutamente fuori la “musica da camera”, che poi sarebbe un filone della musica classica nel quale gli strumenti da orchestra trovano invece un ruolo solista, proprio perché musica composta per essere suonata in una camera e non in un teatro, non posso che andare a citare la musica indie, che nelle camerette degli artisti sembrano spesso registrate tanto suonano sciatte e basiche, andando a indicare nell’Antologia della cameretta de L’officina Camomilla l’archetipo assoluto. La band di Francesco De Leo, infatti, ha così intitolato una raccolta di demo, cover, e versioni alternative o strumentali dei brani editi, un centinaio in tutti. Il fatto che De Leo abiti a pochi passi da casa mia, ne ho parlato tempo fa, quando ha avuto una rissa con Calcutta, e ne ho parlato perché anche Calcutta ha a lungo frequentato la zona, visto che sempre in zona abita Dardust, al secolo Dario Faini, l’aneddoto di un me con indosso una t-shirt gialla con la faccia di Spongebob che corro dietro a Calcutta chiamandolo per nome “Edoardo”, e Calcutta che scappa spaventato, vai a sapere perché, è parte delle leggende metropolitane del genere, del resto l’autore di Frosinone o Cosa ti amo a fare, ha più volte litigato con me sui social, arrivando addirittura a pubblicare in anteprima il videoclip di Oroscopo sulla mia pagina Facebook, proprio come sfida, dicendo “Questo qui di arrangiamento può andare?”, per rispondere alle mie critiche di sciatteria. Lo so, sto flexando, noi rockstar siam fatte così, almeno non mi drogo come Brian Jones e non finisco annegato in piscina col cuore spezzato per via di Anita Pallenberg, io. Sto andando fuori tema, direbbe Annarella dei CCCP, e questo è vero bullismo da parte mia, ma era per scherzare, avendo io tirato in ballo un sacco di input, non fatemi star qui a fare un classico recap. Talmente tanti input che, parlando di musica indie e indicando l’Officina Camomilla e la sua antologia come archetipo, ci ho pensato solo ora, ho dimenticato di citare le cover fatte proprio nella sua camera da Asia Ghergo come altro archetipo, lei a semplificare quanto già semplice era nato fino poi arrivare a eseguire quelle versioni da cameretta fino al Forum di Assago, in apertura di quegli stessi artisti da lei coverizzati, gente come Lo Stato Sociale, per dire. Va beh, ora l’ho citata, in effetti. E parlando di camere, sempre giocando tra alto e basso, non posso certo non citare Running on Empty di Jackson Browne, album fenomenale scritto durante un tour, in presa diretta, a volte sul palco, durante i concerti, o anche prima e dopo i concerti, o scritto nel tour bus o, appunto, nelle camere d’albergo, la famosa Una città per cantare, traduzione della The Road di Danny O’Keefe da lui interpreta nell’album ben racconta quella vita, al pari della sua The Load-Out. Di tale fatta sarà tanti anni dopo sarà New Adventures in Hi-Fi dei R.E.M., registrato durante il tour del 1995 e uscito l’anno seguente, anche se in questo caso le canzoni verranno registrate solo in due casi durante i live, altre volte durante il sound-check, e per il resto in vari studi strada facendo, niente camere d’albergo ma medesimo spirito. Nel 1982, invece, Bruce Springsteen si chiuderà nella sua casa in Nebraska e lì inciderà usando un registratore a quattro piste quel gioiello che è Nebraska, capostipite della musica lo-fi, come vedete a parlar di canzoni fatte in casa si finisce davvero per spaziare parecchio. Oggi, poi, molti hanno gli studi in casa, visto che gli studi coi banchi mixer non usano quasi più, quindi il discorso si potrebbe fare infinito, mentre io mi sono già stancato del giochino che io stesso ho architettato per voi. Comunque provateci voi a tenere insieme Paul Bowles de Il the nel deserto con la musica da camera o Nebraska di Bruce Springsteen piazzando la rissa tra Calcutta e De Leo al Mi Ami o la batterista dei Massimo Volume che stava nel banco di fianco al mio al liceo nel mezzo, se ci riuscite.

Ma il viaggio che stiamo facendo, io a guidare, voi bendati e seduti al mio fianco, nel “posto del morto”, è in realtà un viaggio da fermi, da non confondere coi Viaggi da Fermo di Angelo Ferracuti, in quel caso a giocare sulla sua città di provenienza, appunto Fermo, nella mia regione natale, le Marche, nello specifico un viaggio sopra il divano. Il mio divano, ovviamente, che come il divano di Homer Simpson, quello nel quale il giallo pater familias americano per antonomasia bivaccava, è in qualche modo il luogo ideale dal quale guardare il mondo, la televisione posta di fronte, come lo stereo, tre porta finestre affacciate su Milano a circondarlo.

Un divano, quindi, questo il territorio nel quale ci stiamo muovendo.

Se metti su Google Canzone+divano, ovviamente l’ho fatto, vi saltano fuori svariate canzoni, molte sconosciute. Se invece specificate che la parola divano deve essere contenuta nel testo, immagino che i più evoluti sostituiranno Google con ChatGPT, poco cambia, da Disperato erotico stomp di Lucio Dalla, “Ho fatto le scale tre alla volta/ Mi son steso sul divano/ Ho chiuso un poco gli occhi/ è partita la mia mano”, a Ti amo di Umberto Tozzi, “Per me che senza Gloria/ con te nuda sul divano/ faccio stelle di cartone”, in pratica uno che si fa una sega e uno a cui in astinenza da cocaina non gli tira più, passando per versi più ricercati, come l’Arisa sempre nuda di Potevi fare di più, scritta per lei da Gigi D’Alessio, “Non importa se son vestita o son nuda/ se da sopra il divano più niente ti schioda” o il Niccolò Fabi malinconico e struggente di Facciamo Finta che canta “Facciamo finta che io torno a casa la sera/ e io ti trovo ancora sul nostro divano blu/ Facciamo finta che poi ci abbracciamo/ E non ci lasciamo più” fino al Vasco Rossi ormai imborghesito di Come nelle favole, “Io e te seduti sul divano/ parlar del più o del meno”. Poi, ovvio, ci sono altri titoli, meno rilevanti, e addirittura c’è un gruppo che si chiama Couch, divano in inglese, quindi se provate a cercare Couch Songs o Couch Music è di loro che vi troverete a leggere.

Non mancano, e come potrebbero mancare?, i tanti riferimenti a format che intorno a un divano ruotano, del resto anche Musicleaks si svolge con me e gli ospiti seduti su due divani, non dico niente di particolarmente originale. L’originalità, ci avrete fatto caso, è concetto che mi è molto caro, sempre al centro della mia attenzione. E siccome parlo di attenzione, ho ben chiaro che dopo oltre duemila e trecento parole forse è arrivato il caso di procedere a passo veloce verso il finale, quando questo dibattersi e scartare qui sopra il mio divano prevede una qualche forma di arrivo. Il mio divano, c’è una canzone del 2019 che si intitola proprio così, Sul mio divano. Una canzone di Marianne Mirage, contenuta nel suo album Vite private, proprio recentemente la cantautrice romagnola è tornata a pubblicare Teatro, suo nuovo lavoro. Marianne Mirage è un personaggio decisamente interessante. Al suo esordio, una sorta di blues woman con uno stile internazionale e una estetica affascinante, una cascata di capelli ricci a renderla facilmente riconoscibile, se ne parlava come una delle Best Next Thing, come a volte capita in discografia. A Joan Thiele, per dire, passata recentemente dal Festival di Sanremo, è successo per oltre dieci anni, e forse sta succedendo ancora oggi. Comunque Marianne Mirage si è subito dimostrata interessante, poi si è un po’ eclissata, stando ai social più interessata alla meditazione e a qualcosa che, da ignorante, riconduco a un qualche tipo di yoga, che alla musica. Spesso anche a qualcosa che riconduco allo yoga o simili che ruota intorno all’erotismo, anche senza cantare una certa sexitudine le è sempre rimasta appiccicata addosso. E ora Teatro, un nuovo lavoro e un nuovo spettacolo, manco a dirlo, teatrale. Ma non di lei o di Sul mio divano che volevo parlare, pur avendolo fatto. Come, nonostante le tensioni, le guerre, la piazza, non è di Sul divano occidentale, di Vinicio Capossela, da 13 canzoni urgenti, che voglio parlare. Sul divano occidentale dove il tema è quello del nostro starcene inerti sul divano a guardare il mondo, esattamente il contrario di quel che volevo dire io, che voglio dire io, perché credo, invece, lo credo a ragione, che dal divano e sul divano si possa eccome essere parte del mondo, facendo il proprio, sempre che di un proprio che si possa fare da un divano si tratti. Io scrivo, e parlo, e penso, quindi sì, posso farlo dal divano, amo farlo dal divano, come ama farlo dal divano, scrivere e anche suonare e anche cantare, una cantautrice che molto amo, e molto ammiro, Simona Severini. Ho conosciuto Simona, artisticamente e di persona, ormai una vita fa, la vita dei miei gemelli Francesco e Chiara nello specifico, all’incirca all’inizio del 2021 (i gemelli sono di settembre 2011). È successo tramite colei che ai tempi divideva con lei un progetto musicale molto interessante, Irene Maggi, in arte Airin, Le Pinne il nome del progetto condiviso. Io avevo conosciuto Airin in occasione della pubblicazione del progetto Anatomia Femminile, una antologia di canzoni inedite scritte da cantautrici della scena indipendente sul tema del corpo femminile. In pratica ogni cantautrice aveva scelto una parte del corpo e su quella parte aveva composto una canzone che servisse per raccontare cosa significava essere donna in Italia e non solo in Italia allora, progetto nato dalla mia incapacità di spiegare a mia figlia grande, ai tempi di dieci anni, cosa la stava per aspettare. Per intendersi, erano gli anni delle cene eleganti e delle Olgettine, quindi del movimento Se non ora quando e del documentario della Zanardo Il corpo della donna, diciamo non esattamente un periodo irrilevante. Le cantautrici coinvolte erano ventitré, e a tutte poi Zoe Vincenti, che un tempo era stata la cantante delle Vertigini, ma già allora era divenuta una bravissima fotografa, aveva fatto uno scatto artistico che rappresentasse dal suo punto di vista la parte del corpo e il tema scelto, il tutto era poi finito nel libro che accompagnava il cd, libro scritto da me, come anche da me, anche da me, era stata scritta la canzone Quello che gli occhi, cantata da Andrea Mirò. Airin era una delle ventitré artiste coinvolte, e aveva scritto e cantato per l’occasione La volta del cielo, dedicato alle curve, non quindi una singola parte anatomica, quanto piuttosto una caratteristica. Per presentare il progetto alcune o tutte le cantautrici coinvolte avevano preso parte a tre maxi eventi, il primo era stato il Festival Parola Cantata di Brugherio, diretto da Giò dei La Crus, poi era stata la volta di Anatomia Femminile al Roseto di Villa reale a Monza, e infine una serata concerto all’Arci Bellezza, poi il progetto era in effetti uscito, il giorno prima della nascita dei miei gemelli, e io non avevo preso parte per questo alla presentazione al Mei di Faenza, lasciando che da lì in poi la cosa viaggiasse da sola. E di strada, in effetti, Anatomia Femminile ne ha fatta parecchia, perché a quella prima antologia ne sono seguite altre due, negli anni, una doppia e una tripla, e poi è stata la volta del Festivalino di Anatomia Femminile e di tutta una serie di eventi parenti stretti. Ma è di Simona Severini e del divano che sto parlando, che diamine. Simona ha preso parte con Airin, insieme Le Pinne, alla serata all’Arci Bellezza, e io sono rimasto sconvolto non solo e non tanto dalla loro sintonia sul palco, dietro un’apparente disinteresse al trovarcisi sopra, un’ironia spiccata, era chiaro un talento enorme, quanto piuttosto alla sua e loro capacità di far propria una situazione di suo piuttosto caotica, l’Arci Bellezza è un gran posto, ma in una sera d’estate ci si distrae parecchio. Le Pinne, da quel momento, sono diventate una mia piccola ossessione, anche se dopo l’esordio di Le cose gialle è arrivato Avete vinto voi, anno del Signore 2016, poi più nulla. Nel tempo ho conosciuto meglio anche Simona, che è non solo una grande cantante, ma pure una grande chitarrista, il jazz il suo campo d’azione preferito. Una artista che ha lavorato, in questi anni, a tanti progetti diversi, arrivando pure a prendere parte alle semifinali di Sanremo Giovani, era il 2019, la canzone Una cosa bella è a lungo stata la suoneria del mio cellulare. Quella canzone è poi finita nel suo EP Ipotesi, il primo pensato come squisitamente pop, gli altri suoi lavori, dall’esordio del 2010 con La Belle Vie, dedicato all’artista francese Gabriel Fauré, a quelli che l’hanno vista collaborare con Enrico Pieranunzi o Giorgio Gaslini, per non dire del suo trio Fedra, sono tutti decisamente più orientati verso il jazz, ripeto. Il motivo per cui mi ritrovo qui e ora a parlare di Simona Severini, dopo avervi accompagnato in un giro lungo e spero panoramico, è che motivi che ho poi scoperto parlandole, quasi sempre le foto in posa di Simona Severini, quelle a uso stampa, ma anche quelle che finiscono sui social, la vedono su un qualche divano. Le ho detto del mio amore per i divani, quello per la sua musica già lo conosce, e ci siamo ritrovati parte di un insieme non so quanto ampio, comunque piuttosto compatto: gli amanti del divano. Le ho anche chiesto lumi riguardo un eventuale ritorno de Le Pinne, ma lo ha escluso categoricamente, perché Airin non esiste più, Irene ha lasciato la musica e oggi fa altro, fatto che ho accolto con dolore. Mentre è con perplessità che ho accolto la notizia shock che ultimamente, questo me l’ha detto giusto ieri Simona, le è capitato di essere fotografata in piedi, davvero stiamo vivendo tempi inquieti e senza più certezze. Se volete qualcosa di certo, cioè di incontrare una artista degna di questo nome, andatevela a sentire dal vivo, se capita dalle vostre parti, e recuperate tutto quel che potete di suo, anche Le Pinne, ovviamente. Al momento è al lavoro su nuovi progetti, mi ha anche detto, che presto mi farà ascoltare. Ovviamente lo farò dal mio divano, tanto questo nostro viaggio da fermi insieme è arrivato al termine, da questo momento in poi torna a essere soltanto mio.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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