Sono passati ormai oltre centodieci anni da che Edgar Lee Masters ha dato alle stampe la sua opera più nota, L’antologia di Spoon River. Una raccolta di duecentotredici poesie, poi divenute duecentoquarantotto nella versione definitiva, che raccontano in maniera originale la storia dell’omonimo paesino, inventato. L’idea dell’autore americano è stata di dar voce ai morti, letteralmente, scrivendo quelli che erano gli epitaffi dei paesani seppelliti nel cimitero di questo posto di provincia, lì a fianco all’omonimo fiume, invece realmente esistito. Un modo indubbiamente originale per dar vita a un racconto corale, seppur sotto forma di poesia, e che non a caso è entrato nella storia della letteratura mondiale. E non solo. Perché nel 1971 un trentunenne Fabrizio De Andrè, coadiuvato da Fernanda Pivano, che nel 1945 aveva tradotto la prima edizione del libro in Italia, per Einaudi, decide di dar vita a un album che a Spoon River è dichiaratamente ispirato, “Non al denaro non all’amore né al cielo”, lavoro composto di nove tracce, tutte ispirati a personaggi dell’opera di Edgar Lee Masters. Nel 2005, poi, Morgan, dando vita a sua volta a un’operazione singolare, pubblicherà la propria versione, in realtà piuttosto fedele all’originale, dell’album. Ma qui non si parla di De Andrè né di Morgan, e a dirla tutta neanche di Edgar Lee Masters, almeno non direttamente.

La prima edizione dell’Antologia di Spoon River che mi è capitata sottomano è quella che nel 1974 ha tirato fuori Newton Compton, per la traduzione di Letizia Ciotti Miller. Ce la devo ancora avere da qualche parte, anche se quella che ho trovato più facilmente, lì in mezzo ai libri americano del Novecento, è quella uscita una ventina di anni dopo per gli Oscar Mondadori, con la traduzione di Antonio Porta. Entrambe queste edizioni, e non credo sia una casualità, hanno la medesima immagine di copertina, nonostante gli editori siano differenti, una riproduzione chissà se autorizzata di American Gothic di Grant Wood. Un quadro piuttosto saccheggiato, quello di Grant, sicuramente ho sempre nella medesima sezione della mia libreria almeno un altro paio di libri con su quel quadro, come il Gotico americano di William Gaddis uscito per Leonardo, vado a memoria.

American Gothic di Grant Wood, magari il titolo vi potrebbe dir poco, è quel famosissimo quadro del 1930 che mostra una coppia di contadini, lui sulla sinistra che fissa chi guarda, un paio di occhialini tondi a dare movimento a un viso magro e allungato che ricorda William S. Burroughs, un forcone in mano, lei, decisamente più giovane, a fissare da dietro lui, sullo sfondo una classica casa di campagna. Lo stile della casa sullo sfondo è quello del Carpenter Gothic, di qui il titolo, quella ritratta, nello specifico, si trovava a Eldon, in Iowa. A dirla tutta, Gotico Americano di Gaddis, uscito nel 1985 nella traduzione di Vincenzo Mantovani per Leonardo, si intitolava originalmente proprio Carpenter’s Gothic, l’idea di cambiare il titolo venne proprio nel momento in cui si scelse di usare come copertina Gotico Americano di Wood. Io l’ho visto dal vivo, presso l’Art Institute di Chicago, nel viaggio coast to coast che ho fatto nel 2000 in compagnia della cantautrice Cristina Donà, poi finita nel nostro libro God Less America. Si trova nella medesima sala dove c’è Nighthawks di Edward Hopper, anche questo quadro famosissimo che mostra dall’esterno la scena piuttosto desolata di un bar notturno, di qui il titolo, un tizio solitario al bancone, una coppia sul lato opposto, il barista indaffarato da un’altra parte. Anche Hopper ha involontariamente legato il suo nome a Edgar Lee Masters, almeno in Italia, perché nel 1986 Rizzoli ha pubblicato la propria edizione dell’Antologia di Spoon River, con traduzione di Alberto Rossati, e in copertina ci ha messo House by the Railroad, opera di Hopper del 1942 che riproduce, appunto, una classica casa in legno a due piani, vista lungo la strada, i titoli a volte sanno essere estremamente didascalici.

Chi invece parrebbe non essere troppo didascalico è chi sta scrivendo queste parole, che poi sarei io, perché il titolo e anche la foto di copertina di questo pezzo rimanda a tutt’altro, la faccia è quella di Enzo Carella, altro nome che temo ai più potrebbe dir poco e che mi auguro proprio l’opera di cui andrò a parlare, anzi, di cui sto già a mio modo parlando sin dalla prima riga di questo pezzo, contribuirà a rendere un pochino più noto. Perché Simone Avincola, pregevole e talentuoso cantautore e divulgatore culturale che ha comodamente scelto come nome d’arte il suo solo cognome, Avincola, appunto, ha da poco tirato fuori una doppia opera proprio a Enzo Carella dedicata, un libro dal titolo “Enzo Carella- Dolce tu per tu” e un album di cover di canzoni di Enzo Carella che si intitola “Avincola canta Carella”. Un lavoro composito e complesso atto proprio a rimettere la figura e le canzoni di un cantautore troppo a lungo rimasto nel dimenticatoio al centro della scena, sempre che sia possibile porre chicchessia oggi al centro di una fantomatica scena, in questi tempi frammentari e distratti nei quali viviamo. Se nell’album Avincola opta per una rilettura molto fedele all’originale di ben quattordici canzoni del cantautore romano, è vero, anche Avincola è romano, ma qui parlavo di Carella senza volerne ripetere il nome, con quattro featuring di gran valore, Ciliari in Malamore, Anna Castiglia in Amara, Mille in Parigi e Dente in Mare sopra e sotto. Un lavoro di recupero di un repertorio incredibile, poi ci arrivo, con una serie di composizioni originaliassime e attuali ancora oggi, e con dei testi pazzeschi di quel Pasquale Panella che proprio grazie ai testi di Carella approderà al fianco di Lucio Battisti nel post-Mogol, l’era dei famosi Battisti bianchi. Avincola ha avuto modo di collaborare con Panella di recente, di qui l’idea di questo recupero prodigioso di Carella, quando ha musicato la poesia Barrì che Panella ha scritto come risposta a una poesia di Morgan per il libro Parole d’aMorgan, altra opera originale e anche vagamente delirante. Come potete vedere ci sono corsi e ricorsi singolari, in questa storia. Avincola che incontra Panella e decide di raccontare la storia e la musica di un cantautore con cui Panella ha collaborato, rimasto incredibilmente fuori da ogni narrazione negli ultimi anni, Morgan che ha in qualche modo permesso questo primo incontro, e che già avevamo incontrato parlando di Edgar Lee Masters e la sua Antologia di Spoon River.

E a proposito, immagino che qualcuno si starà legittimamente chiedendo che ci azzecchino le storie inventate dei duecentoquarantotto ospiti del cimitero del paesino a sua volta inventato di Spoon River, paesino inventato che prende il nome dal vero Spoon River, fiume che scorre vicino a Lewiston, paese nel quale Edgar Lee Masters visse e che ispirò l’immaginario alla base del libro in questione, Lewiston che si trova in Illinois, come Chicago, città nel cui Institute of Arts si trova American Gothic di Grant Wood, quadro notissimo finito in copertina di un paio di note edizioni italiane del medesimo. Se qualcuno se lo starà legittimamente chiedendo, o anche se non se lo starà chiedendo, ecco la spiegazione: se il disco Avincola canta Carella è piuttosto fedele all’originale, immagino per rispetto di Carella stesso e anche per una contiguità artistica tra Avincola e l’omaggiato, il libro “Enzo Carella- Dolce tu per tu” è una antologia di voci atte a raccontare la storia del nostro, una polifonia nella quale viene costruita la vicenda umana e artistica di un autore che ci ha lasciato un patrimonio musicale assolutamente da riscoprire. L’idea di scrivere una biografia, e una biografia che sia anche una fenomenologia, lasciando che a parlare siano coloro che con il protagonista del libro hanno avuto molto a che fare, a vario titolo, non è un espediente originale inventato da Avincola, certo, ma va detto che costruire una polifonia è sempre qualcosa di difficile, se non di quasi suicida. Avincola ci riesce alla perfezione, tenendo il lettore incollato alla pagina anche laddove i nomi andati a incontrare, Avincola è presente nel racconto proprio nei raccordi tra le varie voci, lui in motorino che si sposta per Roma, lui che aspetta al tavolo di un bar, non sempre potrebbero risultare rilevanti. Ma una polifonia è una polifonia, e per mettere insieme un panorama avvincente sono necessari anche i dettagli marginali. Del resto che Avincola fosse un bravo narratore già lo sapevamo, dalle sue canzoni, indubbiamente, ma anche dal documentario che aveva dedicato anni fa a Stefano Rosso, altro cantautore romano troppo dimenticato (se ne è tristemente parlato di recente perché anche uno dei suoi figli, il rapper Jesto, è morto prematuramente).

Va beh, dirà forse sempre qualcuno, ma dicci qualcosa di più su questo Enzo Carella, perché va bene buttarci al buio, ma come cantava Riccardo Cocciante in La grande avventura, “e nel saltar vorrei la tua mano perché/ avrò meno paura insieme a te” (oh, ci ho infilato anche Cocciante).

Eccoci.

Nato nel 1952 a Roma e scoperto artisticamente poco dopo aver compiuto vent’anni da Vincenzo Micocci, sì, il Vincenzo che Alberto Fortis voleva ammazzare nel suo disco d’esordio, altro capolavoro che andrebbe assolutamente recuperato, Carella comincia una importante collaborazione con un poeta e autore di teatro d’avanguardia che proprio con lui incontra un primo successo commerciale, Pasquale Panella, il brano in questione è Malamore, contenuto nell’album d’esordio Vocazione.

In sostanza è grazie all’incontro con Carella che Panella diventerà uno dei parolieri più importanti della nostra storia musicale, mai abbastanza celebrato per il lavoro fatto con Lucio Battisti, certamente, a lui si devono le liriche di Don Giovanni, L’apparenza, La sposa occidentale, Cosa succederà alla ragazza e Hegel, non dimentichiamo che a Panella si devono anche altre perle del nostro pop, da Canzoni di Mietta (suoi i versi “Quello che capita nelle canzoni non può succedere in nessun posto del mondo”) a Vattene amore, della stessa Mietta con Minghi, Minghi per cui ha scritto tra le altre La vita mia, sotto il falso nome Vanda di Paolo, pensate alla bellezza di versi quali “Ti sei intristita e poi, poi ti sei stranita e non dici più che bel tempo sei tu. Infatti piove”, come sue sono i testi di In amore di Morandi con Barbara Cola, di Blu di Zucchero, di Giulietta di Mango, di Processo a me stessa di Anna Oxa, oltre a decine di altre canzoni e le traduzioni italiane delle due opere di Riccardo Cocciante Notre Dame de Paris e Giulietta e Romeo.

Un genio vero, quello di Panella, già solo l’essersi inventato il trottolino amoroso du-du-du-da-da-dà varrebbe una carriera, stolto chi considera quel verso qualcosa di sciocco.

Con Carella, va detto, come Battisti appassionato di musica black e di quel pop sofisticato che aveva negli Stealy Dan i propri alfieri, la band di Donald Fagen e Walter Becker è stato vera matrice di quel mix di pop, soul e venature black che saranno ossatura di molto pop degli anni Ottanta, e anche molto appassionato dello stesso Battisti, Panella costituirà una coppia di fatto molto affiatata, capace di dare un senso lirico a musiche in bilico tra funky e pop, Barbara in questo credo sia un esempio perfetto di come lo si possa fare anche in italiano.

Ottimo compositore, oltre che gran bravo chitarrista, Carella ha una voce, questa sì abbastanza battistiana, che incontrando le parole altissime e ironiche di Panella si fa stralunata, iconica, sempre e comunque a fuoco su pezzi che sono una vera girandola di possibilità espresse. Sì, perché Carella, specie nei primi tre lavori sulla lunga distanza, Vocazione, del 1977, Barbara e altri Carella, del 1979, e Sfinge, del 1981, riesce a fare una cosa che nel pop, almeno nel pop oggi, è praticamente impossibile, stupire.

Capace di muoversi sia sul fronte della scrittura che su quello degli arrangiamenti, infatti, tira fuori dal cilindro soluzioni anomale, assoli bizzarri ma molto ben eseguiti, soluzioni armoniche affatto banali, sound che spaziano dal funky all’elettronica, musiche perfette per sposarsi coi testi di Panella, mai come con lui capace di dare alla forma canzone trovate e soluzioni così rivoluzionarie. Basti pensare al titolo di un successivo album, arrivato dopo un ritiro che lo vedrà lontano dalle scene per una decina d’anni e un ritorno non proprio fortunatissimo come Carella de Carellis, del 1992, quel Se non sarei nessuno: l’Odissea di Panella e Carella, rilettura pop e filosofica della storia di Ulisse, roba che farebbe impallidire qualsiasi artista indie in libera circolazione oggi.

Carella vivrà un lungo periodo lontano dalle scene, incapace di tenere il passo con la musica che nel mentre si sarà fatta largo nelle classifiche, forse, o più semplicemente disilluso da un mondo che non gli ha mai riconosciuto un talento unico.

Nel 2011 arriverà un arresto per detenzione di sostanze stupefacenti, e nel 2017 la morte per arresto cardiaco, proprio mentre stava provando a affacciarsi al mondo del crowdfunding per provare a tornare sulle scene con nuove canzoni.

Avincola, oggi, lo riporta a suo modo in vita. E lo fa cantandolo e raccontandolo attraverso le voci di chi ha avuto modo di entrarci in contatto. Unico assente, e trattandosi di lui non poteva che essere così, proprio Pasquale Panella, spessissimo evocato, ma mai virgolettato.

In una recente videointervista col direttore di Rockol, Franco Zanetti, Avincola nel parlare di Carella e di questa sua passione per il recupero di belle storie ingiustamente dimenticate, vedi Stefano Rosso, dice che non gli dispiacerebbe in futuro occuparsi anche di un altro grande del passato troppo presto scomparso, sia dal pianeta Terra che dalla memoria, Franco Fanigliulo.

Questo mi riporta a quando ero poco più che un bambino, nel 1979.

All’epoca della scena che sto per raccontare avevo esattamente nove anni. Ne avrei compiuti dieci di lì a qualche mese, a giugno, ma siamo in inverno, ancora, tra l’11 e il 13 gennaio, per la precisione, quando dentro le nostre televisioni fa irruzione il Festival della Canzone Italiana numero ventinove.

Io quel Festival me lo ricordo bene. Ma siccome io non ho memoria, ve ne parlavo giorni fa, credo, è facile che quel che io mi ricordi sia più frutto dell’essere andato a guardare il guardabile a riguardo sul tubo, Mike Bongiorno con le basette che presenta affiancato da Anna Maria Rizzoli, lei molto morigerata nei commenti, seppur io poi ricordi di averla vista in certi giornalini che si trovavano imboscati dai ragazzi più grandi sotto le scale della Piazzetta, il punto di ritrovo nel quale ci si incontrava coi miei amici dell’epoca, alcuni dei quali amici anche oggi, giornalini che ci introducevano, erano anni senza internet, al mondo del sesso, e anche in certe pellicole piccanti, di quelli che inspiegabilmente davano al cinema di San Domenico, roba dal titolo L’insegnante al mare con tutta la classe o La ripetente fa l’occhietto al preside, neanche Marco Giusti credo sia riuscito a sdoganarli dalla loro aura trash, bella donna, ricordo, bionda naturale, qui a pronunciare con imbarazzo il titolo dei Pandemonium, Tu fai schifo sempre, Pandemonium per altro presentati da Mike con chiari intenti derisori, lei a dire “una canzone dal titolo piuttosto singolare, Tu fai schifo sempre”, lui a dire “I Pandemonium rappresentano un po’ la nuova scuola musicale, che va tanto di moda in questo momento in Italia. Cioè si presentano in tanti, cantano, suonano e ballano, ecco li vedete entrare adesso, vestiti nei modi più strambi ed eccentrici…”. Ottima presentazione, in effetti, gente bizzarra che come principale caratteristica l’essere in tanti e vestiti strani. Erano altri tempi, del resto, ci stava perfettamente che uno come Mike, un presentatore che aveva fatto successo proprio per quel suo modo un po’ risoluto di presentare, a maltrattare i concorrenti dei suoi quiz tanto quanto i cantanti in gara al Festival, con quelle leggendarie gaffes, non si è mai capito se in effetti tali o più un suo modo di prenderci in giro per fare spettacolo.

Quel che mi colpisce di quei ricordi, ripeto, non saprei dire se reali o indotti dall’aver visto quei video sul tubo, se Avincola nel suo libro opta per la polifonia, dando voce a tanti e tenendo in qualche modo fuori la sua, destinata a cantare poi le canzoni di Carella, io faccio esattamente il contrario, sto sempre in scena provando a fare del mio esserci un modo per accompagnare il lettore a spasso per la trama, quel che mi colpisce di quei ricordi, ripeto, non saprei dire se reali o indotti dall’aver visto quei video sul tubo, quindi, è il cast di quel Festival, e più nello specifico l’alto grado di sperimentazione di una parte del cast del Festival 1979. Sarebbe il caso di fare una piccola precisazione, il Festival era ieri come oggi certo evento importante per chi si occupa di cultura popolare e di musica leggera, ma sicuramente non centrale, tanto più allora, in quegli anni Settanta che erano stati la culla del cantautorato per come lo conosciamo ora, gli anni di Piombo che si preparavano a lasciare il campo al decennio dell’edonismo reaganiano.

Oggi si fa un gran discutere della presenza nel cast degli ultimi Festival, si fa un gran discutere quando si parla di argomenti effimeri come la musica, evidentemente, oggi si fa un gran discutere della presenza nel cast degli ultimi Festival di nomi appartenenti a quello che genericamente viene identificato come indie, alternative intendendo non tanto quel genere di pop sciattarello cui i vari Tommaso Paradiso e soci ci avevano abituati, quanto più che altro un mondo che è partito e a lungo ruotato intorno a etichette indipendenti quali Maciste Dischi, Garrincha Dischi, La tempesta, questo parlarne è figlio della persistenza della formula BIG e Giovani, in alcuni casi chiamati anche Emergenti, e qualcuno ha ipotizzato che nel secondo gruppo che questi nomi sarebbero dovuti andare, perché non di BIG nel senso tradizionale si tratterebbe, specie tenendo conto del pubblico tipo del Festival.

Ovviamente si tratta di quel chiacchiericcio che è complementare al Festival stesso, se non addirittura ne è colonna vertebrale, un voler fare le punte ai piselli, per intendersi.

Un tempo però, prima cioè che Pippo Baudo si inventasse questa divisione tra le categorie, e quando soprattutto il Festival della Canzone Italiana di Sanremo era ancora il Festival della canzone e non dei cantanti, ricordiamo che nelle prime edizioni alcuni interpreti cantavano più brani, andando in gara contro loro stessi, il cast era spesso abitato da figuri del tutto sconosciuti, nomi che magari erano noti ai discografici, non è che si capitava da quelle parti per caso, ma che il pubblico avrebbe conosciuto proprio grazie a quella importante vetrina. In quell’occasione, il Ferstival del 1979, vinto per altro dalla prescindibilissima Amare di Mino Vergagni, poi diventato stretto collaboratore di Zucchero, nonché coautore di alcune sue canzoni quali Diamante, tre nomi saltano all’occhio per tutta la loro potenza, tre nomi che oggi come oggi non fanno più parte del panorama musicale, in due casi non fanno più parte neanche di questo mondo, essendo i nomi legati a persone scomparse: Franco Fanigliulo, i già citati Pandemonium e appunto Enzo Carella.

Lasciamo da parte di Pandemonium, dei quali ho già scritto, vorrei ora concentrarmi un attimo su Fanigliulo, sia mai che quando Avincola ci metterà su le mani non possa dire che ci sono arrivato prima io.

Nato nel 1944 a La Spezia, Franco Fanigliulo era un artista poliedrico, in bilico tra canzone e teatro, con incursioni anche nel mondo del cinema e della televisione. Nel 1979 venne portato al Festival dalla CGD di Caterina Caselli con una canzone che era destinata a fare scalpore, A me mi piace vivere alla grande. Un brano scanzonato, perfetto per mettere in risalto le sue doti di performer anche molto fisico, e che presentava una strofa controversa come questa: “Adesso che Gesù ha un clan di menestrelli/ che parte dai blue jeans e arriva a Zeffirelli”, strofa che faceva chiaramente riferimento alla marca di pantaloni Jesus e al film Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli ma che sortirono accuse di blasfemia. Il testo, cui ha collaborato quel genio mai abbastanza celebrato di Oscar Avogadro e Daniele Pace, genio invece giustamente celebrato, a sua volta anima anche degli Squallor, si sposa perfettamente con una musica allegra, prodotta e arrangiata da Gian Piero Reverberi. Una canzone mostro, per certi versi, perché si è come fagocitata le altre contenute in Io e me, secondo album del nostro, come quelle del successivo Ratatam Pum Pum, per altro entrambi lavori usciti nel corso del medesimo anno.

Credo che il suo cantautorato sghembo, istrionico, a metà strada tra il non sense e una forma di malinconia menestrellesca che in qualche modo lo potrebbero indicare come un avo di quel Salvador Sobral che ha vinto negli anni scorsi Eurovision con la sua Amar Pelos Dois. Dopo un passaggio alla Numero 1, etichetta di cui a breve andrò a parlare, sotto l’ala protettiva di Shel Shapiro, anima dei Rokes che per lui produsse il Q Disc Benvenuti nella musica, siamo nel 1983, Fanigliulo si ritirò dalle scene, andando a vivere in campagna.

Ma la passione per la musica è difficile da mandare in pensione, è noto, anche perché Fanigliulo è giovane, ha solo trentanove anni. Arrivano quindi due incontri importanti, prima col team di lavoro di Vasco Rossi, Gaetano Curreri in primis, che gli produce il singolo L’acqua minerale, uscito per l’etichetta di Vasco Bollicine, poi inizia una collaborazione e amicizia con Zucchero, andando a lavorare con lui in studio a Blue’s, masterpiece della produzione fornaciariana nonché uno dei dischi più venduti di sempre in Italia.

Nel 1988, mentre sta lavorando al suo nuovo album dal titolo Sudo ma godo, una emorragia cerebrale lo ucciderà, ponendo fine a una delle carriere più originali e bislacche del nostro panorama musicale.

L’album uscirà, per Bollicine col titolo “Goodbye mai” l’anno successivo, il lavoro portato a termine proprio per precisa volontà sia di Vasco che di Zucchero, desiderosi di non lasciare incompiuta l’opera di quello che è stato a suo modo un altro genio incompreso.

Geni incompresi in assoluto, ma non in quello specifico Festival, dove appunto Carella si piazzerà secondo con Barbara, Fanigliulo sesto e i Pandemonium decimi. Di tutto questo oggi sarebbero rimaste lacrime nella pioggia, non fosse per Avincola che, almeno per ora, si è dedicato anima e corpo a ridar vita alle opere e ai ricordi Enzo Carella. Godiamone insieme a lui.